Viaggio apostolico di papa Francesco nei Paesi Baltici

Tutti i discorsi ufficiali di papa Francesco durante il viaggio apostolico in Estonia, Lettonia e Lituania (22 - 25 settembre 2018) raccolti in un unico articolo.

22 settembre, Vilnius: Incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico

22 settembre, Vilnius: Visita al santuario Mater Misericordiae

22 settembre, Vilnius: Incontro con i giovani

23 settembre, Kaunas: Omelia della Messa nel parco Santakos

23 settembre, Kaunas: Angelus nel parco Santakos

23 settembre, Kaunas: Incontro con sacerdoti, seminaristi, religiosi e religiose, consacrati e consavrate

23 settembre, Vilnius: Preghiera nel "Museo delle occupazioni e lotte per la libertà"

24 settembre, Riga: Incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico

24 settembre, Riga: Preghiera Ecumenica

24 settembre, Riga: Visita alla cattedrale cattolica di san Giacomo

24 settembre, Aglona: Omelia della Messa nell'area del Santuario della Madre di Dio

25 settembre, Tallin: Incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico

25 settembre, Tallin: Incontro ecumenico con i giovani

25 settembre, Tallin: Incontro con gli assistiti delle opere di carità della Chiesa

25 settembre, Tallin: Omelia durante la Santa Messa in Piazza della Libertà


22 settembre, Vilnius: Incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico

È motivo di gioia e di speranza iniziare questo pellegrinaggio nei Paesi Baltici in terra lituana, che, come amava dire san Giovanni Paolo II, è «testimone silenzioso di un amore appassionato per la libertà religiosa» (Discorso nella cerimonia di benvenuto, Vilnius, 4 settembre 1993).

La ringrazio, Signora Presidente, per le cordiali espressioni di benvenuto che mi ha rivolto a nome proprio e del Suo popolo. Nella Sua persona desidero salutare tutto il popolo lituano che oggi mi apre le porte della sua casa e della sua patria. A tutti voi va il mio affetto e il mio sincero ringraziamento.

Questa visita avviene in un momento particolarmente importante della vita della vostra Nazione che celebra i cento anni della dichiarazione d’indipendenza.

Un secolo segnato da molteplici prove e sofferenze che avete dovuto sopportare (detenzioni, deportazioni, persino il martirio). Celebrare i cento anni dell’indipendenza significa soffermarsi un poco nel tempo, recuperare la memoria del vissuto per prendere contatto con tutto quello che vi ha forgiati come Nazione e trovarvi le chiavi che vi permettano di guardare le sfide del presente e proiettarsi verso il futuro in un clima di dialogo e di unità tra tutti gli abitanti, in modo che nessuno rimanga escluso. Ogni generazione è chiamata a fare proprie le lotte e le realizzazioni del passato e onorare nel presente la memoria dei padri. Non sappiamo come sarà il domani; quello che sappiamo è che ad ogni epoca compete conservare “l’anima” che l’ha edificata e che l’ha aiutata a trasformare ogni situazione di dolore e di ingiustizia in opportunità, e conservare viva ed efficace la radice che ha prodotto i frutti di oggi. E questo popolo ha un’“anima” forte che gli ha permesso di resistere e di costruire! Così recita il vostro inno nazionale: «Possano i tuoi figli trarre forza dal passato», per guardare al presente con coraggio.

«Possano i tuoi figli trarre forza dal passato».

Nel corso della sua storia, la Lituania ha saputo ospitare, accogliere, ricevere popoli di diverse etnie e religioni. Tutti hanno trovato in queste terre un posto per vivere: lituani, tartari, polacchi, russi, bielorussi, ucraini, armeni, tedeschi...; cattolici, ortodossi, protestanti, vetero-cattolici, musulmani, ebrei...; sono vissuti insieme e in pace fino all’arrivo delle ideologie totalitarie che spezzarono la capacità di ospitare e armonizzare le differenze seminando violenza e diffidenza. Trarre forza dal passato significa recuperare la radice e mantenere sempre vivo quanto di più autentico e originale vive in voi e che vi ha permesso di crescere e di non soccombere come Nazione: la tolleranza, l’ospitalità, il rispetto e la solidarietà.

Guardando allo scenario mondiale in cui viviamo, dove crescono le voci che seminano divisione e contrapposizione – strumentalizzando molte volte l’insicurezza e i conflitti – o che proclamano che l’unico modo possibile di garantire la sicurezza e la sussistenza di una cultura sta nel cercare di eliminare, cancellare o espellere le altre, voi lituani avete una parola originale vostra da apportare: “ospitare le differenze”. Per mezzo del dialogo, dell’apertura e della comprensione esse possono trasformarsi in ponte di unione tra l’oriente e l’occidente europeo. Questo può essere il frutto di una storia matura, che come popolo voi offrite alla comunità internazionale e in particolare all’Unione Europea. Voi avete patito “sulla vostra pelle” i tentativi di imporre un modello unico, che annullasse il diverso con la pretesa di credere che i privilegi di pochi stiano al di sopra della dignità degli altri o del bene comune. Lo ha indicato bene Benedetto XVI: «Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità […]. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni» (Lett. enc. Caritas in veritate, 7). Tutti i conflitti che si presentano trovano soluzioni durature a condizione che esse si radichino nell’attenzione concreta alle persone, specialmente alle più deboli, e nel sentirsi chiamati ad «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235, 235).

In questo senso, trarre forza dal passato significa prestare attenzione ai più giovani, che sono non solo il futuro, ma il presente di questa Nazione, se rimangono uniti alle radici del popolo. Un popolo in cui i giovani trovano spazio per crescere e lavorare, li aiuterà a sentirsi protagonisti della costruzione del tessuto sociale e comunitario. Questo renderà possibile a tutti di alzare lo sguardo con speranza verso il domani. La Lituania che essi sognano si gioca nella costante ricerca di promuovere quelle politiche che incentivino la partecipazione attiva dei più giovani nella società. Senza dubbio, questo sarà seme di speranza, poiché porterà ad un dinamismo nel quale l’“anima” di questo popolo continuerà a generare ospitalità: ospitalità verso lo straniero, ospitalità verso i giovani, verso gli anziani, che sono la memoria viva, verso i poveri, in definitiva, ospitalità al futuro.

Le assicuro, Signora Presidente, che potete contare – come fino ad ora – sull’impegno e il lavoro corale della Chiesa Cattolica, affinché questa terra possa adempiere la sua vocazione di essere terra-ponte di comunione e di speranza.


22 settembre, Vilnius: Visita al santuario Mater Misericordiae

Siamo di fronte alla “Porta dell’Aurora”, quello che rimane delle mura di questa città che servivano per difendersi da qualsiasi pericolo e provocazione, e che nel 1799 l’esercito invasore distrusse totalmente, lasciando solo questa porta: già allora era lì collocata l’immagine della “Vergine della Misericordia”, la Santa Madre di Dio che è sempre disposta a soccorrerci, a venire in nostro aiuto.

Già da quei giorni, ella voleva insegnarci che si può proteggere senza attaccare, che è possibile essere prudenti senza il malsano bisogno di diffidare di tutti. Questa Madre, senza il Bambino, tutta dorata, è la Madre di tutti; in ognuno di quanti vengono fin qui, lei vede ciò che tante volte nemmeno noi stessi riusciamo a percepire: il volto di suo Figlio Gesù impresso nel nostro cuore.

E dal momento che l’immagine di Gesù è posta come un sigillo in ogni cuore umano, ogni uomo e ogni donna ci offrono la possibilità di incontrarci con Dio. Quando ci chiudiamo in noi stessi per paura degli altri, quando costruiamo muri e barricate, finiamo per privarci della Buona Notizia di Gesù che conduce la storia e la vita degli altri. Abbiamo costruito troppe fortezze nel nostro passato, ma oggi sentiamo il bisogno di guardarci in faccia e riconoscerci come fratelli, di camminare insieme scoprendo e sperimentando con gioia e pace il valore della fraternità (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 87). Ogni giorno in questo luogo visita la Madre della Misericordia una moltitudine di persone provenienti da tanti Paesi: lituani, polacchi, bielorussi e russi; cattolici e ortodossi. Oggi lo rende possibile la facilità delle comunicazioni, la libertà di circolazione tra i nostri Paesi. Come sarebbe bello se a questa facilità di muoversi da un posto all’altro si aggiungesse anche la facilità di stabilire punti d’incontro e solidarietà fra tutti, di far circolare i doni che gratuitamente abbiamo ricevuto, di uscire da noi stessi e donarci agli altri, accogliendo a nostra volta la presenza e la diversità degli altri come un dono e una ricchezza nella nostra vita.

A volte sembra che aprirci al mondo ci proietti in spazi di competizione, dove “l’uomo è lupo per l’uomo” e dove c’è posto solo per il conflitto che ci divide, per le tensioni che ci consumano, per l’odio e l’inimicizia che non ci portano da nessuna parte (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 71-72).

La Madre della Misericordia, come ogni buona madre, tenta di riunire la famiglia e ci dice all’orecchio: “cerca tuo fratello”. Così ci apre la porta a un’alba nuova, a una nuova aurora. Ci porta fino alla soglia, come alla porta del ricco Epulone del Vangelo (cfr Lc16,19-31). Oggi ci aspettano bambini e famiglie con le piaghe sanguinanti; non sono quelle di Lazzaro nella parabola, sono quelle di Gesù; sono reali, concrete e, dal loro dolore e dalla loro oscurità, gridano perché noi portiamo ad esse la luce risanatrice della carità. Perché è la carità la chiave che ci apre la porta del cielo.

