Nella valle di Cañete, una missione di speranza e solidarietà prende vita ogni anno grazie ai workcamp nati dalla collaborazione tra l'Università Campus Bio-Medico di Roma, Condoray e Caritas.
Questi progetti hanno l’obiettivo di offrire supporto alla popolazione rurale, diffondere informazioni corrette su alimentazione, nutrizione dei bambini, educazione sessuale, igiene della casa e della persona e quindi di migliorare le condizioni di vita della popolazione locale.
Quest'estate hanno deciso di mettersi in gioco 28 giovani professioniste e studentesse del Campus, partendo per il Perù con l’obiettivo di fare la differenza nelle vite delle comunità rurali.
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Torte, cene, cholitas e podcast: idee originali per sostenere il Perù
«Noi volontarie abbiamo iniziato a pianificare il workcamp già prima della partenza. - racconta Michela, giovane professionista - Oltre a informarci sulla situazione del paese e a definire le attività da svolgere, ci siamo impegnate a raccogliere fondi per acquistare farmaci e strumenti medicali per le campagne. Le studentesse del Campus, ad esempio, hanno allestito un banchetto nella hall dell’università e venduto centinaia di cholitas, bamboline tipiche del Perù. Altre tre ragazze, invece, hanno preparato biscotti e torte da distribuire fuori dalla loro parrocchia».
«Provengo da un piccolo paesino vicino Napoli. - spiega Ludovica, studentessa del Campus- Lì ci conosciamo tutti molto bene, quindi ho colto l’occasione e ho chiesto aiuto ai proprietari di un hotel per organizzare una cena di beneficenza. Durante la serata abbiamo presentato e promosso il progetto: gli invitati sono rimasti entusiasti e molti di loro, oltre a pagare la quota di partecipazione, hanno voluto fare ulteriori donazioni».
«Io e una amica abbiamo un podcast, Tramezzo, - racconta Alice, studentessa del Campus - e spesso registriamo puntate con degli ospiti, così ho pensato che sarebbe stato bello invitare la professoressa che da anni è alla guida dei workcamp. Il risultato è stata una bellissima puntata in cui abbiamo spiegato l’obiettivo del progetto e ciò che avremmo fatto in Perù. Ma non è finita qui: tramite i social abbiamo diffuso il video dell’intervista, allegando un link per fare un contributo. La generosità delle persone è stata così grande da lasciarci davvero colpite!»
Un aiuto al Perù per ringraziare il Signore del dono della vita
«L’estate scorsa, con la mia famiglia, siamo stati in vacanza nel sud della Sardegna. - racconta Federica, professore ordinario in fisiatria al Campus Biomedico di Roma - Un giorno ci hanno proposto di fare una gita in quad per vedere l’entroterra e le coste dell’isola. I ragazzi erano entusiasti, così abbiamo deciso di partecipare».
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Federica non aveva mai guidato un quad prima di allora: «La guida ci ha rassicurato, dicendo che sarebbe stato semplice, quasi come guidare un triciclo. Spinti dall’entusiasmo e dal desiderio di scoprire la bellezza della Sardegna, abbiamo accettato l’avventura».
«Il quad, però, si è rivelato essere un mezzo pesante e impegnativo. - prosegue Federica - Inoltre, faceva molto caldo; io sognavo un chiosco con acqua. Nonostante tutto, la gita è andata bene fino all’ultimo chilometro, quando ho perso coscienza: in un attimo, il mezzo su cui stavamo io e mia figlia si è ribaltato. Le urla di Cristina mi hanno ridestato: stavamo precipitando in un dirupo. - continua Federica - Con un gesto istintivo, sono riuscita a spegnere il motore e, per fortuna, siamo rimaste incastrate in alcuni arbusti che ci hanno trattenute, salvandoci».
Ancora oggi, Federica ripensa a quei momenti con un misto di emozioni: «Mio marito e mio figlio si sono spaventati tantissimo. Per fortuna alcune famiglie presenti nelle vicinanze sono accorse in nostro aiuto. Non so come avremmo fatto senza di loro: gli arbusti avrebbero potuto non reggere, e i soccorsi non sarebbero mai arrivati in tempo. Ricordo ancora l’ansia mentre cercavamo di recuperare Cristina dal dirupo».
«È stato un momento tragico per tutta la famiglia e ancora oggi io e Cristina abbiamo delle cicatrici. - racconta Federica - Ma è stato anche un miracolo: gli arbusti avrebbero potuto trafiggerci e invece, non so come, ci hanno protette».
