Lotta, vicinanza, missione (4) «Non rattristate lo Spirito Santo»: La tiepidezza

La tiepidezza è una malattia del cuore, per la quale le cose di Dio ci disgustano e arriviamo persino a convincerci che la vita, la vera vita, sia altrove.

È una delle prime e più celebri teofanie riportate nella Bibbia: l’angelo del Signore appare a Mosè sul monte Horeb come una grande fiamma di fuoco in mezzo a un cespuglio. Mosè «guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: “Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”» (Es 3, 2-3). Dio è Amore, una fiamma d’amore sempre nuova, che non si esaurisce con il passare del tempo, lasciando dietro di sé solo tizzoni fumanti. Il suo amore arde eternamente, dando calore e luce a chi si lascia abbracciare da esso. Per questo Dio dice a Mosè: «Io sono colui che sono!» (Es 3, 14). Egli è Amore, un amore fedele, sempre vivo. E, nel crearci a sua immagine (cfr. Gn 1, 27), ci ha destinati a un amore così: il nostro cuore non è in grado di vivere con meno. Il nostro amore può essere solo un amore ardente, che si rinnova e cresce nel tempo.

Forse abbiamo avuto qualche volta l’esperienza di tornare in una casa in cui abbiamo vissuto in passato: un luogo dove abbiamo amato, dove abbiamo dato e ricevuto affetto. Ora la troviamo vuota e abbandonata, forse persino in rovina. Un acuto sentimento di nostalgia ci attraversa il cuore, pensando a quanto eravamo felici in quel luogo. Qualcosa di simile accade quando i nostri sentimenti di amore si raffreddano e si spengono. Fanno pena. Un amore pieno di calore, che racchiudeva una promessa eterna di gioia, un amore che era tutto..., e che, tuttavia, è diventato cenere. Che peccato! Lo esprime bene un famoso scrittore: «Com’è terribile quando uno dice: “ti voglio bene” e dall’altra parte la persona grida: “Cosa?”»[1]. Così è la tiepidezza, un amore prezioso nella sua origine, un amore che prima rallegrava il cuore e riempiva di luce la nostra vita, ma che si è andato consumando fino quasi a spegnersi: un amore che non ha resistito al trascorrere del tempo.

Una morte lenta

Per raffreddarsi, è necessario essere stati prima accesi, innamorati. Per questo la tiepidezza non è un rischio per chi si è appena innamorato: il suo amore è ancora troppo fresco, troppo ingenuo. La tiepidezza è invece un pericolo reale per qualsiasi amore che è acceso già da tempo. Non si tratta di una morte improvvisa, ma di una malattia che avanza quasi impercettibilmente: una morte lenta, come la cosiddetta “morte bianca” degli alpinisti, un mix fatale di freddo e di stanchezza, in cui il corpo perde progressivamente la sua reattività e finisce per cedere a un sonno dolce ma letale.

La riflessione sulla tiepidezza sorge fin dai primi tempi della storia della Chiesa. Nei secoli III e IV, Origene ed Evagrio Pontico parlavano dell’accidia, uno stato di disgusto e pigrizia dell’anima che non si presenta nelle prime ore del giorno della vita, ma quando il sole ha già percorso un buon tratto e brilla alto nel cielo. Per questo motivo, ispirandosi al salmo 91, parlavano del «demone di mezzogiorno»[2]. Accidia (akedia) significa, letteralmente, trascuratezza, indolenza. Anche se nel tempo alcuni autori la distingueranno dalla tiepidezza (tepiditas), entrambi i termini definiscono lo stesso panorama spirituale: un «raffreddamento della carità, che s’intorbida con la trascuratezza e la pigrizia»[3], una trascuratezza che mette in discussione la dedizione, perché «ipsa caritas vacare non potest; l’amore stesso non può stare inerte»[4], non può andare in vacanza.

Il beato Álvaro scrisse una volta alcune righe particolarmente energiche sul pericoloso avanzare della tiepidezza: «Incapace di vedere il bene e attentissima a ciò che lusinga l’ego, la volontà tiepida lascia che si depositi nell’anima il marciume dell’egoismo e della superbia che, sedimentando, dà all’agire un sapore sempre più carnale. Se non si intercetta il male, si consolidano con accresciuto vigore i desideri più infami marcati dalla tiepidezza, e nasce l’ansia di gratificazioni, l’irritabilità per qualsiasi obbligazione o sacrificio, le lamentele per motivi banali, i discorsi vuoti o centrati su sé stessi (…). Compaiono le mancanze di mortificazione e di sobrietà, i sensi sono eccitati da violente pulsioni, la carità si raffredda e si perde il fervore apostolico che fa parlare di Dio con incisività» [5].

È l’itinerario della tiepidezza. A poco a poco, la tristezza si insinua nell’anima, oscurando tutto: ciò che prima riempiva il nostro cuore ora non ci dice più nulla, e cominciamo a ragionare in modo mondano. La tiepidezza produce una distorsione dei sensi dell’anima, per cui le cose di Dio ci disgustano; e arriviamo persino a convincerci che la vita, la vera vita, si trovi altrove. Per esperienza personale, sant’Agostino scriveva: «non è cosa sorprendente, se al palato malsano riesce una pena il pane, che al sano è soave; se agli occhi offesi è odiosa la luce, che ai vividi è amabile»[6].