Cari fratelli! Che, attraversando questa soglia, possiamo sperimentare la forza che purifica il nostro modo di rapportarci agli altri e la Madre ci conceda di guardare i loro limiti e difetti con misericordia e umiltà, senza crederci superiori a nessuno (cfr Fil 2,3). Che, nel contemplare i misteri del Rosario, le chiediamo di essere una comunità che sa annunciare Gesù Cristo, nostra speranza, al fine di costruire una Patria capace di accogliere tutti, di ricevere dalla Vergine Madre i doni del dialogo e della pazienza, della vicinanza e dell’accoglienza che ama, perdona e non condanna (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 165); una Patria che sceglie di costruire ponti e non muri, che preferisce la misericordia e non il giudizio. Che Maria sia sempre la Porta dell’Aurora per tutta questa terra benedetta!

Lasciandoci guidare da lei, preghiamo ora una decina del Rosario, contemplando il terzo mistero della gioia.


22 settembre, Vilnius: Incontro con i giovani

Grazie, Monica e Jonas, per la vostra testimonianza! L’ho accolta come un amico, come se fossimo seduti insieme, in qualche bar, a raccontarci le cose della vita, prendendo una birra o una gira, dopo essere stati al “Jaunimo teatras”.

La vostra vita, però, non è un’opera teatrale, è reale, concreta, come quella di ognuno di noi che siamo qui, in questa bella piazza situata tra questi due fiumi. E chissà che tutto questo ci serva per rileggere le vostre storie e scoprirvi il passaggio di Dio... Perché Dio passa sempre nella nostra vita. Passa sempre. E un grande filosofo diceva: “Io ho paura, quando Dio passa! Paura di non accorgermene!”.

Come questa chiesa cattedrale, voi avete sperimentato situazioni che vi facevano crollare, incendi dai quali sembrava che non avreste potuto riprendervi. Più volte questo tempio è stato divorato dalle fiamme, è crollato, e tuttavia ci sono sempre stati quelli che hanno deciso di edificarlo di nuovo, che non si sono fatti vincere dalle difficoltà, non si sono lasciati cadere le braccia. C’è un bel canto alpino che dice così: “Nell’arte di salire, il segreto non sta nel non cadere, ma nel non rimanere caduto”. Ricominciare di nuovo sempre, e così salire. Come questa cattedrale. Anche la libertà della vostra Patria è costruita sopra quelli che non si sono lasciati abbattere dal terrore e dalla sventura. La vita, la condizione e la morte di tuo papà, Monica; la tua malattia, Jonas, avrebbero potuto devastarvi... E tuttavia siete qui, a condividere la vostra esperienza con uno sguardo di fede, facendoci scoprire che Dio vi ha dato la grazia per sopportare, per rialzarvi, per continuare a camminare nella vita.

E io mi domando: come si è riversata in voi questa grazia di Dio? Non dall’aria, non magicamente, non c’è la bacchetta magica per la vita. Questo è accaduto mediante persone che hanno incrociato la vostra vita, gente buona che vi ha nutrito con la sua esperienza di fede. Sempre c’è gente, nella vita, che ci dà una mano per aiutarci ad alzarci. Monica, tua nonna e tua mamma, la parrocchia francescana, sono state per te come la confluenza di questi due fiumi: così come il Vilnia si unisce al Neris, tu ti sei aggregata, ti sei lasciata condurre da questa corrente di grazia. Perché il Signore ci salva rendendoci parte di un popolo. Il Signore ci salva rendendoci parte di un popolo. Ci inserisce in un popolo, e la nostra identità, alla fine, sarà l’appartenenza ad un popolo. Nessuno può dire: “io mi salvo da solo”, siamo tutti interconnessi, siamo tutti “in rete”. Dio ha voluto entrare in questa dinamica di relazioni e ci attrae a Sé in comunità, dando alla nostra vita un pieno senso d’identità e di appartenenza (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Anche tu, Jonas, hai trovato negli altri, in tua moglie e nella promessa fatta il giorno del matrimonio il motivo per andare avanti, per lottare, per vivere. Non permettete che il mondo vi faccia credere che è meglio camminare da soli. Da soli non si arriva mai. Sì, potrai arrivare ad avere un successo nella vita, ma senza amore, senza compagni, senza appartenenza a un popolo, senza quell’esperienza tanto bella che è rischiare insieme. Non si può camminare da soli. Non cedete alla tentazione di concentrarvi su voi stessi, guardandovi la pancia, alla tentazione di diventare egoisti o superficiali davanti al dolore, alle difficoltà o al successo passeggero. Affermiamo ancora una volta che “quello che succede all’altro, succede a me”, andiamo controcorrente rispetto a questo individualismo che isola, che ci fa diventare egocentrici, che ci fa diventare vanitosi, preoccupati solamente dell’immagine e del proprio benessere. Preoccupati dell’immagine, di come apparire. È brutta la vita davanti allo specchio, è brutta. Invece è bella la vita con gli altri, in famiglia, con gli amici, con la lotta del mio popolo… Così la vita è bella!

Siamo cristiani e vogliamo puntare sulla santità. Puntate sulla santità a partire dall’incontro e dalla comunione con gli altri, attenti alle loro necessità (cfr ibid., 146). La nostra vera identità presuppone l’appartenenza a un popolo. Non esistono identità “di laboratorio”, non esistono, né identità “distillate”, identità “purosangue”: queste non esistono. Esiste l’identità del camminare insieme, del lottare insieme, amare insieme. Esiste l’identità appartenere a una famiglia, a un popolo. Esiste l’identità che ti dà l’amore, la tenerezza, preoccuparti per gli altri… Esiste l’identità che ti dà la forza per lottare e nello stesso tempo la tenerezza per accarezzare. Ognuno di noi conosce la bellezza e anche la stanchezza – è bello che i giovani si stanchino, è segno che lavorano – e molte volte il dolore di appartenere a un popolo, voi conoscete questo. Qui è radicata la nostra identità, non siamo persone senza radici. Non siamo persone senza radici!

Tutt’e due avete anche ricordato la presenza nel coro, la preghiera in famiglia, la Messa, la catechesi e l’aiuto ai più bisognosi; sono armi potenti che il Signore ci dà. La preghiera e il canto, per non chiudersi nell’immanenza di questo mondo: anelando a Dio siete usciti da voi stessi e avete potuto contemplare con gli occhi di Dio quello che accadeva nel vostro cuore (cfr ibid., 147); praticando la musica vi aprite all’ascolto e all’interiorità, vi lasciate in tal modo colpire nella sensibilità e questo è sempre una buona opportunità per il discernimento (cfr Sinodo dedicato ai giovani, Instrumentum laboris, 162). Certo, la preghiera può essere un’esperienza di “combattimento spirituale”, ma è lì che impariamo ad ascoltare lo Spirito, a discernere i segni dei tempi e a recuperare le forze per continuare ad annunciare il Vangelo oggi. In che altro modo potremmo combattere contro lo scoraggiamento di fronte alle difficoltà proprie e altrui, di fronte agli orrori del mondo? Come faremmo senza la preghiera per non credere che tutto dipende da noi, che siamo soli davanti al corpo a corpo con le avversità? “Gesù ed io, maggioranza assoluta!”. Non dimenticatelo, questo lo diceva un santo, sant’Alberto Hurtado. L’incontro con Lui, con la sua Parola, con l’Eucaristia ci ricorda che non importa la forza dell’avversario; non importa se è primo il “Žalgiris Kaunas” o il “Vilnius Rytas” [applausi, ridono]… A proposito, vi domando: qual è il primo? [ride, ridono] Non importa qual è il primo, non importa il risultato, ma che il Signore sia con noi.

Anche a voi è stata di sostegno nella vita l’esperienza di aiutare gli altri, scoprire che vicino a noi ci sono persone che stanno male, anche molto peggio di noi. Monica, ci hai raccontato del tuo impegno con i bambini disabili. Vedere la fragilità degli altri ci colloca nella realtà, ci impedisce di vivere leccandoci le nostre ferite. E’ brutto vivere nelle lamentele, è brutto. E’ brutto vivere leccandosi le ferite! Quanti giovani se ne vanno dal loro Paese per mancanza di opportunità! Quanti sono vittime della depressione, dell’alcol e delle droghe! Voi lo sapete bene. Quante persone anziane sole, senza qualcuno con cui condividere il presente e con la paura che ritorni il passato. Voi, giovani, potete rispondere a queste sfide con la vostra presenza e con l’incontro tra voi e gli altri. Gesù ci invita ad uscire da noi stessi, a rischiare nel “faccia a faccia” con gli altri. È vero che credere in Gesù implica molte volte fare un salto di fede nel vuoto, e questo fa paura. Altre volte ci porta a metterci in discussione, a uscire dai nostri schemi, e questo può farci soffrire e tentare dallo scoraggiamento. Però, siate coraggiosi! Seguire Gesù è un’avventura appassionante che riempie la nostra vita di significato, che ci fa sentire parte di una comunità che ci incoraggia, di una comunità che ci accompagna, che ci impegna nel servizio. Cari giovani, vale la pena seguire Cristo, vale la pena! Non abbiamo paura di partecipare alla rivoluzione a cui Lui ci invita: la rivoluzione della tenerezza (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 88).

Se la vita fosse un’opera di teatro o un videogioco sarebbe ristretta in un tempo preciso, un inizio e una fine, quando si abbassa il sipario o qualcuno vince la partita. Ma la vita si misura con altri tempi, non con i tempi del teatro o del videogioco; la vita si gioca in tempi rapportati al cuore di Dio; a volte si avanza, altre volte si retrocede, si provano e si tentano strade, si cambiano... L’indecisione sembra nascere dalla paura che cali il sipario, o che il cronometro ci lasci fuori dalla partita, dal salire di un livello nel gioco. Invece la vita è sempre un camminare, la vita è in cammino, non è ferma; la vita è sempre un camminare cercando la direzione giusta, senza paura di tornare indietro se ho sbagliato. La cosa più pericolosa è confondere il cammino con un labirinto: quel girare a vuoto attraverso la vita, su sé stessi, senza imboccare la strada che conduce avanti. Per favore, non siate giovani del labirinto, dal quale è difficile uscire, ma giovani in cammino. Niente labirinto: in cammino!

