Lotta, vicinanza, missione (8) «Il vostro cuore si rallegrerà» Il senso cristiano del sacrificio (II)

Per i cristiani, il valore del sacrificio si cela nel desiderio, mite e umile, di unirsi alla sofferenza di Gesù nella sua passione e di liberare il cuore da tutto ciò che lo incatena: nell’aspirazione a una vita più leggera, più luminosa, più libera.

Con immensa delicatezza, ma profondamente sconvolti, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo depongono il Signore dalla croce e lo affidano alle braccia di sua madre. Santa Maria accarezza suo Figlio con la tenerezza di quella notte lontana a Betlemme; gli chiude gli occhi, lo bacia sulla fronte. Piange, crede, spera… E così, attraverso questa prova tanto dura, sostiene una Chiesa ancora minuscola: il «popolo che nascerà» (Sal 22,32), che sta già nascendo.

La mattina della domenica di Pasqua dissiperà tutte le tenebre. Senza la resurrezione, non solo la passione e la morte di Gesù, ma anche tutta la sofferenza e il dolore della storia, si sarebbero trasformati in una crudele beffa. Ma la vittoria di Gesù sulla morte ha cambiato per sempre i punti di riferimento. Da allora è possibile soffrire e donarsi per amore, con la fiducia di Gesù: «Do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo» (Gv 10,18); «vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà» (Gv 16,22). Questa gioia nell'accogliere e scegliere la croce, nelle piccole e grandi cose, è una grazia speciale di Gesù risorto[1].

Fonte di vita

San Paolo spiega che la morte di Gesù crocifigge l’«uomo vecchio» (Rm 6,6; Ef 4,22). È una morte che ha senso solo dal punto di vista della vita a cui darà origine: la vita della grazia, dello Spirito, l’«uomo nuovo» (Ef 4,24). Allo stesso modo, il sacrificio e la mortificazione cristiana non hanno senso da soli, come se rinunciare alla propria vita fosse, di per sé, qualcosa di buono. La mortificazione ha senso nella misura in cui è vivificatrice, fonte di nuova vita. Il cristiano riconosce in sé zone che lo privano di vita, che lo alienano, che creano divisione dentro di lui e intorno a lui… perché sono ancora sotto il dominio del peccato: tendenze malate, distorte o ferite che devono essere salvate, risuscitate da Cristo. Per questo, san Paolo avverte: «se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8,13).

È importante comprendere bene ciò che l’apostolo sta dicendo qui: di fronte alla chiamata a vivere secondo lo Spirito, con la “S” maiuscola, c’è la tentazione di vivere secondo la carne, cioè secondo tutto ciò che in noi —anima e corpo— si oppone a Dio[2]. Per questo, la vita «secondo la carne» non è forse tanto quella di un corpo selvaggio che calpesta un’anima innocente, quanto quella di un’anima frivola che corrompe e sfigura l’intera persona, nella sua unità di corpo e spirito[3]. Come dice Gesù, il male viene dal profondo: «Ciò che esce dall'uomo è quello che rende impuro l'uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità (…). Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo» (Mc 7,20-23).

Si comprende così che, per i cristiani, il valore del sacrificio non risiede nella sofferenza considerata in sé stessa, né in un ascetico assoggettamento del corpo, ma nel desiderio di liberare il cuore da tutto ciò che lo incatena; nell’aspirazione a una vita più leggera, più luminosa, più piena: una vita che irradi semplicità e gioia. Il cristiano non cerca il dolore per il dolore; non è un masochista. Tuttavia, scopre tante volte, in sé stesso e negli altri, profondità di egoismo, di sensualità, di avidità. Liberarsi e aiutare altri a liberarsi da tutto questo, soprattutto quando ha radici profonde, non è possibile senza rinuncia. Sì, aprire il cuore può fare male, come accade quando si recupera il flusso sanguigno in un arto intorpidito dal freddo: può costare molto, ma è necessario.

