Un canto di lode senza fine

Nella Regione di Rukwa, la più povera della Tanzania, dal 2017 gli studenti e i docenti dell’Università Campus Bio-Medico di Roma partecipano al medical workcamp coordinato dalla onlus Golfini rossi. Pubblichiamo la testimonianza di Maria Stella, una studentessa che ha partecipato all’edizione del 2019.

Un abbraccio e poi si parte. Si parte verso una terra rossa, calda, lontana; dove il vento alza la polvere che invade volti e pensieri. Nuovi sorrisi e braccia che ti aspettano, accogliendo la tua anima stanca e viandante. Ti salutano: “Karibu!”, “Benvenuto, sei a casa!”. È una casa diversa da quelle che hai sempre visto, dove alle volte manca l’elettricità, dove l’acqua non è potabile e dove animali e insetti convivono in armonia, creando con il battito delle loro ali una perfetta sinfonia.

Questo rapimento diventa in un istante realtà feconda e la creatura si ritrova a ringraziare Dio per il creato

Poi c’è un sentiero dove non ci sono lampioni e il buio fa spazio a una notte stellata. Ti ritrovi con gli occhi immersi in quello spettacolo luminoso. Ti senti improvvisamente parte del Tutto. Una bellezza luminosa che attira l’anima e percuote il cuore. “Tutto qui accade per te”. Questo rapimento diventa in un istante realtà feconda e la creatura si ritrova a ringraziare Dio per il creato.

Tutto scorre lentamente: il ritmo dell’Africa ti sveglia alle prime luci del mattino. È il suono del bongo. La mattina inizia con un canto: è il canto dei monaci di Mvimwa che pregano nella loro piccola chiesa; è un canto di lode, di gioia. Ogni giorno è un “Jambo! Habari jako?”, “Ciao! Come stai?”, perchè il saluto è fondamentale. Non hanno fretta , non sono avari con il tempo, si fermano e ascoltano la risposta. Perché qui si vive sul “Pole Pole”, con calma, piano. Perchè devi andare veloce? Tutto qui accade per te. Per guardare e apprezzare qualsiasi cosa, nella sua maestosa unicità e renderla eterna nella tua mente, è importante fermarsi. Bisogna respirare, aprire gli occhi; rimanere attenti al miracolo che è attorno a te e accogliere la risposta che si cela dietro un volto, un paesaggio, un abbraccio.

Bisogna accogliere la risposta che si cela dietro un volto, un paesaggio, un abbraccio

Su un immenso masso c’è scritto “Ora et labora”. È faticoso lavorare, specialmente quando la realtà ti immerge, sotto un sole cocente, nell’ospedale di Namanyere, dove la sofferenza dimora nel corpo di ogni persona. Qui le persone non si possono permettere di comprare farmaci o di avere un intervento chirurgico immediato. Qui le persone attendono la loro visita per ore senza lamentarsi, osservandoti in silenzio. È un’umanità che lotta, soffre e spera. Un luogo in cui la salute non è un diritto per tutti ma un lusso per pochi.

Visiti tanti bambini e i tuoi occhi vedono in ogni angolo ogni forma di dolore, un dolore inimmaginabile. L’addome gonfio, le urla, le lacrime, il loro sguardo spento privo di qualsiasi speranza; perché è una sofferenza che non ha più voce. Finisce la giornata e ti ritrovi sopra un muretto con la testa tra le mani e davanti a te la luce rossa del tramonto infiamma il cielo di un rosso fuoco. La rabbia e l’impotenza dinanzi all’iniquità si trasforma in un “perché” senza risposta, un misto tra disperazione e incanto. Si sente la stanchezza ma anche questa è animata da un amore paziente.

È un amore non astratto, ma concreto, e lo si vive parlando con le ragazze del villaggio. Bambine che sono diventate donne troppo in fretta, che non si stancano di portare ogni giorno secchi giganti sulla testa perché quella fatica porterà cibo e acqua per la loro famiglia. Nessuna lamentela ma soltanto tanta gratitudine verso Dio… perché hanno le gambe, gambe che servono per arrivare al pozzo tanto lontano. Ci sono tante mamme nel dispensario di Mvimwa, e si riconoscono dal “kitenge”: un telo magico e colorato dove avvolgono il loro piccolo e se lo portano sulle spalle, come se fosse una parte del loro stesso corpo, indispensabile per poter continuare il cammino.