Non abbiate paura di decidervi per Gesù, di abbracciare la sua causa, quella del Vangelo, dell’umanità, degli esseri umani. Perché Egli non scenderà mai dalla barca della vostra vita, sarà sempre all’incrocio delle nostre strade, non smetterà mai di ricostruirci, anche se a volte noi ci impegniamo nel demolirci. Gesù ci regala tempi larghi e generosi, dove c’è spazio per i fallimenti, dove nessuno ha bisogno di emigrare, perché c’è posto per tutti. Molti vorranno occupare i vostri cuori, infestare i campi delle vostre aspirazioni con la zizzania, ma alla fine, se doniamo la vita al Signore, vince sempre il buon grano. La vostra testimonianza, Monica e Jonas, parlava della nonna, della mamma… Io vorrei dirvi – e con questo finisco, state tranquilli! –, vorrei dirvi di non dimenticare le radici del vostro popolo. Pensate al passato, parlate con i vecchi: non è noioso parlare con gli anziani. Andate a cercare i vecchi e fatevi raccontare le radici del vostro popolo, le gioie, le sofferenze, i valori. Così, attingendo dalle radici, voi porterete avanti il vostro popolo, la storia del vostro popolo per un frutto più grande. Cari giovani, se voi volete un popolo grande, libero, prendete dalle radici la memoria e portatelo avanti. Grazie tante!


23 settembre, Kaunas: Omelia della Messa nel parco Santakos

San Marco dedica tutta una parte del suo Vangelo all’insegnamento rivolto ai discepoli. È come se Gesù, a metà del cammino verso Gerusalemme, volesse che i suoi rinnovassero la loro scelta, sapendo che questa sequela avrebbe comportato momenti di prova e di dolore. L’evangelista racconta quel periodo della vita di Gesù ricordando che in tre occasioni Egli ha annunciato la sua passione; essi per tre volte hanno espresso il loro sconcerto e la loro resistenza, e il Signore in tutte e tre ha voluto lasciare loro un insegnamento. Abbiamo appena ascoltato la seconda di queste tre sequenze (cfr Mc 9,30-37).

La vita cristiana attraversa sempre momenti di croce, e talvolta sembrano interminabili. Le generazioni passate avranno avuto impresso a fuoco il tempo dell’occupazione, l’angoscia di quelli che venivano deportati, l’incertezza per quelli che non tornavano, la vergogna della delazione, del tradimento. Il Libro della Sapienza ci parla del giusto perseguitato, che subisce oltraggi e tormenti per il solo fatto di essere buono (cfr 2,10-20). Quanti di voi potrebbero raccontare in prima persona, o nella storia di qualche parente, questo stesso passo che abbiamo letto. Quanti di voi hanno visto anche vacillare la loro fede perché non è apparso Dio per difendervi; perché il fatto di rimanere fedeli non è bastato perché Egli intervenisse nella vostra storia. Kaunas conosce questa realtà; la Lituania intera lo può testimoniare con un brivido al solo nominare la Siberia, o i ghetti di Vilnius e di Kaunas, tra gli altri; e può dire all’unisono con l’apostolo Giacomo, nel brano della sua Lettera che abbiamo ascoltato: bramano, uccidono, invidiano, combattono e fanno guerra (cfr 4,2).

Ma i discepoli non volevano che Gesù parlasse loro di dolore e di croce; non vogliono sapere nulla di prove e di angosce. E San Marco ricorda che erano interessati ad altre cose, che tornavano a casa discutendo su chi fosse il più grande. Fratelli, il desiderio di potere e di gloria è il modo più comune di comportarsi di coloro che non riescono a guarire la memoria della loro storia e, forse proprio per questo, non accettano nemmeno di impegnarsi nel lavoro del presente. E allora si discute su chi ha brillato di più, chi è stato più puro nel passato, chi ha più diritto ad avere privilegi rispetto agli altri. E così neghiamo la nostra storia, «che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso» (Esort. ap.Evangelii gaudium, 96). È un atteggiamento sterile e vano, che rinuncia a coinvolgersi nella costruzione del presente perdendo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Non possiamo essere come quegli “esperti” spirituali, che giudicano solo dall’esterno e passano tutto il tempo a parlare di “quello che si dovrebbe fare” (cfr ibid.).

Gesù, sapendo quello che pensavano, propone loro un antidoto a queste lotte di potere e al rifiuto del sacrificio; e, per dare solennità a quello che sta per dire, si siede come un Maestro, li chiama, e compie un gesto: mette un bambino al centro; un ragazzino che di solito si guadagnava gli spiccioli facendo le commissioni che nessuno voleva fare. Chi metterà in mezzo oggi, qui, in questa mattina di domenica? Chi saranno i più piccoli, i più poveri tra noi, che dobbiamo accogliere a cent’anni della nostra indipendenza? Chi è che non ha nulla per ricambiarci, per rendere gratificanti i nostri sforzi e le nostre rinunce? Forse sono le minoranze etniche della nostra città, o quei disoccupati che sono costretti a emigrare. Forse sono gli anziani soli, o i giovani che non trovano un senso nella vita perché hanno perso le loro radici. “In mezzo” significa equidistante, in modo che nessuno possa fingere di non vedere, nessuno possa sostenere che “è responsabilità di altri”, perché “io non ho visto” o “sono troppo lontano”. Senza protagonismi, senza voler essere applauditi o i primi.

Là, nella città di Vilnius, è toccato al fiume Vilnia offrire le sue acque e perdere il nome rispetto al Neris; qui, è lo stesso Neris che perde il nome offrendo le sue acque al Nemunas. Di questo si tratta: di essere una Chiesa “in uscita”, di non aver paura di uscire e spenderci anche quando sembra che ci dissolviamo, di perderci dietro i più piccoli, i dimenticati, quelli che vivono nelle periferie esistenziali. Ma sapendo che quell’uscire comporterà anche in certi casi un fermare il passo, mettere da parte le ansie e le urgenze, per saper guardare negli occhi, ascoltare e accompagnare chi è rimasto sul bordo della strada. A volte bisognerà comportarsi come il padre del figlio prodigo, che rimane sulla porta aspettando il suo ritorno, per aprirgli appena arriva (cfr ibid., 46); oppure come i discepoli, che devono imparare che, quando si accoglie un piccolo, è lo stesso Gesù che si accoglie.

Perché per questo oggi siamo qui, ansiosi di accogliere Gesù nella sua parola, nell’Eucaristia, nei piccoli. Accoglierlo affinché Egli riconcili la nostra memoria e ci accompagni in un presente che continui ad appassionarci per le sue sfide, per i segni che ci lascia; affinché lo seguiamo come discepoli, perché non c’è nulla di veramente umano che non abbia risonanza nel cuore dei discepoli di Cristo, e così sentiamo come nostre le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e dei sofferenti (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1). Per questo, e perché come comunità ci sentiamo veramente e intimamente solidali con l’umanità – di questa città e di tutta la Lituania – e con la sua storia (cfr ibid.), vogliamo donare la vita nel servizio e nella gioia, e così far sapere a tutti che Gesù Cristo è la nostra unica speranza.


23 settembre, Kaunas: Angelus nel parco Santakos

Il Libro della Sapienza, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, ci parla del giusto perseguitato, di colui la cui sola presenza dà fastidio agli empi. L’empio viene descritto come quello che opprime il povero, non ha compassione della vedova né rispetta l’anziano (cfr 2,17-20). L’empio ha la pretesa di pensare che la sua forza è la norma della giustizia. Sottomettere i più fragili, usare la forza in una qualsiasi forma, imporre un modo di pensare, un’ideologia, un discorso dominante, usare la violenza o la repressione per piegare quanti semplicemente, con il loro quotidiano agire onesto, semplice, operoso e solidale, manifestano che un altro mondo, un’altra società è possibile. All’empio non basta fare quello che gli pare, lasciarsi guidare dai suoi capricci; non vuole che gli altri, facendo il bene, mettano in risalto questo suo modo di fare. Nell’empio, il male cerca sempre di annientare il bene.

Settantacinque anni fa, questa Nazione assisteva alla definitiva distruzione del Ghetto di Vilnius; così culminava l’annientamento di migliaia di ebrei che era già iniziato due anni prima. Come si legge nel Libro della Sapienza, il popolo ebreo passò attraverso oltraggi e tormenti. Facciamo memoria di quei tempi, e chiediamo al Signore che ci faccia dono del discernimento per scoprire in tempo qualsiasi nuovo germe di quell’atteggiamento pernicioso, di qualsiasi aria che atrofizza il cuore delle generazioni che non l’hanno sperimentato e che potrebbero correre dietro quei canti di sirena.

Gesù nel Vangelo ci ricorda una tentazione sulla quale dovremo vigilare con attenzione: l’ansia di essere i primi, di primeggiare sugli altri, che può annidarsi in ogni cuore umano. Quante volte è accaduto che un popolo si creda superiore, con più diritti acquisiti, con maggiori privilegi da preservare o conquistare. Qual è il rimedio che propone Gesù quando appare tale pulsione nel nostro cuore e nella mentalità di una società o di un Paese? Farsi l’ultimo di tutti e il servo di tutti; stare là dove nessuno vuole andare, dove non arriva nulla, nella periferia più distante; e servire, creando spazi di incontro con gli ultimi, con gli scartati. Se il potere si decidesse per questo, se permettessimo al Vangelo di Cristo di giungere nel profondo della nostra vita, allora la globalizzazione della solidarietà sarebbe davvero una realtà. «Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2)» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 67).

