Nell’epoca imperiale, dopo un lungo periodo di pace e prosperità, Roma aveva raggiunto l’impressionante cifra di un milione di abitanti. Solo un’esigua minoranza risedeva in tranquille e spaziose ville, mentre il resto della popolazione doveva accontentarsi di vivere in case di vicini, o insulae. Erano edifici di vari piani, costruiti con materiale di scarsa qualità e molto vicini gli uni agli altri, in modo che il piano dell’Urbe consisteva in una densa e complicata rete di strade e stradine.
La Roma di quei tempi godeva di scoperte molto notevoli per l’epoca, come le terme e gli acquedotti. Ma per farsi l’idea delle condizioni di vita bisogna considerare che gli appartamenti erano ridotti – spesso di una sola stanza per ogni famiglia – e non avevano acqua corrente, riscaldamento né vetri alle finestre, e che frequentemente gli incendi distruggevano quartieri interi, anche per la piccolezza delle strade.
I romani vincevano queste scomodità delle loro case rimanendoci il minor tempo possibile. Si alzavano presto la mattina, per approfittare al massimo della luce solare: quando ancora stava sorgendo il sole, erano già usciti per strada e si dirigevano al luogo dove svolgevano il loro lavoro. Moltissimi rivolgevano i loro passi verso i fori, punto nevralgico della vita cittadina.
Lo splendore dell’Impero
Che contrasto si dava tra le modeste costruzioni dei quartieri popolari e la magnificenza degli edifici pubblici! Questi ultimi riflettevano l’immenso potere dell’Impero ed erano come un compendio della storia di Roma.
All’inizio – nel VI secolo a.C. – il Foro Romano funzionava da mercato, ma subito furono eretti luoghi di culto. Uno dei primi fu il tempio di Vesta, dove ardeva perennemente il fuoco sacro in onore di questa divinità locale. Al suo fianco c’era la Reggia, il palazzo regale che secondo la leggenda fu costruito da Numa, secondo re di Roma. Quando cadde la monarchia, questo edificio fu usato per custodire i Calendari e gli Annali, in cui si registrava la storia dell’Urbe.
Con la Repubblica aumentò l’attività politica, e il Foro si andò popolando di costruzioni destinate al governo e all’amministrazione. Ancora oggi si conserva in buono stato quello della Curia, dove deliberava il Senato. Invece resta poco del Comitium, la piazza circolare in cui si riunivano le assemblee per eleggere i magistrati. Sono scarsi anche i resti della tribuna chiamata i rostra, da dove si arringava al popolo. Gli episodi più cruciali della storia di Roma durante la Repubblica ebbero la loro origine in questa zona del Foro: i discorsi dei Gracchi per migliorare la situazione della plebe; la polemica tra Mario e Silla; le orazioni di Cicerone contro Catilina; la decisione del Senato di esigere a Giulio Cesare che abbandonasse il comando militare, ordine a cui Cesare disobbedì valicando il Rubiconde e prendendo l’Urbe; e la concessione del titolo di Augusto a Ottavio nel 29 a.C., che si considera l’inizio dell’epoca imperiale.
Il nuovo cambiamento di regime portò con sé ampliamenti e miglioramenti sempre più spettacolari dei Fori. Traiano, Nerva e Vespasiano: tutto era formidabile in quegli spazi pubblici, le ampie strade avevano pavimento di travertino, come le piazze, che erano solitamente presiedute da enormi statue; negli edifici si alternava la brillantezza dei bronzi con i toni grigi, bianchi e ocra dei marmi. Ogni dettaglio era stato disposto con cura per durare e impressionare, tanto nelle costruzioni religiose quanto in quelle civili.
Tra queste ultime si notavano per la loro prestanza le basiliche, nelle quali si celebravano i giudizi e si realizzavano transazioni commerciali. Il loro interno era molto ampio, con lo spazio distribuito in navate separate da colonne. All’esterno avevano due portici laterali sotto i quali c’erano, in fila, numerosi capannoni che vendevano ogni tipo di prodotti. I resti della basilica di Magenzio e Costantino danno l’idea delle enormi dimensioni che arrivavano a raggiungere questi edifici.
I monumenti commemorativi e le statue che adornavano i fori non avevano, invece, nessuna finalità pratica, almeno immediata. I più degni di nota erano le colonne, come quella di Traiano e gli archi di trionfo, come quelli di Tito, Settimio Severo, Costantino… Con rilievi intarsiati, si rappresentavano graficamente le campagne militari vittoriose, per lasciare traccia nei secoli successivi dei momenti di gloria di cui fu protagonista ogni imperatore, che sfilava con le sue truppe per la Via Sacra, tra gli applausi e le acclamazioni del popolo. Naturalmente esisteva il rischio che, con tanto encomio e acclamazioni, il potere desse alla testa all’Imperatore che poi pretendeva che i suoi sudditi dimenticassero la sua condizione di uomo mortale. Così successe in alcuni casi, quando la massima autorità si attribuì la condizione di dio, o rese onori divini ai suoi predecessori e anche a qualcuno dei suoi parenti. Augusto, per esempio, dedicò un tempio al Divus Julius; Antonino Pio ne costruì un altro in onore della sua sposa Faustina; e Magenzio ne edificò un terzo per ricordare il suo figlio Romolo.
