Il Padre dovette trascorrere a Roma l’estate del 1951. Le circostanze lo costrinsero, come disse egli stesso, “a stare sul chi va là”. Fu per lui un sacrificio non indifferente, poiché era estenuato per l’abbondante lavoro di un intero anno accademico, con la casa costruita a metà e con la minaccia del caldo opprimente del ferragosto romano. A questo si sommavano i problemi del diabete che gli procuravano sofferenze tanto intollerabili da fargli dire – con una buona dose di humour – che gli ricordavano continuamente il Purgatorio. Perché stare “sul chi va là”? Forse perché da qualche tempo aveva notato in alcune persone della Curia i segni di un certo cambiamento. Un giorno gli giungeva all’orecchio l’eco di una critica; giorni dopo veniva a sapere che un Cardinale, suo vecchio conoscente, negava in pubblico di averlo mai frequentato.
In base a questi e altri indizi cominciò a sospettare che si stesse tramando qualcosa, senza riuscire peraltro a comprendere di che cosa si trattasse. Tutti i segnali confermavano i sospetti: c’era qualcosa di strano. Senza dubbio, qualche grave minaccia incombeva sull’Opus Dei. Un oscuro presentimento finì col dominare le riflessioni, le abitudini e persino i gesti di don Josemaría, che si mostrava allegro e preoccupato nello stesso tempo. Continuava a scherzare, ma insisteva molto perché tutti pregassero per le sue intenzioni. Il suo prevalente stato d’animo era una inquietudine diffusa, un disagio interiore che traspariva dal suo sguardo e dal modo di fare:
“Come sempre – testimonia Encarnación Ortega – fece ricorso all’orazione e alla mortificazione. Passava intere giornate senza mangiare nulla o praticamente nulla, il che ci faceva temere per la sua salute. Sapevamo pure che dormiva ben poco. Ogni giorno era sempre più insistente la sua richiesta di preghiere e più intenso il modo in cui egli stesso pregava. Un giorno ci chiese di interrompere tutte le nostre attività e di andare in oratorio per mezz’ora a ‘forzare’ il Signore con la nostra orazione (…). Mi sembra che sia stata una delle volte della nostra vita in cui abbiamo pregato con maggiore intensità, chiedendo a Dio di aiutare nostro Padre”.
Uno di quei giorni – nella prima metà dell’estate del 1951 – don Josemaría stava passeggiando, assorto e a passo svelto, nel giardino di Villa Tevere, prendendo appunti in un’agendina, quando gli si avvicinò uno dei suoi figli, Javier Echevarría, che gli chiese:
“Come sta, Padre?”.
“Pieno di pace e di santa fortezza; mi sento come un leone, disposto a difendere questa Opera di Dio che il Signore mi ha affidato. Prega e aiutami”.
Pur non sapendo nulla di concreto, il Padre intuiva una nuova persecuzione verso la sua persona e tutta l’Opera. L’oscuro presentimento lo avvolgeva completamente. Presentiva un rischio serio, ma in maniera così vaga da non potersi liberare dall’angoscia di chi vede la vicinanza di un pericolo, senza sapere di che cosa si tratti. Sentiva l’invisibile minaccia e stava con tutti i sensi tesi e allerta, certo dell’imminente attacco:
“Mi sento come un cieco che si deve difendere – diceva il Padre a qualcuno dei suoi figli – ma che può dare solo colpi all’aria, perché non so che cosa succede, ma sta succedendo qualcosa…”.
Tale presentimento, pur facendolo soffrire, era comunque una grazia divina che sospingeva tutta l’Opera e, innanzitutto, il Fondatore verso la Croce di Cristo. Il Signore permetteva tale oscurità, scrisse di lì a poco, “affinché noi ci santifichiamo e l’Opera si fortifichi”.