Qui in Lituania c’è una collina delle croci, dove migliaia di persone, lungo i secoli, hanno piantato il segno della croce. Vi invito, mentre preghiamo l’Angelus, a chiedere a Maria che ci aiuti a piantare la croce del nostro servizio, della nostra dedizione lì dove hanno bisogno di noi, sulla collina dove abitano gli ultimi, dove si richiede la delicata attenzione agli esclusi, alle minoranze, per allontanare dai nostri ambienti e dalle nostre culture la possibilità di annientare l’altro, di emarginare, di continuare a scartare chi ci dà fastidio e disturba le nostre comodità.

Gesù mette al centro un piccolo, lo mette alla medesima distanza da tutti, perché tutti ci sentiamo provocati a dare una risposta. Facendo memoria del “sì” di Maria, chiediamole che renda il nostro “sì” generoso e fecondo come il suo.


23 settembre, Kaunas: Incontro con sacerdoti, seminaristi, religiosi e religiose, consacrati e consacrate

Prima di tutto, vorrei dire un sentimento che provo. Guardando voi, vedo dietro di voi tanti martiri. Martiri anonimi, nel senso che neppure sappiamo dove sono stati sepolti. Anche qualcuno di voi: ho salutato uno che ha saputo che cos’era la prigione. Mi viene in mente una parola per incominciare: non dimenticatevi, abbiate memoria. Siete figli di martiri, questa è la vostra forza. E lo spirito del mondo non venga a dirvi qualche altra cosa diversa da quella che hanno vissuto i vostri antenati. Ricordate i vostri martiri e prendete esempio da loro: non avevano paura. Parlando con i Vescovi, i vostri Vescovi, oggi, dicevano: “Come si può fare per introdurre la causa di beatificazione per tanti dei quali non abbiamo documenti, ma sappiamo che sono martiri?”. È una consolazione, è bello sentire questo: la preoccupazione per coloro che ci hanno dato testimonianza. Sono dei santi.

Il Vescovo [Linas Vodopjanovas, O.F.M., incaricato per la vita consacrata] ha parlato senza sfumature – i francescani parlano così –: “Oggi spesso, in vari modi, viene messa alla prova la nostra fede”, ha detto. Lui non pensava alle persecuzioni dei dittatori, no. “Dopo aver risposto alla chiamata della vocazione spesso non proviamo più gioia né nella preghiera né nella vita comunitaria”.

Lo spirito della secolarizzazione, della noia per tutto quello che tocca la comunità è la tentazione della seconda generazione. I nostri padri hanno lottato, hanno sofferto, sono stati carcerati e forse noi non abbiamo la forza di andare avanti. Tenete conto di questo!

La Lettera agli Ebrei fa un’esortazione: “Non dimenticatevi dei primi giorni. Non dimenticatevi dei vostri antenati” (cfr 10,32-39). Questa è l’esortazione che all’inizio rivolgo a voi.

Tutta la visita al vostro Paese è stata incorniciata in questa espressione: “Cristo Gesù, nostra speranza”. Ormai quasi al termine di questo giorno, troviamo un testo dell’apostolo Paolo che ci invita a sperare con costanza. E questo invito lo fa dopo averci annunciato il sogno di Dio per ogni essere umano, di più, per tutto il creato: cioè che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28); «raddrizza» tutte le cose, sarebbe la traduzione letterale.

Oggi vorrei condividere con voi alcuni tratti caratteristici di questa speranza; tratti che noi – sacerdoti, seminaristi, consacrati e consacrate – siamo chiamati a vivere.

Anzitutto, prima di invitarci alla speranza, Paolo ha ripetuto tre volte la parola “gemere”: geme la creazione, gemono gli uomini, geme lo Spirito in noi (cfr Rm 8,22-23.26). Si geme per la schiavitù della corruzione, per l’anelito alla pienezza. E oggi ci farà bene domandarci se quel gemito è presente in noi, o se invece nulla più grida nella nostra carne, nulla anela al Dio vivente. Come diceva il vostro Vescovo: “Non proviamo più la gioia nella preghiera, nella vita comunitaria”. Il bramito della cerva assetata davanti alla carenza di acqua dovrebbe essere il nostro nella ricerca della profondità, della verità, della bellezza di Dio. Cari, noi non siamo “funzionari di Dio”! Forse la società del benessere ci ha resi troppo sazi, pieni di servizi e di beni, e ci ritroviamo appesantiti di tutto e pieni di nulla; forse ci ha resi storditi o dissipati, ma non pieni. Peggio ancora: a volte non sentiamo più la fame. Siamo noi, uomini e donne di speciale consacrazione, coloro che non possono mai permettersi di perdere quel gemito, quell’inquietudine del cuore che solo nel Signore trova riposo (cfr S. Agostino, Confessioni, I,1,1). L’inquietudine del cuore. Nessuna informazione immediata, nessuna comunicazione virtuale istantanea può privarci dei tempi concreti, prolungati, per conquistare – di questo si tratta, di uno sforzo costante – per conquistare un dialogo quotidiano con il Signore attraverso la preghiera e l’adorazione. Si tratta di coltivare il nostro desiderio di Dio, come scriveva san Giovanni della Croce. Diceva così: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore» (Consigli per raggiungere la perfezione, 9).

Questo gemito deriva anche dalla contemplazione del mondo degli uomini, è un appello alla pienezza di fronte ai bisogni insoddisfatti dei nostri fratelli più poveri, davanti alla mancanza di senso della vita dei più giovani, alla solitudine degli anziani, ai soprusi contro l'ambiente. È un gemito che cerca di organizzarsi per incidere sugli eventi di una nazione, di una città; non come pressione o esercizio di potere, ma come servizio. Il grido del nostro popolo ci deve colpire, come Mosè, al quale Dio rivelò la sofferenza del suo popolo nell’incontro presso il roveto ardente (cfr Es 3,9). Ascoltare la voce di Dio nella preghiera ci fa vedere, ci fa udire, conoscere il dolore degli altri per poterli liberare. Ma altrettanto dobbiamo essere colpiti quando il nostro popolo ha smesso di gemere, ha smesso di cercare l'acqua che estingue la sete. È un momento anche per discernere che cosa stia anestetizzando la voce della nostra gente.

Il grido che ci fa cercare Dio nella preghiera e nell’adorazione è lo stesso che ci fa ascoltare il lamento dei nostri fratelli. Loro “sperano” in noi e abbiamo bisogno, a partire da un attento discernimento, di organizzarci, programmare ed essere audaci e creativi nel nostro apostolato. Che la nostra presenza non sia lasciata all’improvvisazione, ma risponda ai bisogni del popolo di Dio e sia quindi fermento nella massa (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 33).

Ma l’Apostolo parla anche di costanza, costanza nella sofferenza, costanza nel perseverare nel bene. Questo significa essere centrati in Dio, rimanere fermamente radicati in Lui, essere fedeli al suo amore.

Voi, i più anziani di età – come non menzionare Mons. Sigitas Tamkevicius? – sapete testimoniare questa costanza nel patire, questo “sperare contro ogni speranza” (cfr Rm 4,18). La violenza usata su di voi per aver difeso la libertà civile e religiosa, la violenza della diffamazione, il carcere e la deportazione non hanno potuto vincere la vostra fede in Gesù Cristo, Signore della storia. Per questo, avete molto da dirci e insegnarci, e anche molto da proporre, senza dover giudicare l’apparente debolezza dei più giovani. E voi, più giovani, quando davanti alle piccole frustrazioni che vi scoraggiano tendete a chiudervi in voi stessi, a ricorrere a comportamenti ed evasioni che non sono coerenti con la vostra consacrazione, cercate le vostre radici e guardate la strada percorsa dagli anziani. Vedo che ci sono giovani qui. Ripeto, perché ci sono dei giovani. E voi, più giovani, quando davanti alle piccole frustrazioni che vi scoraggiano tendete a chiudervi in voi stessi, a ricorrere a comportamenti ed evasioni che non sono coerenti con la vostra consacrazione, cercate le vostre radici e guardate la strada percorsa dagli anziani. È meglio che prendiate un’altra strada piuttosto che vivere nella mediocrità. Questo per i giovani. Siete ancora in tempo, e la porta è aperta. Sono proprio le tribolazioni a delineare i tratti distintivi della speranza cristiana, perché quando è solo una speranza umana possiamo frustrarci e schiacciarci nel fallimento; ma non accade lo stesso con la speranza cristiana: essa esce più limpida, più provata dal crogiolo delle tribolazioni.

È vero che questi sono altri tempi e viviamo in altre strutture, ma è anche vero che questi consigli vengono meglio assimilati quando coloro che hanno vissuto quelle dure esperienze non si chiudono, ma le condividono approfittando dei momenti comuni. Le loro storie non sono piene di nostalgie di tempi passati presentati come migliori, né di accuse dissimulate verso quanti hanno strutture affettive più fragili. La provvista di costanza di una comunità di discepoli è efficace quando sa integrare – come quello scriba del Vangelo – il nuovo e il vecchio (cfr Mt 13,52), quando è consapevole che la storia vissuta è radice affinché l’albero possa fiorire.

Infine, guardare a Cristo Gesù come nostra speranza significa identificarci con Lui, partecipare comunitariamente al suo destino. Per l’apostolo Paolo, la salvezza sperata non si limita a un aspetto negativo – liberazione da una tribolazione interna o esterna, temporale o escatologica – ma l’accento è posto su qualcosa di altamente positivo: la partecipazione alla vita gloriosa di Cristo (cfr 1 Ts 5,9-10), la partecipazione al suo Regno glorioso (cfr 2 Tm 4,18), la redenzione del corpo (cfr Rm 8,23-24). Dunque, si tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ognuno, per ognuno di noi. Perché non c’è nessuno che ci conosca e ci abbia conosciuto tanto profondamente come Dio, perciò Egli ci ha destinati a qualcosa che sembra impossibile: scommette senza possibilità di errore che noi riproduciamo l’immagine di suo Figlio. Egli ha riposto le sue aspettative in noi, e noi speriamo in Lui.