«Allora digiuneranno»

«Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno» (Mt 9,15). Queste parole un po’ misteriose di Gesù annunciano dettagli importanti sullo stile di vita dei suoi discepoli. Da un lato, Egli è venuto nel mondo per rimanere, ed è venuto a portare la gioia, la vita «in abbondanza» (Gv 10,10): non solo non gli dispiace che godiamo della vita, ma si rallegra nel vederci sani e felici[4]. Dall’altra parte, finché la storia durerà, si percepirà l’assenza di Dio lì dove gli uomini preferiscono le tenebre del proprio egoismo alla luce del suo amore (cfr. Gv 3,19-21). E questo luogo è sempre, prima di tutto, il cuore di ciascuno. Nel nostro cuore, nelle nostre relazioni, nelle nostre case, è necessario fare spazio a Dio, poiché il nostro io tende a occupare ogni cosa. E dove regna l’io, mancano la pace e la gioia.

Il digiuno è una delle forme che, fin dall’inizio, ha costituito il combattimento dei cristiani per fare spazio a Dio nella loro vita, poiché il Signore stesso ha digiunato (cfr. Mt 4,2) e ci ha esortati a farlo, con il volto sereno (cfr. Mt 6,16-18). Il digiuno significa rinunciare in modo molto concreto e tangibile alla nostra tendenza a dominare e disporre delle cose. Attraverso questa pratica, che tocca qualcosa di così fondamentale come l’alimentazione per la sopravvivenza, ci spostiamo «dalla tentazione di “divorare” tutto per saziare la nostra ingordigia, alla capacità di soffrire per amore, che può colmare il vuoto del nostro cuore»[5]. San Josemaría diceva che il digiuno è una «una penitenza assai gradita a Dio»; tuttavia, aggiungeva «per un motivo o per l'altro, abbiamo fatto molte concessioni»[6].Infatti, se ci si limitasse strettamente alle disposizioni minime in materia, si potrebbe finire per digiunare molto poco. Per questo la Chiesa, come una buona madre, lascia ampio margine alla generosità e alla crescita spirituale di ciascuno, tenendo conto anche della salute del corpo.

La logica del digiuno, segnata da questo desiderio che Dio cresca e che io —con il mio egoismo, con la mia voglia di impormi— diminuisca (cfr. Gv 3,30), permette di comprendere il senso di tante altre privazioni volontarie: sacrifici che, sebbene sembrino restringere la vita, in realtà la ampliano; la rendono più libera. Rinunciando volontariamente a certi beni, andiamo imprimendo nel nostro cuore la convinzione che «solo Dio basta»[7]. In questo modo ci proteggiamo dall’idolatria, che «non offre un cammino, ma una molteplicità di sentieri, che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto»[8]. Chi non sa rinunciare a nulla finisce per essere schiavo di tutto, «deve ascoltare le voci dei tanti idoli che gli gridano: “Affidati a me!”»[9]; chi invece ha il coraggio di farlo, «si libera di molte servitù e può assaporare per intero l’amore di Dio nell'intimo del cuore»[10].

Da questo punto di vista, esistono molte possibili forme di «digiuno» o di rinuncia. A condizione che le scegliamo con il cuore, e non per un freddo senso del dovere, tutte possono renderci più liberi, «liberi di amare»[11]. Un digiuno digitale intermittente, ad esempio, che ci porta a mettere da parte il telefono in alcuni momenti della giornata, ci permette di migliorare le relazioni interpersonali e di sostenere conversazioni più autentiche, lontane da distrazioni che le intossicano. Rinunciare ad avere immediatamente tutto a portata di mano con pochi movimenti delle dita —informazioni, prodotti, esperienze— ci libera da una tendenza al possesso o al consumo che alla fine ci lascia vuoti. Fare a meno di un servizio o scegliere talvolta qualcosa di meno comodo o piacevole ci aiuta a godere della semplicità e ci fortifica di fronte alle contrarietà, che non mancano nella vita di nessuno. Evitare che la nostra attenzione si disperda durante il lavoro ci permette di trasformarlo in un vero servizio e di gioire dei risultati. Rinunciare a del tempo libero per occuparci di un malato o di qualcuno che ha bisogno di aiuto ci allarga il cuore e impedisce che si indurisca; ci insegna persino a convivere con la nostra imperfezione e fragilità.