Nelle precedenti campagne di calunnie, pettegolezzi e ingiurie, egli aveva saputo a chi ricorrere, come rispondere e a chi replicare. Ora doveva lottare contro ombre impalpabili. Quando sopraggiungeva la opposizione dei buoni, gli amici erano soliti consigliargli due tipi di comportamento. Secondo alcuni era meglio tacere e, avvolti nel mantello dell’umiltà, lasciare che gli altri calunniassero; così, incassando lui i colpi in silenzio, i nemici non avrebbero avuto la possibilità di diffondere pubblicamente lo scandalo. Altri, invece, erano del parere di proclamare la verità a gran voce o, per lo meno, lo invitavano a difendersi, a rispondere, opporsi e ribattere ai detrattori. Don Josemaría pensava che entrambe le opinioni fossero ragionevoli e accettabili dal punto di vista cristiano. Tuttavia, non era facile indovinare il modo giusto di fare le cose perché, riflettendo su come comportarsi, vedeva il rischio di perderci sempre e comunque, per quanta buona volontà ci mettesse. Così spiegava la sua incertezza:
“In realtà mi sentivo nella stessa identica situazione descritta nell’apologo del padre, del figlio e dell’asino. Qualunque cosa facessi, venivo criticato”.
L’apologo è questo. Un contadino ritornava dalla campagna con suo figlio. Se ne stava in groppa al suo asino, soddisfatto della vita, quando s’imbatté in un vicino, il quale biasimò la sua condotta: “Sei soddisfatto, no? E tuo figlio giù, a piedi, tanto, che te ne importa?”.
Il vecchio scese e fece montare il figlio sull’asino. Poco oltre incontrarono una donna, che esclamò indignata: “Ma come! Il padre a piedi? Quel ragazzo dovrebbe vergognarsi!”.
Anche il figlio allora scese dall’asino, e padre e figlio ci si misero a camminare dietro; ma qualcuno lanciò loro una battuta ironica: “Ottimo, così l’asino non si stanca!”.
Non sapendo più che fare, vi montarono tutti e due. L’asino stava percorrendo stancamente l’ultimo tratto di strada quando qualcuno si mise a gridare: “Siete proprio due bestie! Non vedete che il povero animale non ne può più?”.
La situazione era molto confusa e la minaccia invisibile. Da chi doveva difendersi, e a che proposito? Interiormente sentiva che una forza misteriosa lo spingeva a difendere l’Opera con le unghie e con i denti: “Figli miei – era solito dire a coloro che gli stavano vicino, – sono qui come un leone ruggente, tamquam leo rugiens; veglio, perché il diavolo non ci morda”. Non poteva starsene inerte.
Aveva l’impressione di camminare sulle sabbie mobili. Don Álvaro, per tranquillizzarlo, gli faceva presenti i motivi per cui rallegrarsi: “Padre – gli diceva –, va tutto bene, ci sono molte vocazioni e, grazie a Dio, c’è un grande buono spirito in tutti”. Ma il Padre insisteva sulla necessità di fare qualcosa. Una forza divina lo trascinava, con una “necessità soprannaturale”, ad aggrapparsi al manto della Vergine: “Poiché non trovo quaggiù chi veramente e decisamente ci aiuti, mi sono rivolto a nostra Madre, Santa Maria”.
Presa la decisione, il 9 agosto scrisse a tutta la grande famiglia dell’Opus Dei, per dire che nella festa dell’Assunzione avrebbe celebrato la Santa Messa a Loreto:“E là, nella casetta della Sacra Famiglia – Gesù, Maria e Giuseppe – farò la consacrazione dell’Opus Dei al Cuore Immacolato di Maria.
Tutti gli anni, usando la formula che vi invierò, rinnoveremo questa consacrazione in tutte le nostre case e Centri. Sarà una consacrazione ambiziosa, perché le consacreremo anche tutti i popoli e le nazioni che sono lontani dal suo Figlio Divino.
Questo è proprio il nostro spirito! Unitevi a me, quel giorno in modo particolare”.