Nella scuola del villaggio ci sono i piccoli studenti con i golfini rossi che ti danno il benvenuto cantando l’inno della Tanzania. Il mondo è dei bambini. Ti salutano, ti sorridono, ti accarezzano i capelli, ridono perché sono buffi. Bambini che ti guardano con uno sguardo talmente profondo che ti mette in imbarazzo. Sguardo che ha un vissuto una storia e nel momento in cui ricambi con un sorriso, i loro volti esplodono di gioia perché hanno smascherato il bambino che è in te.

Allora si ritorna bambini, giocando con loro ad ogni tipo di gioco ti venga in mente. Si balla, si salta, ci si rincorre , si canta. È sempre festa quando si sta con loro. Non hanno niente, hanno le scarpe rotte ma il loro cuore canta e tutto diventa improvvisa allegria. Sono istanti della vita preziosi e incisi nella mente come eterni.

Poi si rientra a casa, dove l’ospitalità dei monaci è un dono che sradica qualsiasi dubbio. Non è solo accoglienza e condivisione ma è una speranza che prende la forma di occhi che sorridono, di un pasto caldo che ti aspetta, di braccia sempre pronte ad accoglierti. È l’esperienza entusiasmante di essere invitato, accolto, voluto bene anche se non ci si conosce.

È uno stupore continuo per noi che viviamo in un contesto umano, sociale e culturale che ha distrutto l’esperienza più elementare: quella di aprire le porte del cuore allo straniero, che così diverso da me non è. Non c’è separazione, non c’è distinzione: è un orizzonte continuo che accoglie proprio l’estraneo, quell’estraneo che “ha qualcosa di divino che vince qualsiasi distanza”[1]. La fede svelata nella sua profondità è il miracolo dell’ospitalità.

Davanti alla distesa di Kate ti appare tutto così chiaro: solo l’amore conta e solo l’amore crea. Siamo chiamati a lasciarci conquistare da questo disarmante fascino di bellezza divina avvolto da una vera libertà. Cambia il concetto del tempo quando si sperimenta un’esperienza di fedeltà. Non è tanto la quantità del tempo ma la qualità. Dare il meglio di sé nel tempo che ci è stato dato. Avere cuori impavidi, facendo quello che si è chiamati ad essere. Imparare ad ascoltare e a donare parole di vita. Mettersi in cammino alla ricerca di quello che il cuore desidera. Non sprecare nemmeno un minuto dietro a cose futili, discorsi inutili o vecchi rancori. Ricevere con umiltà la povertà del nostro essere per assaporare la pace inattesa di chi si riscopre amato. Alla fine non rimarrà il lavoro, i soldi… niente di tutto ciò: saremo misurati sull’amore.

L’amore donato. Riconoscendo tutte le difficoltà e le sofferenze che sono insite nell’amare, perchè “anche la letizia ha le sue lacrime”[2]. Lacrime che celano una promessa di bene più grande.

Benedire ogni attimo perchè unico e irripetibile così come viene nella sua imperfetta perfezione.

Grazie perchè c’è, esiste, è per te. Grazie per questo Niente che per me è Tutto. Grazie perché posso condividerlo con chi mi sta accanto. È il Mistero, presentimento d’amore che fa del quotidiano una meravigliosa poesia. Un disegno indecifrabile che si svela poco a poco, intrecciato di cieli, di stelle che traboccano di grande Grazia.

Allora dico “Asante sana Mvimwa, asante sana Tanzania”, “Grazie mille Mvimwa, grazie mille Tanzania”. Un interminabile saluto che naviga da nome a nome e fa da cornice a paesaggi e istanti racchiusi in un “per sempre”. Adesso bisogna fare memoria di quello che si è vissuto e richiamarlo ogni giorno con un canto di lode senza fine.

Maria Stella Valente


[1] Luigi Giussani, Il miracolo dell’ospitalità.

[2] Sant’Ambrogio, De excessu fratris sui Satyri, I, 10.