Anche nella logica della libertà del cuore —la libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21) — si inseriscono varie pratiche di mortificazione del corpo e della sensibilità, che hanno assunto forme diverse tra i cristiani nel corso della storia. Come il digiuno, queste pratiche rispondono alla convinzione che sia necessario pregare anche con il corpo e che una certa lotta per reintegrare le varie sfere della nostra persona sia inevitabile. Così, quando un cristiano tratta il proprio corpo o i propri sensi con maggiore esigenza, non lo fa perché li consideri qualcosa di negativo o sospetto, ma perché percepisce la tendenza del suo cuore a disperdersi in mille direzioni e, soprattutto, il costo reale di questa dispersione: l’incapacità di amare. O, ancora di più, perché sente il desiderio, mite e umile, di associarsi alla sofferenza di Gesù nella sua passione. San Paolo parla di portare nel corpo la morte del Signore per risorgere con lui (cfr. 2Cor 4,10); ed è a questo percorso, a questa Pasqua, che obbediscono anche tali sacrifici. È vero che a volte queste pratiche possono aver portato a eccessi o a incomprensioni da parte di chi non concepisce che si possa soffrire affinché Gesù viva in noi. Tuttavia, tra chi esagera da una parte e chi si scandalizza dall’altra, emerge la serenità, la semplicità e la libertà di spirito con cui molti cristiani esprimono, anche in questo modo, il loro amore per Gesù: «cuore, cuore in Croce! cuore in Croce!»[12].

Dare la vita per i suoi amici

«Voglio l’amore e non il sacrificio», dice Dio attraverso il profeta Osea (Os 6,6). Gesù riprende queste parole nel Vangelo (cfr. Mt 9,13), non per annullare la pratica del digiuno e della mortificazione, ma per sottolineare che ogni sacrificio deve essere orientato all’amore. San Josemaría lo spiegava così: «Preferisco le virtù alle austerità, dice con altre parole Jahvè al popolo eletto, che s’inganna con certi formalismi esteriori. — Per questo dobbiamo coltivare la penitenza e la mortificazione come vere manifestazioni di amore verso Dio e verso il prossimo».[13] In questo senso, era solito dire che le mortificazioni preferite da Dio erano quelle che rendevano la vita più piacevole agli altri. Anche in questo, riecheggiavano le parole del Signore: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13).

La disponibilità a dare la vita per gli altri, se è sincera, non ha bisogno né può aspettare situazioni straordinarie, perché trova una moltitudine di occasioni nella vita quotidiana. San Josemaría ne elencava alcune: «Quella parola ben trovata, la battuta che non uscì dalla tua bocca; il sorriso amabile per colui che ti annoia; quel silenzio davanti a un’accusa ingiusta; la benevola conversazione con i seccatori e gli importuni...»[14].

In queste, e in molte altre situazioni, lo sguardo del cristiano, come quello di Gesù, non è centrato sulla propria sofferenza, ma sul bene che rende la croce una realtà amabile. «Sacrificio, sacrificio! — È vero che seguire Gesù — l’ha detto Lui — vuol dire portare la Croce. Ma non mi piace sentire le anime che amano il Signore parlar tanto di croci e di rinunce: perché quando c’è Amore, il sacrificio è gradito — anche se costa — e la croce è la santa Croce. — L’anima che sa amare e darsi così, si riempie di gioia e di pace. Allora, perché insistere sul «sacrificio», come per cercare consolazione, se la Croce di Cristo — che è la tua vita — ti rende felice?»[15].