Esortava i suoi figli a ripetere sempre, instancabilmente, la stessa giaculatoria che era sempre sulle sue labbra: Cor Mariae dulcissimum, iter para tutum!, affinché il dolcissimo cuore di Maria proteggesse il cammino dell’Opera. La mattina del 14 agosto 1951, sotto un sole cocente, il Padre e don Álvaro, accompagnati da altri due membri dell’Opera, partirono in macchina da Roma. Presero la via Salaria e passarono lungo la costa adriatica. Senza mai fermarsi, arrivarono alla basilica della Madonna di Loreto e prenotarono la Messa all’altare dellaSanta Casa per il giorno successivo. A metà pomeriggio si recarono ad Ancona, dove pernottarono.
La mattina successiva, festa dell’Assunzione, il Padre giunse a Loreto prima delle nove, trovando la basilica già piena di gente venuta dai dintorni. La Santa Casa, dove celebrò la Messa, si trova all’interno della basilica. Vi si stipava una folla devota, giunta a motivo della grande festività mariana. Il Padre cercò di celebrare la Messa con raccoglimento, ma le manifestazioni di spontanea pietà dei presenti non gli consentirono di concentrarsi:
“Così, mentre io baciavo l’altare quando lo prescrivono le rubriche della Messa, lo baciavano anche tre o quattro contadine. Fui distratto, ma mi emozionava. Attraeva pure la mia attenzione il pensiero che in quella Santa Casa – che la tradizione assicura essere il luogo dove vissero Gesù, Maria e Giuseppe –, sopra la mensa dell’altare hanno posto queste parole: Hic Verbum caro factum est. Qui, in una casa costruita dalla mano degli uomini, in un pezzetto della terra su cui viviamo, ha abitato Dio” (È Gesù che passa, 12).
Toltisi i paramenti mentre don Álvaro celebrava la Messa alle 9 e mezzo, il Padre riuscì a rifugiarsi nel minuscolo andito dietro l’altare della Santa Casa. Lì rinnovò la consacrazione al dolcissimo Cuore di Maria, “immagine perfetta del Cuore di Gesù”, fatta poco prima durante la Messa. A nome di tutto l’Opus Dei disse alla Madonna:
“Ti consacriamo il nostro essere e la nostra vita; tutto ciò che è nostro, ciò che amiamo e ciò che siamo. Per te i nostri corpi, i nostri cuori e le nostre anime; siamo tuoi noi e i nostri apostolati”.
Il Padre rimase in ginocchio tutto il tempo della Messa celebrata da don Álvaro. Solo, immerso in preghiera, non fece caso alle persone che lo urtavano, e quasi lo calpestavano, sfilando continuamente in quella specie di corridoio dietro l’altare, mentre implorava il Cuore di Maria:
“Infiamma i nostri poveri cuori perché amiamo con tutta l’anima Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo; infondi in noi un grande amore per la Chiesa e per il Papa e facci vivere pienamente sottomessi ai loro insegnamenti; dacci un grande amore per l’Opera, per il Padre e per i nostri Direttori; fa’ che, fedeli alla nostra vocazione, abbiamo uno zelo ardente per le anime; elevaci, Madonna, a uno stato di perfetto amore di Dio e concedici il dono della perseveranza finale”.
Uscendo, il Padre si rese conto di avere la tonaca tutta calpestata. Dopo aver fatto colazione, intrapresero il viaggio di ritorno. Il caldo era forte, ma egli era molto contento: faceva orazione, immerso in Dio, e ringraziava. La sera stessa vide le sue figlie e i suoi figli. Raccontò loro da dove veniva e disse che la consacrazione alla Madonna gli dava la sicurezza che Ella, ancora una volta, avrebbe preso l’Opera sotto la sua protezione. Li invitò a continuare a supplicare il Cuore dolcissimo di Maria: iter para tutum.
Andrés Vázquez de Prada, Il Fondatore dell'Opus Dei, vol III, pp. 188-193, Leonardo International, 2004.