Come si arriva a tale stato? Come può un amore vibrante raffreddarsi in questo modo? Si potrebbe dire che alla base c’è una disillusione della vita, forse a causa di delusioni e difficoltà che hanno fatto perdere il candore e il fervore dei primi passi. Quel punto di svolta può passare relativamente inosservato, ma si insinua nell’anima. Si comincia a ridurre il tempo dedicato a Dio, perché il piano di vita sembra una mera accumulazione di obblighi; si smette di sognare e di impegnarsi per la missione apostolica, forse a causa dell’ostilità dell’ambiente o per il disincanto nel vedere pochi frutti. «Tutti sappiamo per esperienza che a volte un compito non offre le soddisfazioni che avremmo desiderato, i frutti sono scarsi e i cambiamenti sono lenti e uno ha la tentazione di stancarsi. Tuttavia, non è la stessa cosa quando uno, per la stanchezza, abbassa momentaneamente le braccia rispetto a chi le abbassa definitivamente dominato da una cronica scontentezza, da un’accidia che gli inaridisce l’anima»[7]. Questo tipo di malcontento fa sì che, a poco a poco, il cuore si raffreddi «per l’abbandono, per l’apatia, per la svogliatezza quando, ogni giorno, arriva il momento di esaminare il proprio comportamento: oggi lasciamo perdere questo; domani non diamo importanza a quest’altro, omettiamo senza motivo una mortificazione, ci sfugge una mancanza di sincerità…, e ci andiamo abituando a queste cose che dispiacciono a Dio, senza trasformarle, mediante l’esame di coscienza, in materia di lotta. È così che si imbocca la strada che porta alla tiepidezza, non dimenticatelo. Dalle fessure dell’esame negligente penetra il freddo che finirà per raggelare l’anima»[8].

Dio bussa alla porta del nostro cuore.

Nei primi passi dell’Apocalisse ci sono delle righe molto celebri che possono sorprendere per la loro durezza: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3, 15-16). Le righe che seguono, forse meno conosciute, aiutano a capire cosa vuole dire Dio con queste parole forti: «Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo» (Ap 3, 17-18). L’accumulo di qualificativi, che potrebbe dare l’impressione di un accanimento nei confronti del tiepido, ci permette in realtà di affacciarci al cuore di Dio. Il Signore gli parla con forza per aiutarlo a comprendere la sua situazione, molto simile a quella di quell’uomo della parabola evangelica che, dopo un’ottima raccolta, diceva tra sé: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!» (Lc 12, 19). Il suo errore è che accumula per sé stes so e non «si arricchisce presso Dio» (Lc 12, 21). Non si rende conto di essere ripiegato su sé stesso e che così sta andando dritto verso la rovina.

Alle parole dure dell’Apocalisse seguono altre piene di sollecitudine paterna, che mostrano come Dio non solo non disperi di noi, ma faccia tutto il possibile per cambiare il nostro cuore: «Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista. Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo. Sii dunque zelante e convertiti. Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 18-20). Il Signore desidera tirarci fuori da questo stato deplorevole; bussa alla porta della nostra anima perché vuole che torniamo all’intimità con lui… ma ha bisogno che facciamo la nostra parte, che impieghiamo i mezzi per riaccendere il nostro amore.

Per prevenire e curare la tiepidezza

«Prendeteci le volpi, le volpi piccoline che devastano le vigne: le nostre vigne sono in fiore» (Ct 2, 15). La tiepidezza si radica nell’anima quando si perde la delicatezza con Dio, quando la fiducia diventa disinteresse. È vero, non possiamo offrire al Signore una perfezione impeccabile, ma possiamo essere delicati e attenti con lui. E di questa delicatezza fa parte anche la contrizione, quando ci rendiamo conto di averlo trattato male, o che ci è mancato affetto. Per questo è necessario prestare attenzione alle piccole cose e risvegliare la contrizione per le nostre resistenze all’amore, come ad esempio omettere o ritardare un momento di preghiera per attivismo, arrivare in ritardo a cena per privilegiare le nostre cose, rinviare un servizio per pigrizia, fare una brutta faccia a una persona... Gli atti di contrizione, anche per cose così, accendono l’anima: ci permettono di ricominciare. «Ricominciare? Sì, ricominciare. Io, come te, mi immagino, ricomincio ogni giorno, ogni ora, ricomincio ogni volta che faccio un atto di contrizione»[9].

Abbiamo già accennato alla necessità di curare l’atteggiamento di esame, che implica un atteggiamento sincero con Dio e con noi stessi[10]. Da qui deriva, a sua volta, la sincerità con coloro che ci accompagnano nel nostro cammino verso Dio; una sincerità piena di docilità, per lasciarci esigere e così mantenere vivo il nostro amore. «La sincerità e la tiepidezza sono nemici e si escludono a vicenda. Perciò, chi è sincero trova la forza di combattere e di uscire dal cammino pericolosissimo della tiepidezza»[11].

