L’alluvione in Emilia-Romagna e la virtù del distacco

A poco più di un anno dall’alluvione dell’Emilia-Romagna, che ha coinvolto più di quaranta comuni romagnoli, causando diciassette morti e più di ventimila sfollati, Giuseppe, fedele dell’Opus Dei di Faenza, condivide in questa testimonianza alcuni ricordi di quei giorni.

Panoramica di Faenza il 17 maggio 2023. Foto: La Stampa.

L’espressione “Dio-incidenze”, per quanto ne so, è stata coniata da Chiara Amirante. Il 17 maggio 1992, mia moglie Stefania ed io, dopo aver affidato ai nonni i nostri figli di cinque, quattro e tre anni, eravamo a Roma alla cerimonia di Beatificazione di Josemaría Escrivá. Scegliemmo quindi il 17 maggio 1993, per entrare nell’appartamento che sarebbe stata la nostra nuova casa. Esattamente trent’anni dopo, nella notte tra il 16 e il 17 maggio 2023, siamo stati colpiti dall’alluvione, costretti dall’acqua a lasciare la nostra dimora.

Prepararsi al distacco (senza saperlo)

Proprio due settimane prima del diluvio partecipai a un ritiro spirituale a Urio. A causa del numero di persone, mi fu assegnata una stanza in un’area dove normalmente stavano i sacerdoti, dotata anche di una vetrinetta con libri adatti ad un ritiro.

L’occhio mi cadde subito su un libro che amo particolarmente: Roma nel cuore – Gli anni romani di San Josemaría Escrivá (1946-1975). Lo presi e iniziai a rileggerlo. La sera seguente, con una certa sorpresa, trovai un segnalibro al capitolo XVI, che parla della virtù del distacco, e di come il Fondatore dell’Opus Dei la vivesse molto concretamente.

Quando san Josemaría lasciò la vita terrena per “volare” verso la vita eterna, alcune delle persone che vivevano con lui prelevarono tutti i suoi effetti personali dalla stanzetta in cui viveva. A completare l’operazione furono sufficienti circa cinque o sei minuti. Tutto il racconto contenuto in questo capitolo fa capire con quale rigore, cura, attenzione sia stato possibile arrivare a questo risultato. È chiaro che gli obblighi e lo stile di vita di un marito, padre di famiglia e manager sono diversi da quelli di un sacerdote. Però ne conclusi che i miei margini di miglioramento fossero, e ancora siano, amplissimi.

Il giorno seguente al mio rientro dal ritiro, il Lamone, fiume di Faenza, esondò allagando una zona limitata, ma costringendo comunque alcune centinaia di persone ad evacuare e trovare una sistemazione provvisoria nel palazzo dello sport allestito dalle Autorità e dalla Protezione Civile. Tra le persone colpite, c’erano conoscenti e amici, compreso un compagno di banco del liceo, che avevano dovuto lasciare le case, riempite di fango, perdendo l’auto o altro ancora. Fresco di riflessione sul distacco, in quei giorni mi domandai spesso come mai fosse toccato a loro e non a me: noi abitiamo vicino al fiume Lamone, ma il fiume è esondato dall’altro lato, le sponde sono alte, ci sono zone molto più basse della nostra...

L’alluvione del 16 e 17 maggio 2023

Il 16 maggio passarono le auto con altoparlanti invitando a spostarsi ai piani superiori. Il nostro appartamento si trova al livello della strada. Nello stesso condominio, al terzo piano, vive Giulia, la nostra figlia mezzana col marito Giacomo e i figli: Pietro, di quasi due anni, e Tommaso di otto mesi. Giulia insisteva perché salissimo da lei. Io ero molto perplesso, perché se l’acqua fosse arrivata da noi, in certe zone di Faenza sarebbe dovuta arrivare anche a otto metri. Salimmo, anche se rimasi della mia opinione. Verso le dieci di sera l’acqua comparve nella nostra via: non sembra tantissima.

Al mattino, mentre mi stavo vestendo, mia figlia mi chiese cosa avessi in mente di fare. Le risposi che volevo andare a vedere dove fosse arrivata l’acqua: «Vieni, te lo faccio vedere io dov’è arrivata l’acqua», mi disse Giulia, quasi piangendo. Dal retro del loro appartamento si vede bene il nostro: a occhio, il nostro terrazzo era coperto da circa un metro di acqua molto melmosa, mentre l’area dei garage era una enorme piscina d’acqua sporca. Non potevamo rientrare nel nostro appartamento.

Il parquet e il garage della casa di Giuseppe dopo l'alluvione.

Nel condominio non c’era la corrente e non si poteva preparare nulla di caldo per i bambini, né si poteva uscire per raggiungere altre case. Era la mattina del 17 maggio: trent’anni prima ci eravamo trasferiti in quella casa adesso inagibile.

Alcuni vicini di casa con cucine a gas si offrirono volontariamente di aiutare con il cibo dei bambini, anche durante la notte. Iniziò ad emergere un senso di comunità e comprensione inaspettato.

Con l’acqua che iniziava a scendere, entrai in casa, trovando porte bloccate e mobili spostati o danneggiati. Recuperammo ciò che si poteva, distribuendo gli alimenti conservati ai vicini con cucine a gas. Nonostante la devastazione, mantenemmo una certa serenità interiore.