San Josemaría sottolinea il valore positivo del sacrificio fatto per amore, indicandolo persino come fonte di pace e di gioia. Proprio per questo, respinge con fermezza le modalità «doloriste» o «vittimiste» di intendere il sacrificio[16]. A volte c’è chi sembra insistere sul componente di rinuncia che comporta seguire il Signore, quasi cercando uno sguardo di conforto, dimenticando che la rinuncia è fonte di vita solo per la sua unione con la croce di Gesù. In questi casi, l’attenzione si concentra sul dolore provato, sul proprio sforzo spirituale. Ma il sacrificio cristiano non si propone di dimostrare un’eroica capacità di sopportare la sofferenza, bensì di formare in noi un cuore come quello di Cristo, un cuore trafitto, «completamente aperto»[17].

Gesù non spiegò la sua morte come una dimostrazione di coerenza verso dei principi o come un’esibizione della sua resistenza spirituale, ma come un dono per persone concrete: «il mio corpo, che è dato per voi» (Lc 22,19). Tutta l’attenzione di Gesù è rivolta a noi, non a se stesso. Per questo, se riducessimo il senso della nostra mortificazione al nostro stesso soffrire, non solo svilupperemmo una spiritualità negativa e triste, lontana dal Vangelo, ma rischieremmo soprattutto una certa superbia spirituale che potrebbe rendere sterili i nostri sacrifici. È necessario guardare molto oltre: comprendere il sacrificio come un grande sì a Dio e agli altri, come un grande sì alla Vita.

C’è una grande differenza tra chi centra l’obiettivo sul soffrire e chi lo centra sull’amare, anche se l’amore può far male. Per questo, l’invito di Gesù a prendere la sua croce si potrebbe intendere così: ama anche se fa male —perché a volte farà male—, e confida nella risurrezione; cerca sopra ogni cosa il Regno di Dio e la sua giustizia (cfr. Mt 6,33) e affida tutto nelle mani del Padre (cfr. Lc 23,46). Questo è il sentimento del cuore di Cristo e del cuore dei suoi: illuminare un mondo avvolto nelle tenebre con una gioia radicata nella croce[18]; camminare nella vita con «la Croce sulle tue spalle, con un sorriso sulle labbra, con una luce nell’anima»[19].

Gonzalo de la Morena – Carlos Ayxelà

[1] Il profeta Isaia anticipava già, con parole che colpiscono attraverso i secoli, quella grazia che sarebbe scaturita dalla Croce e dalla Resurrezione, e che raggiunge tutti coloro che abbracciano quel cammino: «Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce (…) Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli». (Is 53,10-12).

[2] Cfr. Rm 8,7-9: «Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi».

[3]In questo senso, san Paolo parla del rispetto dovuto al corpo, affermando che è «membro di Cristo» e «tempio dello Spirito Santo» (1Cor 6,15-19); «Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa» (Ef 5,29).

[4] Cfr. Sir 14,11.14: «Figlio, nella misura in cui ti è possibile, procura il tuo bene (…). Non privarti di un giorno felice e non lasciarti sfuggire alcuna parte di un buon desiderio».


[5] Francesco, Messaggio per la Quaresima, 2019.

[6] San Josemaría, Cammino, n. 231.

[7] Santa Teresa di Gesù, Poesie, n. 30, in Opere Complete, Libreria Editrice Vaticana, Edizioni OCD, 2010.

[8] Francesco, Enc. Lumen Fidei, n. 13.

[9] Ibídem.

[10] San Josemaría, Amici di Dio, n. 84.

[11]F. Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 6.

[12] San Josemaría, Via Crucis, 5a stazione.

[13] San Josemaría, Solco, n. 992.

[14] Cammino, n. 173.

[15] Solco, n. 249.

[16] Cfr. Cammino, edizione critico-storica, commento al n. 175.

[17]J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Edizioni Sígueme, Salamanca, 2007, p. 189.

[18]Cfr. San Josemaría, È Gesù che passa, n. 43; Forgia, n. 28.

[19] Via Crucis, 2.ª stazione, n. 3.