«Per ringraziare il Signore della grazia ricevuta, - conclude Federica - abbiamo deciso di fare una donazione per coprire i biglietti aerei delle ragazze che sarebbero partite per il workcamp in Perù, anche se nulla potrà mai restituire quanto ci è stato donato».
Oltre le difficoltà: le campagne mediche nei villaggi
«Partivamo la mattina, ognuna portando con sé medicinali, farmaci e strumenti medicali, per svolgere campagne mediche nei villaggi di Cañete. - spiega Michela - Una volta giunte a destinazione ci organizzavamo come meglio potevamo e con i pochi mezzi che avevamo a nostra disposizione.
«I villaggi, ad esempio, non avevano ospedali, - aggiunge Myriam - perciò visitavamo i pazienti nelle scuole: i banchi delle classi diventavano i nostri tavoli per l’accettazione e le panche venivano trasformate in lettini per far sdraiare i pazienti. Per insegnare ai bambini come lavarsi correttamente i denti abbiamo usato lo scheletro dell’aula di biologia, mentre le lavagne venivano spostate per creare zone appartate dove poter svolgere visite più delicate».
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Fondamentale è stato l’aiuto dei volontari della Caritas e di Condoray che si sono attivamente dedicati a promuovere la campagna medica: hanno percorso le strade dei villaggi, andando di casa in casa per raccontare del progetto e appendere cartelloni con informazioni utili.
Le giovani studentesse non sapevano in quale struttura o in che condizioni avrebbero visitato i pazienti, ma una cosa era certa, al loro arrivo c’erano sempre molte persone ad attenderle, desiderose di ricevere assistenza.
«Le condizioni in cui abbiamo svolto le campagne mediche sono assurde. - racconta Myriam - Siamo arrivati ad essere anche una cinquantina di persone in un’unica stanza: pazienti, studentesse che si occupavano dell’accettazione e dell'anamnesi, medici, psicologi e nutrizioniste che visitavano».
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«Abbiamo fatto del nostro meglio, - dice Michela - anche se spesso a malincuore abbiamo dovuto rimandare i pazienti a casa senza poter fare nulla: o non avevamo medicinali adatti o mancavano tempo e strumenti per curare determinate patologie. Tuttavia, una cosa è certa, non ci siamo mai perse d’animo, anche quando non potevamo offrire aiuti concreti».
L’impegno di Condoray per migliorare la vita delle donne di Cañete
Le donne di Cañete conducono una vita molto dura: si alzano presto al mattino per andare a lavorare e tornano a casa solo la sera. Nel poco tempo libero che hanno a disposizione, si prendono cura della famiglia e dei bambini, di conseguenza non è sempre semplice riuscire a gestire anche la pulizia e l'igiene della casa.
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Da oltre sessant’anni, però, la fondazione Condoray si occupa di programmi sociali per le donne delle comunità rurali riguardanti, tra l'altro, l'alfabetizzazione, la salute, le capacità produttive, la leadership e lo sviluppo della comunità.
Le promotoras, così si chiamano le donne che sostengono il progetto di Condoray, hanno a cuore la cura dell'abbigliamento, l’igiene e la pulizia delle loro abitazioni e si impegnano, con il loro esempio, a ispirare le altre donne affinché siano responsabili del loro ambiente.
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«I primi giorni abbiamo dipinto il muro e sistemato il cortile di uno dei centri gestiti dalle promotoras di Condoray. - spiega Michela - Migliorare il cortile, che era in terra battuta, con un semplice rastrello non è stato facile, ma ci siamo rimboccate le maniche e abbiamo lavorato sodo. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale è svanito presto, perché più rastrellavamo, più dal terreno spuntavano pietre. Una ragazza, però, ha pensato di sfruttare quelle pietre a nostro vantaggio e utilizzarle per creare piccole aiuole. L’idea è piaciuta moltissimo anche alle promotoras, tanto che il giorno successivo si sono presentate con sacchi pieni di bellissime pietre raccolte dall’oceano. Quella è stata la dimostrazione di come le promotoras non solo cercano la bellezza, ma desiderano anche condividerla».
Il contributo che le studentesse e le giovani professioniste hanno dato in due settimane di workcamp è significativo, ma c’è ancora tanto da fare: «L’aiuto delle volontarie, - conclude Michela - piccolo ma costante può fare la differenza, come quando si riempie un vaso, goccia dopo goccia».