La considerazione dell’imperatore come essere divino era in auge quando il cristianesimo arrivò nell’Urbe. Per i romani, era perfettamente compatibile con il politeismo, come mostra il fatto che gli stessi imperatori deificati costruirono templi sempre più grandi in onore di Marte, Venere, Apollo, Cibale… Quello che invece non era ammesso era che una religione pretendesse di essere l’unica vera e diffondesse, come logica conseguenza, l’idea che le altre erano false. Le autorità tolleravano qualunque novità a patto che si integrasse nel relativismo imperante. Ma questo non era il caso della fede cristiana…
Il sale della terra
“Fratelli, quanto può essere bella la Gerusalemme celeste, se così risplende la Roma terrena!”1. Queste parole di San Fulgenzio, trasmesse da uno dei suoi discepoli, riflettono la grande ammirazione che suscitava l’Urbe tra chi, viaggiando dalle province imperiali, la visitava per la prima volta. In quei momenti, agli inizi del VI secolo, Roma era già stata evangelizzata: gli antichi templi pagani erano chiusi da più di un secolo, e nello stesso Foro Romano erano state costruite alcune chiese cristiane. Nell’inno che dedica a San Lorenzo, il poeta Prudenzio esulta per la vittoria della fede nel cuore dell’Impero: i quiriti, cittadini romani di stirpe antica, riempiono gli atri della Chiesa; il fuoco che ardeva nel tempio di Vesta è ora estinto, e persino la decana delle vergini che lo custodivano, Claudia, si è convertita al cristianesimo; la Croce, in sintesi, domina sugli antichi segni pagani2.
Come fu possibile questo cambiamento? Oltre all’azione di Dio, uno dei fattori che lo spiegano è il fatto che i primi cristiani non si considerarono mai – per il fatto di aver abbracciato la fede – alieni alla loro città né al loro lavoro. Non erano pochi quelli che svolgevano il loro lavoro nei Fori, spesso in attività direttamente al servizio dell’Impero: già ai tempi di Pietro e Paolo alcuni erano patrizi e facevano parte dei trecento senatori che si riunivano in Curia; altri erano giureconsulti, avvocati o giudici; nell’Epistola ai Filippesi, che scrisse durante la sua prigionia a Roma, l’Apostolo Paolo manda i saluti da parte dei santi che vivevano nella casa di Cesare 3; nell’Epistola ai Romani cita i nomi di Aristobulo e Narciso, che erano stati collaboratori dell’imperatore Claudio4.
Quasi certamente si sa che alcuni membri della famiglia imperiale avevano abbracciato la fede già alla fine del I secolo. Tito Flavio Clemente e Flavia Domitilla, per esempio, erano una coppia imparentata con l’imperatore Domiziano. Avevano sette figli, e i due maggiori erano stati scelti come candidati al trono ed educati per questo fine dal famoso retore Quintiliano. Tuttavia, nell’anno 95 Flavio Clemente fu giustiziato repentinamente con l’accusa di ateismo, che si rivolgeva di solito contro i cristiani. Domitilla, che fu esiliata nell’isola Pandataria, è anche conosciuta perché erano di sua proprietà i terreni delle catacombe che portano il suo nome. Quanto ai figli, non arrivarono mai al trono, poiché nell’anno 96 proprio Domiziano fu assassinato e la dinastia Flavia finì.
La persecuzione e il martirio rappresentavano un pericolo reale per i primi fedeli cristiani. Ma anche in epoche di tranquillità, la vita corrente non era esente da ostacoli. Nella società romana, i costumi quotidiani erano pieni di atti di adorazione alle divinità: quando si chiedeva un prestito si esigeva un giuramento in nome degli dei, prima di occupare una carica pubblica bisognava offrire un sacrificio, passando davanti a un tempio o alla statua di una divinità era uso comune scoprirsi, e così una lunga lista di modi comuni di operare la cui omissione era considerata una dimostrazione di inciviltà e un tradimento ai costumi patri. Questo fu uno dei rimproveri più insidiosi che Celso rivolse ai cristiani:
Si negano ad osservare le cerimonie pubbliche e a rendere omaggio a chi le presiede? Allora che rinuncino anche a prendere la veste virile, a sposarsi, ad essere genitori, ad esercitare le funzioni della vita; che vadano tutti insieme lontano da qui, senza lasciare il minimo segno di sé5.