Noi: un “noi” che integra, ma anche supera ed eccede l’“io”; il Signore ci chiama, ci giustifica e ci glorifica insieme, così insieme da includere tutta la creazione. Molte volte abbiamo posto così tanto l’accento sulla responsabilità personale che la dimensione comunitaria è diventata uno sfondo, solo un ornamento. Ma lo Spirito Santo ci riunisce, riconcilia le nostre differenze e genera nuovi dinamismi per dare impulso alla missione della Chiesa (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 131; 235).

Questo tempio in cui ci siamo radunati, è intitolato ai Santi Pietro e Paolo. Entrambi gli Apostoli furono consapevoli del tesoro che era stato loro dato, entrambi, in momenti e modi diversi, furono invitati a “prendere il largo” (cfr Lc 5,4). Sulla barca della Chiesa ci siamo tutti, cercando sempre di gridare a Dio, di essere costanti in mezzo alle tribolazioni e di avere Cristo Gesù come oggetto della nostra speranza. E questa barca, riconosce al centro della propria missione l’annuncio di quella gloria sperata, che è la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, in Cristo Risorto, e che un giorno, atteso con ansia da tutta la creazione, si manifesterà nei figli di Dio. Questa è la sfida che ci spinge: il mandato di evangelizzare. È la ragione della nostra speranza e della nostra gioia.

Quante volte troviamo sacerdoti, consacrati e consacrate, tristi. La tristezza spirituale è una malattia. Tristi perché non sanno… Tristi perché non trovano l’amore, perché non sono innamorati: innamorati del Signore. Hanno lasciato da parte una vita di matrimonio, di famiglia, e hanno voluto seguire il Signore. Ma adesso sembra che si siano stancati... E scende la tristezza. Per favore, quando voi vi troverete tristi, fermatevi. E cercate un prete saggio, una suora saggia. Non saggi perché siano laureati all’università, no, non per quello. Saggio o saggia perché è stato capace o è stata capace di andare avanti nell’amore. Andate a chiedere consiglio. Quando incomincia quella tristezza, possiamo profetizzare che se non è guarita in tempo farà di voi “zitelloni” e “zitellone”, uomini e donne che non sono fecondi. E di questa tristezza abbiate paura! La semina il diavolo.

E oggi quel mare in cui “prendere il largo” saranno gli scenari e le sfide sempre nuove di questa Chiesa in uscita. Dobbiamo domandarci nuovamente: che cosa ci chiede il Signore? Quali sono le periferie che più hanno bisogno della nostra presenza per portare ad esse la luce del Vangelo? (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Altrimenti, se voi non avete la gioia della vocazione, chi potrà credere che Gesù Cristo è la nostra speranza? Solo il nostro esempio di vita darà ragione della nostra speranza in Lui.

C’è un’altra cosa che si collega con la tristezza: confondere la vocazione con un’impresa, con una ditta di lavoro. “Io mi impiego in questo, lavoro in questo, mi entusiasmo con questo…, e sono felice perché ho questo”. Ma domani, viene un vescovo, un altro o lo stesso, o viene un altro superiore, superiora, e ti dice: “No, taglia questo e va da quella parte”. È il momento della sconfitta. Perché? Perché, in quel momento, ti accorgerai di essere andato per una strada equivoca. Ti accorgerai che il Signore, che ti ha chiamato per amare, è deluso da te, perché tu hai preferito fare l’affarista. All’inizio vi ho detto che la vita di chi segue Gesù non è la vita di funzionario o funzionaria: è la vita dell’amore del Signore e dello zelo apostolico per la gente. Farò una caricatura: cosa fa un prete funzionario? Ha il suo orario, il suo ufficio, apre l’ufficio a quell’ora, fa il suo lavoro, chiude l’ufficio… E la gente è fuori. Non si avvicina alla gente. Cari fratelli e sorelle, se voi non volete essere dei funzionari, vi dirò una parola: vicinanza! Vicinanza, prossimità. Vicinanza al Tabernacolo, a tu per tu con il Signore. E vicinanza alla gente. “Ma, padre, la gente non viene…”. Vai a trovarla! “Ma, i ragazzi oggi non vengono…”. Inventa qualcosa: l’oratorio, per seguirli, per aiutarli. Vicinanza con la gente. E vicinanza con il Signore nel Tabernacolo. Il Signore vi vuole pastori di popolo, e non chierici di Stato! Dopo dirò qualcosa alle suore, ma dopo…

Vicinanza vuol dire misericordia. In questa terra dove Gesù si è rivelato come Gesù misericordioso, un sacerdote non può non essere misericordioso. Soprattutto nel confessionale. Pensate a come Gesù accoglierebbe questa persona [che viene a confessarsi]. Già abbastanza lo ha bastonato la vita, quel poveraccio! Fagli sentire l’abbraccio del Padre che perdona. Se non puoi dargli l’assoluzione, per esempio, dagli la consolazione del fratello, del padre. Incoraggialo ad andare avanti. Convincilo che Dio perdona tutto. Ma questo col calore di padre. Mai cacciare qualcuno dal confessionale! Mai cacciare via. “Guarda, tu non puoi… Adesso non posso, ma Dio ti ama, tu prega, ritorna e parleremo…”. Così. Vicinanza. Questo è essere padre. A te non importa di quel peccatore, che lo cacci via così? Non sto parlando di voi, perché non vi conosco. Parlo di altre realtà. E misericordia. Il confessionale non è lo studio di uno psichiatra. Il confessionale non è per scavare nel cuore della gente.

E per questo, cari sacerdoti, vicinanza per voi significa anche avere viscere di misericordia. E le viscere di misericordia, sapete dove si prendono? Lì, al Tabernacolo.

E voi, care suore… Tante volte si vedono suore che sono brave – tutte le suore sono brave –, ma che chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano… Domandate a quella che è al primo posto dall’altra parte – la penultima – se nel carcere aveva tempo di chiacchierare, mentre cuciva i guanti. Domandatele. Per favore, siate madri! Siate madri, perché voi siete icona della Chiesa e della Madonna. E ogni persona che vi vede, possa vedere la mamma Chiesa e la mamma Maria. Non dimenticate questo. E la mamma Chiesa non è “zitellona”. La mamma Chiesa non chiacchiera: ama, serve, fa crescere. La vostra vicinanza è essere madre: icona della Chiesa e icona della Madonna.

Vicinanza al Tabernacolo e alla preghiera. Quella sete dell’anima di cui ho parlato, e con gli altri. Servizio sacerdotale e vita consacrata non da funzionari, ma di padri e madri di misericordia. E se voi fate così, da vecchi avrete un sorriso bellissimo e degli occhi brillanti! Perché avrete l’anima piena di tenerezza, di mitezza, di misericordia, di amore, di paternità e maternità.

E pregate per questo povero vescovo. Grazie!


23 settembre, Vilnius: Preghiera nel "Museo delle occupazioni e lotte per la libertà"

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,47).

Il tuo grido, Signore, non cessa di risuonare, e riecheggia tra queste mura che ricordano le sofferenze vissute da tanti figli di questo popolo. Lituani e provenienti da diverse nazioni hanno sofferto nella loro carne il delirio di onnipotenza di quelli che pretendevano di controllare tutto.

Nel tuo grido, Signore, trova eco il grido dell’innocente che si unisce alla tua voce e si leva verso il cielo. È il Venerdì Santo del dolore e dell’amarezza, della desolazione e dell’impotenza, della crudeltà e del non senso che ha vissuto questo popolo lituano di fronte all’ambizione sfrenata che indurisce e acceca il cuore.

In questo luogo della memoria, ti imploriamo, Signore, che il tuo grido ci mantenga svegli. Che il tuo grido, Signore, ci liberi dalla malattia spirituale da cui, come popolo, siamo sempre tentati: dimenticarci dei nostri padri, di quanto è stato vissuto e patito.

Che nel tuo grido e nella vita dei nostri padri che tanto hanno sofferto possiamo trovare il coraggio di impegnarci con determinazione nel presente e nel futuro; che quel grido sia stimolo per non adeguarci alle mode del momento, agli slogan semplificatori, e ad ogni tentativo di ridurre e togliere a qualsiasi persona la dignità di cui Tu l’hai rivestita.

Signore, che la Lituania sia faro di speranza. Sia terra della memoria operosa che rinnova gli impegni contro ogni ingiustizia. Che promuova creativi sforzi nella difesa dei diritti di tutte le persone, specialmente dei più indifesi e vulnerabili. E che sia maestra nel riconciliare e armonizzare le diversità.

Signore, non permettere che siamo sordi al grido di tutti quelli che oggi continuano ad alzare la voce al cielo.


24 settembre, Riga: Incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico

La ringrazio, Signor Presidente, per le sue gentili parole di benvenuto, come pure per l’invito a farvi visita rivoltomi durante l’incontro che abbiamo avuto in Vaticano. È motivo di gioia potermi trovare per la prima volta in Lettonia e in questa città, che, come tutto il vostro Paese, è stata segnata da dure prove sociali, politiche, economiche e anche spirituali – dovute alle divisioni e ai conflitti del passato – ma che oggi è diventata uno dei principali centri culturali, politici e portuali della regione. I vostri rappresentanti nel campo della cultura e dell’arte, in particolare del mondo musicale, sono ben conosciuti all’estero. Anch’io oggi ho potuto apprezzarli al mio arrivo in aeroporto. Perciò penso che a voi si possano ben applicare le parole del salmista: «Hai mutato il mio lamento in danza» (Sal 30,12). La Lettonia, terra dei “dainas”, ha saputo cambiare il suo lamento e il suo dolore in canto e danza e si è sforzata di trasformarsi in un luogo di dialogo e di incontro, di convivenza pacifica che cerca di guardare avanti.