Il nostro amore per Dio rimane giovane e si rinnova condividendolo con gli altri. «Quando una brace non prende fuoco, è segno che si sta raffreddando, che è quasi tutta cenere»[12], diceva san Josemaría in un’occasione. Infatti, quando il cuore non si emoziona con il desiderio che altri possano avvicinarsi a Dio e persino percorrere il nostro cammino, è segno che forse noi stessi ci siamo addormentati in una curva della strada. Rimedio per risvegliarsi: «Dimentica te stesso… La tua ambizione sia di non vivere altro che per i tuoi fratelli, per le anime, per la Chiesa; in una parola, per il Signore»[13].

Anche la magnanimità è un grande antidoto contro la tiepidezza: dedicare il meglio, ciò che è più prezioso della nostra vita, al Signore. San Giovanni ci racconta che, mentre Gesù si trovava a Betania, Maria «prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo» (Gv 12, 3). Il miglior profumo, il nostro tesoro più grande, il nostro tempo migliore deve essere per il Signore. È un cattivo segno, invece, che sorgano in noi valutazioni simili a quelle di Giuda, al quale tutto sembrava eccessivo per Gesù: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?» (Gv 12, 5). Giuda, infatti, alla fine vendette il Maestro per il prezzo di uno schiavo... (cfr. Mt 26, 14-15). I piccoli o meno piccoli sacrifici, le vittorie, le mortificazioni, ci accendono dentro e allontanano la tiepidezza. Ricordano al nostro cuore che, nonostante tutta la sua fragilità, è capace di un grande amore: «Fammi di neve, Signore, / per le gioie umane, / di argilla per le tue mani, / di fuoco per il tuo amore»[14].

Tutti questi rimedi potrebbero essere riassunti con alcune toccanti parole di san Paolo: «non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio» (cfr. Ef 4, 30). Lo Spirito Santo, che non si ferma nel suo impegno di formare Gesù in noi, ha bisogno della nostra prontezza e della nostra docilità alle sue ispirazioni. Sotto le sue ali, la nostra vita acquisirà quel senso di missione che, distaccandosi dal calcolo e dalla mediocrità della tiepidezza, può riempirla di avventura: «Chi ha scelto di conformare tutta l’esistenza a Gesù non sceglie più i propri luoghi, ma va là dove è mandato; pronto a rispondere a chi lo chiama, non sceglie più nemmeno i propri tempi. La casa dove abita non gli appartiene, perché la Chiesa e il mondo sono i luoghi aperti della sua missione. Il suo tesoro è porre il Signore in mezzo alla vita, senza ricercare altro per sé. (…). Contento nel Signore, non si accontenta di una vita mediocre, ma brucia del desiderio di testimoniare e di raggiungere gli altri; ama rischiare ed esce, non costretto da percorsi già tracciati, ma aperto e fedele alle rotte indicate dallo Spirito: contrario al vivacchiare, si rallegra di evangelizzare»[15].

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Nella vita di nostra Madre non c’è traccia di tiepidezza. Se il fuoco che fa ardere il roveto simboleggia la presenza di Dio, il cespuglio stesso rappresenta la persona di Maria Santissima, che brilla senza consumarsi per la presenza dello Spirito Santo, Fuoco dell’Amore divino: «Ardevi come il roveto che fu mostrato a Mosè, e non bruciavi. Ti fondevi e non ti consumavi (…). Fusa al fuoco, riprendevi forze da quel medesimo fuoco, rimanendo sempre ardente»[16]. A lei chiediamo di aiutarci a mantenere sempre ardente l’amore di Dio; che l’amore per Santa Maria accenda il nostro cuore «in fiamma viva»[17].

José Brage Tuñón


[1] J. D. Salinger, Alzate l’architrave, carpentieri, Einaudi.

[2] Cfr. E. Boland, «Tiédeur», Dictionnaire de Spiritualité, vol. 15, c. 918. Cf. Sal 91 (90),6: «Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno».

[3] F. Ocáriz, Alla luce del Vangelo, Studium, Madrid, 2020.

[4] Sant’Agostino, Enarrationes in Psalmos 31, 5.

[5] Beato Álvaro del Portillo, Lettera pastorale, 9-I-1980, n. 31.

[6] Sant’Agostino, Confessioni, 7, 16.22.

[7] Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 277.

[8] Beato Álvaro, Lettera pastorale, 8-XII-1976, n. 8.

[9] San Josemaría, In dialogo con il Signore, n. 4.

[10] Cfr. San Josemaría, Lettera 1, n. 34.

[11] San Josemaría, Instrucción 8-XII-1941, nota 122.

[12] San Josemaría, Crónica, 1973, pp. 640-641.

[13] San Josemaría, Solco, n. 630.

[14] E. de Champourcin, Presencia a oscuras, Rialp, Madrid, 1952, p. 21.

[15] Papa Francesco, Omelia, 30-VII-2016.

[16] San Amadeo de Lausanne, Homilías marianas (Sources Chrétiennes, 72), III, 313-317.

[17] San Josemaría, Cammino, n. 492.