L’opinione pubblica di allora condivideva questa intolleranza verso i cristiani: quando meno, si giudicavano i cristiani come gente peculiare, che si sforzava di aiutare il prossimo, di essere fedeli nel matrimonio, pagare le imposte o evitare scrupolosamente ogni inganno negli affari, lo facevano per fanatismo verso la loro strana religione e volendo così mostrarsi superiori agli altri. Alle interpretazioni meschine, si univano le calunnie e gli aggravi, come quello che sopportò un giovane chiamato Alessameno nel Pedagogium, la scuola dei paggi che entravano al servizio dell’imperatore. Le aule di questa scuola erano nel Palatino, insieme ai Fori, e lì gli archeologi hanno trovato un graffite che rappresenta un uomo che prega davanti a un crocifisso con la testa di asino. Al fianco, l’iscrizione: Alessameno fedele. Fu la risposta audace del giovane Alessameno agli scherzi dei compagni.
D’altro canto, in molti ambienti dell’Impero la moralità si trovava in uno stato lamentevole: le feste erano piagate da rappresentazioni indegne, nel circo si dava gloria a uccisioni di uomini e il mondo dell’arte esaltava la voluttuosità; si ammetteva il divorzio e l’indice di natalità era molto basso, tra le altre cose perché si ricorreva all’aborto e all’infanticidio. Certamente non tutti i romani erano così, ed è vero che la morale decadde così tanto alla fine dell’Impero. Ma si mantenne sempre la costante per cui esistevano consuetudini pagane, molto diffuse, che andavano contro la dignità umana che il cristianesimo era venuto a ristabilire.
Davanti a tutto questo – ambiente degradato, persecuzione, calunnia, insulti e minaccia di martirio – i primi cristiani avrebbero potuto reagire scomparendo dalle realtà temporali e rifugiandosi in un ghetto, come suggeriva Celso: invece non passò loro neanche per la mente di farlo. Avevano scoperto la fede, la vocazione cristiana, la chiamata alla santità, in mezzo al loro lavoro: nel foro, nelle officine artigianali, nell’esercito, nel carro dove trasportavano le mercanzie… Non si sentivano meno romani dei loro concittadini: amavano la meravigliosa Urbe e consideravano l’Impero non solo buono, ma provvidenziale, poiché aveva reso propizia una unità politica e culturale nella quale si diffondesse più facilmente la fede. L’unica cosa che rifiutavano erano le divinità false e le consuetudini brutali, che desideravano purificare perché erano pienamente consapevoli di essere il sale della terra6.
Gente comune
Tra le rovine del Foro Romano è facile che venga in mente l’idea che tante volte usava san Josemaría per descrivere l’Opus Dei in poche parole: il modo più semplice di capire l’Opus Dei è pensare alla vita dei primi cristiani7. Molte volte ripeteva, nei primi mesi a Roma, frasi simili a quella di anni più tardi: Essi vivevano a fondo la loro vocazione cristiana; cercavano seriamente la perfezione a cui erano chiamati per il fatto, semplice e sublime, del battesimo. Non si distinguevano esteriormente dagli altri cittadini. I membri dell’Opus Dei sono persone comuni; svolgono un lavoro normale, vivono in mezzo al mondo come quello che sono: cittadini cristiani che vogliono rispondere con pienezza alle esigenze della loro fede8.
Il Concilio Vaticano II proclamò che tutti i fedeli sono chiamati alla santità e che corrisponde ai laici la responsabilità di portare a Cristo le realtà temporali. Negli anni ’40 molti identificavano la perfezione cristiana in mezzo al mondo, esercitando tutte le professioni e incarichi onorevoli.
Pensa a ciò che dice lo Spirito Santo, e riempiti di stupore e di gratitudine: “Elegit nos ante mundi constitutionem” — ci ha scelti, prima di creare il mondo, “ut essemus sancti in conspectu eius!” — per essere santi al suo cospetto.— Essere santi non è facile, ma non è neppure difficile. Essere santo vuol dire essere buon cristiano: assomigliare a Cristo. — Chi più assomiglia a Cristo, più è cristiano, più di Cristo, più santo.— E quali mezzi abbiamo? — Gli stessi dei primi fedeli, che videro Gesù, o che lo intravvidero attraverso i racconti degli Apostoli o degli Evangelisti.9.
Con questi mezzi si fecero santi i cristiani dei primi secoli in mezzo a una società pagana, almeno in parte corrotta e che li perseguitava con violenza. E con questi mezzi fecero apostolato lì dove si trovavano, fino a trasformare dal di dentro una civiltà ostile alla fede. Per seguire le orme di Cristo, l'apostolo di oggi non viene a riformare nulla, né tanto meno a disinteressarsi della realtà storica che lo circonda... Gli basta agire come i primi cristiani, vivificando l'ambiente in cui si trova10.
Note:
1. Vita di San Fulgencio di Ruspe, III, 27.
2. Cfr. Prudenzio, Peristephanon, II, 513-529.
3. Cfr. Fil 4, 22.
4. Cfr. Rm 16, 11.
5. Citato da Origene, Contra Celso, VIII, 55.
6. Mt 5, 13.
7. Colloqui, n. 24
8. Ibidem
9. Forgia, 10
10. Solco, 320