Celebrate i cento anni della vostra indipendenza, momento significativo per la vita dell’intera società. Voi conoscete molto bene il prezzo di questa libertà che avete dovuto conquistare e riconquistare. Una libertà resa possibile grazie alle radici che vi costituiscono, come amava ricordare Zenta Maurina che ha ispirato tanti di voi: «Le mie radici sono in cielo». Senza questa capacità di guardare in alto, di fare appello a orizzonti più alti che ci ricordano quella “dignità trascendente” che è parte integrante di ogni essere umano (cfrDiscorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014), non sarebbe stata possibile la ricostruzione della vostra Nazione. Tale capacità spirituale di guardare oltre, che si fa concreta in piccoli gesti quotidiani di solidarietà, di compassione e di aiuto reciproco, vi ha sostenuto e, a sua volta, vi ha dato la creatività necessaria per dar vita a nuove dinamiche sociali di fronte a tutti i tentativi riduzionisti e di esclusione che minacciano sempre il tessuto sociale.

Sono lieto di sapere che nel cuore delle radici che costituiscono questa terra si trova la Chiesa Cattolica, in un’opera di piena collaborazione con le altre Chiese cristiane, il che è segno di come sia possibile sviluppare una comunione nelle differenze. Realtà che si verifica quando le persone hanno il coraggio di andare al di là della superficie conflittuale e si guardano nella loro dignità più profonda. Così possiamo affermare che ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la comprensione e l’impegno reciproci si trasformano in solidarietà; e questa, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa un modo di fare la storia, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Così come ha nutrito la vita del vostro popolo, oggi il Vangelo può continuare ad aprire strade per affrontare le sfide attuali, valorizzando le differenze e soprattutto promuovendo la comune-unione tra tutti.

La celebrazione del centenario ricorda l’importanza di continuare a scommettere sulla libertà e l’indipendenza della Lettonia, che certamente sono un dono, ma sono anche un compito che coinvolge tutti. Lavorare per la libertà significa impegnarsi in uno sviluppo integrale e integrante delle persone e della comunità. Se oggi si può fare festa è grazie a tanti che hanno aperto strade, porte, futuro, e vi hanno lasciato in eredità la stessa responsabilità: aprire futuro avendo di mira che tutto sia al servizio della vita, generi vita. E, in tale prospettiva, al termine di questo incontro ci recheremo al Monumento alla Libertà, dove saranno presenti bambini, giovani e famiglie. Essi ci ricordano che la “maternità” della Lettonia – analogia suggerita dal motto di questo viaggio – trova eco nella capacità di promuovere strategie che siano veramente efficaci e focalizzate sui volti concreti di queste famiglie, di questi anziani, bambini e giovani, più che sul primato dell’economia sopra la vita. La “maternità” della Lettonia si manifesta anche nella capacità di creare opportunità di lavoro, in modo che nessuno debba sradicarsi per costruire il proprio futuro. L’indice di sviluppo umano si misura anche dalla capacità di crescere e moltiplicarsi. Lo sviluppo delle comunità non si attua e nemmeno si misura unicamente per la capacità di beni e risorse che si possiedono, ma per il desiderio che si ha di generare vita e creare futuro. Questo è possibile solo nella misura in cui ci sono radicamento nel passato, creatività nel presente e fiducia e speranza nel domani. E si misura dalla capacità di spendersi e di scommettere così come le generazioni passate ci hanno saputo testimoniare.

Signor Presidente, amici tutti, inizio qui il mio pellegrinaggio in questa terra, chiedendo a Dio di continuare ad accompagnare, benedire e rendere prospera l’opera delle vostre mani per questa Nazione.


24 settembre, Riga: Preghiera Ecumenica

Sono lieto di potermi incontrare con voi, in questa terra che si caratterizza per realizzare un cammino di rispetto, collaborazione e amicizia tra le diverse Chiese cristiane, che sono riuscite a generare unità mantenendo la ricchezza e la singolarità proprie di ciascuna. Oserei dire che è un “ecumenismo vivo” e costituisce una delle caratteristiche peculiari della Lettonia. Senza alcun dubbio, un motivo di speranza e rendimento di grazie.

Grazie all’Arcivescovo Jānis Vanags per averci aperto la porta di questa casa per realizzare il nostro incontro di preghiera. Casa Cattedrale che da più di 800 anni ospita la vita cristiana di questa città; testimone fedele di tanti nostri fratelli che vi si sono accostati per adorare, pregare, sostenere la speranza in tempi di sofferenza e trovare coraggio per affrontare periodi colmi di ingiustizia e di dolore. Oggi ci ospita perché lo Spirito Santo continui a tessere artigianalmente legami di comunione tra noi e, così, renda anche noi artigiani di unità tra la nostra gente, così che le nostre differenze non diventino divisioni. Lasciamo che lo Spirito Santo ci rivesta con le armi del dialogo, della comprensione, della ricerca del rispetto reciproco e della fraternità (cfr Ef 6,13-18).

In questa Cattedrale si trova uno degli organi più antichi d’Europa e che è stato il più grande del mondo al tempo della sua inaugurazione. Possiamo immaginare come abbia accompagnato la vita, la creatività, l’immaginazione e la pietà di tutti coloro che si lasciavano avvolgere dalla sua melodia. E’ stato strumento di Dio e degli uomini per elevare lo sguardo e il cuore. Oggi è un emblema di questa città e di questa Cattedrale. Per il residente di questo luogo rappresenta più di un organo monumentale, è parte della sua vita, della sua tradizione, della sua identità. Invece, per il turista, è naturalmente un oggetto artistico da conoscere e fotografare. E questo è un pericolo che sempre si corre: passare da residenti a turisti. Fare di ciò che ci identifica un oggetto del passato, un’attrazione turistica e da museo che ricorda le gesta di un tempo, di alto valore storico, ma che ha cessato di far vibrare il cuore di quanti lo ascoltano.

Con la fede ci può succedere esattamente la stessa cosa. Possiamo smettere di sentirci cristiani residenti per diventare dei turisti. Di più, potremmo affermare che tutta la nostra tradizione cristiana può subire la stessa sorte: finire ridotta a un oggetto del passato che, chiuso tra le pareti delle nostre chiese, cessa di intonare una melodia capace di smuovere e ispirare la vita e il cuore di quelli che la ascoltano. Tuttavia, come afferma il Vangelo che abbiamo ascoltato, la nostra fede non è destinata a stare nascosta, ma ad esser fatta conoscere e risuonare in diversi ambiti della società, perché tutti possano contemplare la sua bellezza ed essere illuminati dalla sua luce (cfr Lc 11,33).

Se la musica del Vangelo smette di essere eseguita nella nostra vita e si trasforma in una bella partitura del passato, non saprà più rompere le monotonie asfissianti che impediscono di animare la speranza, rendendo così sterili tutti i nostri sforzi.

Se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati.

Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna di qualunque provenienza, rinchiudendoci nel “mio”, dimenticandoci del “nostro”: la casa comune che ci riguarda tutti.

Se la musica del Vangelo smette di suonare, avremo perso i suoni che condurranno la nostra vita al cielo, trincerandoci in uno dei mali peggiori del nostro tempo: la solitudine e l’isolamento. La malattia che nasce in chi non ha alcun legame, e che si può riscontrare negli anziani abbandonati al loro destino, come pure nei giovani senza punti di riferimento e opportunità per il futuro (cfrDiscorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014).

Padre, «che tutti siano una sola cosa, […] perché il mondo creda» (Gv 17,21). Queste parole continuano a risuonare con forza in mezzo a noi, grazie a Dio. È Gesù che prima del suo sacrificio prega il Padre. È Gesù, Gesù Cristo che, guardando in faccia la sua croce e la croce di tanti nostri fratelli, non cessa di implorare il Padre. È il mormorio costante di questa preghiera che traccia il sentiero e ci indica la via da seguire. Immersi nella sua preghiera, come credenti in Lui e nella sua Chiesa, desiderando la comunione di grazia che il Padre possiede da tutta l’eternità (cfr S. Giovanni Paolo II, Enc. Ut unum sint, 9), troviamo lì l’unica strada possibile per ogni ecumenismo: nella croce della sofferenza di tanti giovani, anziani e bambini esposti spesso allo sfruttamento, al non senso, alla mancanza di opportunità e alla solitudine. Mentre guarda al Padre e a noi suoi fratelli, Gesù non smette di implorare: che tutti siano uno.

La missione oggi continua a chiederci e a reclamare da noi l’unità; è la missione che esige da noi che smettiamo di guardare le ferite del passato ed ogni atteggiamento autoreferenziale per incentrarci sulla preghiera del Maestro. E’ la missione a reclamare che la musica del Vangelo non cessi di suonare nelle nostre piazze.

Alcuni possono arrivare a dire: sono tempi difficili, sono tempi complessi quelli che ci capita di vivere. Altri possono arrivare a pensare che, nelle nostre società, i cristiani hanno sempre meno margini di azione e di influenza a causa di innumerevoli fattori come ad esempio il secolarismo o le logiche individualiste. Questo non può portare a un atteggiamento di chiusura, di difesa e nemmeno di rassegnazione. Non possiamo fare a meno di riconoscere che certamente non sono tempi facili, specialmente per molti nostri fratelli che oggi vivono nella loro carne l’esilio e persino il martirio a causa della fede. Ma la loro testimonianza ci conduce a scoprire che il Signore continua a chiamarci e invitarci a vivere il Vangelo con gioia, gratitudine e radicalità. Se Cristo ci ha ritenuti degni di vivere in questi tempi, in questa ora – l’unica che abbiamo –, non possiamo lasciarci vincere dalla paura né lasciare che passi senza assumerla con la gioia della fedeltà. Il Signore ci darà la forza per fare di ogni tempo, di ogni momento, di ogni situazione un’opportunità di comunione e riconciliazione con il Padre e con i fratelli, specialmente con quelli che oggi sono considerati inferiori o materiale di scarto. Se Cristo ci ha ritenuti degni di far risuonare la melodia del Vangelo, smetteremo di farlo?