Scatoloni, bancali e “angeli”

Nei giorni seguenti i primi ad aiutarci furono i nostri figli, portando attrezzature e sorrisi, infondendo un’energia positiva. Durante il primo weekend, arrivarono volontari dal condominio e amici di Giulia da Ravenna. Il loro aiuto fu fondamentale per affrontare il caos, con sorrisi e voglia di aiutare.

Ricevemmo scatoloni e bancali da un amico nel settore della frutta, per conservare gli oggetti salvabili. Arrivarono anche i primi “angeli”: Pietro, un factotum con grande forza, e la sua famiglia. La loro esperienza nel volontariato e la loro determinazione furono vitali per smontare mobili e svuotare la cantina colma di fango.

Giuseppe, a sinistra, sua moglie Stefania, a destra, insieme ai volontari che li hanno aiutati.

In cantina c’erano molte di quelle cose che non si buttano per “attaccamento”. C’erano dodici cartoni di “effetti personali” prelevati dall’ufficio negli ultimi giorni di lavoro (dicembre 2022). Li avevo messi lì in attesa di sistemare uno studio in una delle due camere lasciate dai nostri figli quando sono usciti di casa. Ma c’erano anche gli abiti del matrimonio, le uniformi da ufficiale dell’aeronautica, gli appunti dell’università, abiti, scarpe, piccoli elettrodomestici, vinili (anche quelli destinati al mio “futuro studio”), persino le automobiline di quand’ero bambino che volevo dare in dono ai nipotini. Forse – sottolineo, forse – c’erano cose che si sarebbero potute salvare, lavandole, ma quanto tempo e cosa sarebbe stato necessario per farlo, come e dove si poteva fare tutto questo? Decisi di starmene fuori dallo svuotamento della cantina.

Pietro e la sua famiglia, lavorando senza sosta, aiutarono anche i nostri vicini, Lamberto e Maria. Condividemmo pasti e momenti di serenità, creando un clima familiare e sorridente. Arrivò anche un gruppo di ragazzi del Daneb Club di Bologna, guidati da Andrea: nonostante la giovane età, mostrarono grande impegno, smontando mobili complicati con maestria.

Dopo pochi giorni in casa di Giulia, ci trasferimmo poco fuori città dai genitori di Giacomo, che ci accolsero con grande generosità. Abbiamo vissuto insieme per due settimane, mantenendo un clima familiare nonostante le difficoltà quotidiane e un inatteso sovraffollamento. Le nostre auto erano state danneggiate dall’acqua, ma sorprendentemente, quella di Stefania riuscì a ripartire, permettendoci di continuare gli spostamenti necessari per proseguire nel lavoro di sgombero e recupero.

Il soggiorno e la cucina della casa di Giuseppe dopo l'alluvione.

Un buon uso del servizio di posate del matrimonio

In città la situazione era critica: molte famiglie avevano perso tutto. Tra le altre cose, eravamo riusciti a recuperare alcuni servizi di piatti tra cui il “servizio buono” del matrimonio, quello che finisci per non usare mai: decidemmo che fosse il momento di usarlo e di donare gli altri servizi a chi ne aveva bisogno, rendendoci conto che si trattava di un piccolo gesto rispetto alle necessità di molti.

Un amico farmacista ci parlò de “La Piccola Betlemme”, un’iniziativa di volontari che prepara e distribuisce pasti a persone bisognose. Dopo l’alluvione la domanda era aumentata notevolmente. Attraverso un’associazione, riuscimmo a fornire loro una cella frigorifera e un forno, andando incontro a un bisogno cruciale per la loro attività.

Un giorno, Paolo, il mio amico più caro, ci offrì un appartamento libero: fu una vera manna dal cielo, che ci permise di ritrovarci a quindici minuti a piedi dalla nostra abitazione.

Tanto tempo fa qualcuno mi disse: “Il Signore manda prove a chi ha le spalle robuste”. Questo mi fa pensare ai santi come Josemaría Escrivá, Giovanni Paolo II e il giovane Carlo Acutis, che affrontò la sua malattia con gioia e serenità.

Questi esempi di santità mi hanno aiutato a vivere l’alluvione con una serenità inaspettata. Ricordo il primo giorno fuori casa, quando incontrai tre vicine preoccupate per i danni subiti. Con un sorriso dissi: «Buongiorno a tutte!». Una di loro, sorpresa, chiese come facessi a sorridere. Risposi: «Perché, se faccio il muso lungo, i problemi si risolvono prima?». Il giorno dopo, suo marito osservò che la fede mi aiutava, e io risposi: «La fede mi dice che Dio è morto in croce per me. L’alluvione è meno di una spina della sua corona!».

Il ritorno a casa

Rientrammo a casa l’8 dicembre 2023, ma ci vollero quasi altri tre mesi per sistemare tutto. Era stato come un trasloco di 206 giorni. Nonostante ciò, la vita ordinaria e il lavoro di nonni erano più importanti di qualche quadro da appendere o delle piante seccate dal fango.

L’alluvione è un’esperienza che lascia tracce profonde. Ora mi immedesimo di più con chi vive situazioni simili o peggiori, come la guerra o la perdita di persone care. Penso spesso a chi è ancora fuori casa o ha perso il lavoro. L’alluvione mi ha insegnato il vero significato della solidarietà. Una vedova ci diede del denaro, che decidemmo di donare a una famiglia più bisognosa, grazie a un canale di volontariato. Quando incontrai nuovamente quella donna, mi disse che temeva di averci offeso con quella beneficenza. La rassicurai, dicendole che il suo dono era andato a buon fine.