L’unità a cui il Signore ci chiama è un’unità sempre in chiave missionaria, che ci chiede di uscire e raggiungere il cuore della nostra gente e delle culture, della società postmoderna in cui viviamo, «là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 74). Questa missione ecumenica riusciremo a realizzarla se ci lasceremo impregnare dallo Spirito di Cristo che è capace di «rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina. Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (ibid., 11).

Cari fratelli e sorelle, continui a suonare la musica del Vangelo in mezzo a noi! Non cessi di risuonare ciò che permette al nostro cuore di continuare a sognare e a tendere alla vita piena a cui il Signore, tutti, ci chiama: essere suoi discepoli missionari in mezzo al mondo in cui viviamo.


24 settembre, Riga: Visita alla cattedrale cattolica di san Giacomo

Ringrazio l’Arcivescovo per le sue parole e la sua attenta analisi della realtà. La vostra presenza, fratelli anziani, mi ricorda due espressioni della Lettera dell’apostolo Giacomo, al quale è intitolata questa Cattedrale. All’inizio e alla fine della lettera egli ci invita alla costanza, usando però due termini diversi. Sono certo che possiamo sentire la voce del “fratello del Signore” che oggi vuole rivolgersi a noi.

Voi qui presenti siete stati sottoposti ad ogni sorta di prove: l’orrore della guerra, e poi la repressione politica, la persecuzione e l’esilio, come ha ben descritto il vostro Arcivescovo. E siete stati costanti, avete perseverato nella fede. Né il regime nazista né quello sovietico hanno spento la fede nei vostri cuori e, per alcuni di voi, non vi hanno fatto desistere neppure dal dedicarvi alla vita sacerdotale, religiosa, a essere catechisti, e a diversi servizi ecclesiali che mettevano a rischio la vita; avete combattuto la buona battaglia, state per concludere la corsa, e avete conservato la fede (cfr 2 Tm 4,7).

Ma l’apostolo Giacomo insiste sul fatto che questa pazienza supera la prova della fede facendo emergere opere perfette (cfr 1,2-4). Il vostro operare sarà stato perfetto allora, e dovrà tendere ancora alla perfezione nelle nuove circostanze. Voi, che vi siete spesi corpo e anima, che avete dato la vita inseguendo la libertà della vostra patria, tante volte vi sentite dimenticati. Benché suoni paradossale, oggi, in nome della libertà, gli uomini liberi assoggettano gli anziani alla solitudine, all’ostracismo, alla mancanza di risorse e all’esclusione, e perfino alla miseria. Se è così, il cosiddetto treno della libertà e del progresso finisce per avere, in coloro che hanno lottato per conquistare diritti, la sua carrozza di coda, gli spettatori di una festa altrui, onorati e omaggiati, ma dimenticati nella vita quotidiana (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 234).

L’apostolo Giacomo ci invita a essere costanti, a non abbassare la guardia. «In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 163). Non cedete allo sconforto, alla tristezza, non perdete la dolcezza e, meno ancora, la speranza!

Concludendo la sua epistola, san Giacomo torna ad invitare alla costanza (5,7), ma utilizza una parola che unisce due significati: sopportare pazientemente e sperare pazientemente. Vi incoraggio ad essere anche voi, in seno alle vostre famiglie e alla vostra patria, esempio di entrambi questi atteggiamenti: sopportazione e speranza, tutt’e due impregnate di pazienza. Così continuerete a costruire il vostro popolo. Voi, che avete attraversato molte stagioni, siete testimonianza viva di costanza nelle avversità, ma anche del dono della profezia, che ricorda alle giovani generazioni che la cura e la protezione di quelli che ci hanno preceduto sono gradite e apprezzate da Dio, e che gridano a Dio quando sono disattese. Voi che avete attraversato molte stagioni, non dimenticatevi che siete radici di un popolo, radici di giovani germogli che devono fiorire e portare frutto; difendete queste radici, mantenetele vive perché i bambini e i giovani si innestino lì, e capiscano che «tutto ciò che sull’albero è fiorito / vive di ciò che giace sotterrato» (F. L. Bernárdez, sonettoSi para recobrar lo recobrado).

Come dice l’iscrizione sul pulpito di questo tempio: «Se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore» (Sal 95,7-8). Il cuore duro è quello sclerotizzato, quello che perde la gioia della novità di Dio, che rinuncia alla giovinezza di spirito, a gustare e vedere che sempre, in ogni tempo e fino alla fine, è buono il Signore (cfr Sal 34,9).


24 settembre, Aglona: Omelia della Messa nell'area del Santuario della Madre di Dio

Potremmo ben dire che ciò che San Luca narra all'inizio del libro degli Atti degli Apostoli si ripete oggi qui: siamo intimamente uniti, dedicati alla preghiera e in compagnia di Maria, nostra Madre (cfr 1,14). Oggi facciamo nostro il motto di questa visita: “Mostrati Madre!”, manifesta in quale luogo continui a cantare il Magnificat, in quali luoghi si trova il tuo Figlio crocifisso, per trovare ai suoi piedi la tua salda presenza.

Il Vangelo di Giovanni riporta solo due momenti in cui la vita di Gesù incrocia quella di sua Madre: le nozze di Cana (cfr 2,1-12) e quello che abbiamo appena letto, Maria ai piedi della croce (cfr 19,25-27). Parrebbe che l'evangelista sia interessato a mostrarci la Madre di Gesù in queste situazioni di vita apparentemente opposte: la gioia di un matrimonio e il dolore per la morte di un figlio. Mentre ci addentriamo nel mistero della Parola, Ella ci mostri qual è la Buona Notizia che il Signore oggi vuole condividere con noi.

La prima cosa che l’evangelista fa notare è che Maria sta “saldamente in piedi” accanto a suo Figlio. Non è un modo leggero di stare, neppure evasivo e tanto meno pusillanime. È, con fermezza, “inchiodata” ai piedi della croce, esprimendo con la postura del suo corpo che niente e nessuno potrebbe spostarla da quel luogo. Maria si mostra in primo luogo così: accanto a coloro che soffrono, a coloro dai quali il mondo intero fugge, accanto anche a quelli che sono processati, condannati da tutti, deportati. Non soltanto vengono oppressi o sfruttati, ma si trovano direttamente “fuori dal sistema”, ai margini della società (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 53). Con loro c’è anche la Madre, inchiodata sulla croce dell’incomprensione e della sofferenza.

Maria ci mostra anche un modo di stare accanto a queste realtà; non è fare una passeggiata o una breve visita, e nemmeno è un “turismo solidale”. Occorre che coloro che patiscono una realtà di dolore ci sentano al loro fianco e dalla loro parte, in modo fermo, stabile; tutti gli scartati della società possono fare esperienza di questa Madre delicatamente vicina, perché in chi soffre permangono le piaghe aperte del suo Figlio Gesù. Lei lo ha imparato ai piedi della croce. Anche noi siamo chiamati a “toccare” la sofferenza degli altri. Andiamo incontro alla nostra gente per consolarla e accompagnarla; non abbiamo paura di sperimentare la forza della tenerezza e di coinvolgerci e complicarci la vita per gli altri (cfr ibid., 270). E, come Maria, rimaniamo saldi e in piedi: con il cuore rivolto a Dio e coraggiosi, rialzando chi è caduto, sollevando l’umile, aiutando a porre fine a qualunque situazione di oppressione che li fa vivere come crocifissi.

Maria è chiamata da Gesù ad accogliere il discepolo amato come suo figlio. Il testo ci dice che erano insieme, ma Gesù si accorge che non basta, che non si sono accolti a vicenda. Perché si può stare accanto a tantissime persone, si può anche condividere la stessa abitazione, il quartiere o il lavoro; si può condividere la fede, contemplare e godere gli stessi misteri, ma non accogliere, non esercitare un’accettazione amorevole dell’altro. Quanti coniugi potrebbero raccontare la storia del loro essere vicini ma non insieme; quanti giovani sentono con dolore questa distanza rispetto agli adulti; quanti anziani si sentono freddamente accuditi, ma non amorevolmente curati e accolti.

È vero che, a volte, quando ci siamo aperti agli altri, questo ci ha fatto molto male. È anche vero che, nelle nostre realtà politiche, la storia dello scontro tra i popoli è ancora dolorosamente fresca. Maria si mostra come donna aperta al perdono, a mettere da parte rancori e diffidenze; rinuncia a recriminare su ciò che “avrebbe potuto essere” se gli amici di suo Figlio, se i sacerdoti del suo popolo o se i governanti si fossero comportati in modo diverso, non si lascia vincere dalla frustrazione o dall'impotenza. Maria crede a Gesù e accoglie il discepolo, perché le relazioni che ci guariscono e ci liberano sono quelle che ci aprono all’incontro e alla fraternità con gli altri, perché scoprono nell’altro Dio stesso (cfr ibid., 92). Monsignor Sloskans, che riposa qui, dopo essere stato arrestato e mandato lontano scriveva ai suoi genitori: «Vi chiedo dal profondo del mio cuore: non lasciate che la vendetta o l’esasperazione si facciano strada nel vostro cuore. Se lo permettessimo, non saremmo veri cristiani, ma fanatici». In tempi nei quali sembrano ritornare mentalità che ci invitano a diffidare degli altri, che con statistiche ci vogliono dimostrare che staremmo meglio, avremmo più prosperità, ci sarebbe più sicurezza se fossimo soli, Maria e i discepoli di queste terre ci invitano ad accogliere, a scommettere di nuovo sul fratello, sulla fraternità universale.

Ma Maria si mostra anche come la donna che si lascia accogliere, che accetta umilmente di diventare parte delle cose del discepolo. In quel matrimonio che era rimasto senza vino, col pericolo di finire pieno di riti ma arido di amore e gioia, fu lei a ordinare che facessero quello che Lui avrebbe detto loro (cfr Gv 2,5). Ora, come discepola obbediente, si lascia accogliere, si trasferisce, si adatta al ritmo del più giovane. Sempre costa l’armonia quando siamo diversi, quando gli anni, le storie e le circostanze ci pongono in modi di sentire, di pensare e di fare che a prima vista sembrano opposti. Quando con fede ascoltiamo il comando di accogliere e di essere accolti, è possibile costruire l’unità nella diversità, perché non ci frenano né ci dividono le differenze, ma siamo capaci di guardare oltre, di vedere gli altri nella loro dignità più profonda, come figli di uno stesso Padre (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228).

In questa, come in ogni Eucaristia, facciamo memoria di quel giorno. Ai piedi della croce, Maria ci ricorda la gioia di essere stati riconosciuti come suoi figli, e suo Figlio Gesù ci invita a portarla a casa, a metterla al centro della nostra vita. Lei vuole donarci il suo coraggio, per stare saldamente in piedi; la sua umiltà, che le permette di adattarsi alle coordinate di ogni momento della storia; e alza la sua voce affinché, in questo suo santuario, tutti ci impegniamo ad accoglierci senza discriminazioni, e che tutti in Lettonia sappiano che siamo disposti a privilegiare i più poveri, a rialzare quanti sono caduti e ad accogliere gli altri così come arrivano e si presentano davanti a noi.


24 settembre, Tallin: Incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico

Sono molto felice di essere tra voi, qui a Tallinn, la capitale più settentrionale che il Signore mi ha dato di visitare. La ringrazio, Signora Presidente, per le Sue parole di benvenuto e per l’opportunità di incontrare i rappresentanti di questo popolo dell’Estonia. So che tra voi c’è anche una delegazione dei settori della società civile e del mondo della cultura che mi permette di esprimere la mia intenzione di conoscere un po’ di più la vostra cultura, specialmente quella capacità di resilienza che vi ha permesso di ricominciare di fronte a tante situazioni di avversità.

Da secoli queste terre sono chiamate “Terra di Maria”, Maarjamaa. Un nome che non solo appartiene alla vostra storia, ma fa parte della vostra cultura. Pensare a Maria evoca in me due parole: memoria e fecondità. Lei è la donna della memoria, che custodisce tutto ciò che vive, come un tesoro, nel suo cuore (Lc 2,19); ed è la madre feconda che genera la vita di suo Figlio. Ecco perché mi piacerebbe pensare all’Estonia come terra di memoria e di fecondità.

Terra di memoria

Il vostro popolo ha dovuto sopportare in diversi periodi storici duri momenti di sofferenza e tribolazione. Lotte per la libertà e l’indipendenza, che sono sempre state messe in discussione o minacciate. Tuttavia, negli ultimi poco più di 25 anni – in cui siete rientrati a pieno titolo nella famiglia delle nazioni – la società estone ha compiuto “passi da gigante” e il vostro Paese, pur essendo piccolo, si trova tra i primi per l’indice di sviluppo umano, per la sua capacità di innovazione, oltre a dimostrare un alto livello riguardo a libertà di stampa, democrazia e libertà politica. Inoltre avete rafforzato i legami di cooperazione e amicizia con diversi Paesi. Considerando il vostro passato e il vostro presente, troviamo motivi per guardare al futuro con speranza di fronte alle nuove sfide che vi si presentano. Essere terra della memoria significa saper ricordare che il posto che avete raggiunto oggi è dovuto allo sforzo, al lavoro, allo spirito e alla fede dei vostri padri. Coltivare la memoria riconoscente permette di identificare tutti i risultati di cui oggi godete con una storia di uomini e donne che hanno combattuto per rendere possibile questa libertà, e che a sua volta vi chiama a rendere loro omaggio aprendo strade per coloro che verranno dopo.

Terra di fecondità

Come ho sottolineato all’inizio del mio ministero di Vescovo di Roma, «l’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone» (Esort. ap, Evangelii gaudium, 52); tuttavia, occorre sempre ricordare che il benessere non è sempre sinonimo di vivere bene.

Uno dei fenomeni che possiamo osservare nelle nostre società tecnocratiche è la perdita del senso della vita, della gioia di vivere e, quindi, uno spegnersi lento e silenzioso della capacità di meraviglia, che spesso immerge la gente in una fatica esistenziale. La consapevolezza di appartenere e di lottare per gli altri, di essere radicati in un popolo, in una cultura, in una famiglia può andare perduta a poco a poco privando, soprattutto i più giovani, di radici a partire dalle quali costruire il proprio presente e il proprio futuro, perché li si priva della capacità di sognare, di rischiare, di creare. Mettere tutta la fiducia nel progresso tecnologico come unica via possibile di sviluppo può causare la perdita della capacità di creare legami interpersonali, intergenerazionali e interculturali, vale a dire di quel tessuto vitale così importante per sentirci parte l’uno dell’altro e partecipi di un progetto comune nel senso più ampio del termine. Di conseguenza, una delle responsabilità più rilevanti che abbiamo quanti assumiamo un incarico sociale, politico, educativo, religioso sta proprio nel modo in cui diventiamo artigiani di legami.

Una terra feconda richiede scenari a partire dai quali radicare e creare una rete vitale in grado di far sì che i membri delle comunità si sentano “a casa”. Non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno. Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo compongono; e anche nella misura in cui rompe le spirali che annebbiano i sensi, allontanandoci sempre gli uni dagli altri. In questo sforzo, cari amici, voglio assicurarvi che potete sempre contare sul sostegno e sull’aiuto della Chiesa Cattolica, una piccola comunità tra di voi, ma con tanta voglia di contribuire alla fecondità di questa terra.

Signora Presidente, Signore e Signori, vi ringrazio ancora per l’accoglienza e l’ospitalità. Il Signore benedica voi e l’amato popolo estone. In modo speciale, benedica gli anziani e i giovani affinché, conservando la memoria e facendosi carico di essa, facciano di questa terra un modello di fecondità. Grazie.


25 settembre, Tallin: Incontro ecumenico con i giovani

Cari giovani,

grazie per la vostra calorosa accoglienza, per i vostri canti e per le testimonianze di Lisbel, Tauri e Mirko. Sono grato per le gentili e fraterne parole dell’Arcivescovo della Chiesa Evangelica Luterana di Estonia, Urmas Viilma, come pure per la presenza del Presidente del Consiglio delle Chiese dell’Estonia, l’Arcivescovo Andres Põder, del Vescovo Philippe Jourdan, Amministratore Apostolico in Estonia, e degli altri rappresentanti delle diverse confessioni cristiane presenti nel Paese. Sono grato anche della presenza della Signora Presidente della Repubblica.

È sempre bello riunirci, condividere testimonianze di vita, esprimere quello che pensiamo e vogliamo; ed è molto bello stare insieme, noi che crediamo in Gesù Cristo. Questi incontri realizzano il sogno di Gesù nell’Ultima Cena: «Che tutti siano una sola cosa, […] perché il mondo creda» (Gv 17,21). Se ci sforziamo di vederci come pellegrini che fanno il cammino insieme, impareremo ad aprire il cuore con fiducia al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, guardando solo a ciò che realmente cerchiamo: la pace davanti al volto dell’unico Dio. E siccome la pace è artigianale, aver fiducia negli altri è pure qualcosa di artigianale, è fonte di felicità: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). E questa strada, questo cammino non lo facciamo solo con i credenti, ma con tutti. Tutti hanno qualcosa da dirci. A tutti abbiamo qualcosa da dire.

Il grande dipinto che si trova nell’abside di questa chiesa contiene una frase del Vangelo di San Matteo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Voi, giovani cristiani, potete identificarvi con alcuni elementi di questo brano del Vangelo.

Nelle narrazioni che precedono, Matteo ci dice che Gesù sta accumulando delusioni. Prima si lamenta perché sembra che a quelli a cui si rivolge non vada bene niente (cfr Mt 11,16-19). A voi giovani capita spesso che gli adulti intorno a voi non sanno quello che vogliono o si aspettano da voi; o a volte, quando vi vedono molto felici, diffidano; e se vi vedono angosciati, relativizzano quello che vi succede. Nella consultazione prima del Sinodo, che celebreremo a breve e in cui rifletteremo sui giovani, molti di voi chiedono che qualcuno vi accompagni e vi capisca senza giudicare e sappia ascoltarvi, come pure rispondere ai vostri interrogativi (cfr Sinodo dedicato ai giovani, Instrumentum laboris, 132). Le nostre Chiese cristiane – e oserei dire ogni processo religioso strutturato istituzionalmente – a volte si portano dietro atteggiamenti nei quali è stato più facile per noi parlare, consigliare, proporre dalla nostra esperienza, piuttosto che ascoltare, piuttosto che lasciarsi interrogare e illuminare da ciò che voi vivete. Tante volte le comunità cristiane si chiudono, senza accorgersene, e non ascoltano le vostre inquietudini. Sappiamo che voi volete e vi aspettate «di essere accompagnati non da un giudice inflessibile, né da un genitore timoroso e iperprotettivo che genera dipendenza, ma da qualcuno che non ha timore della propria debolezza e sa far risplendere il tesoro che, come vaso di creta, custodisce al proprio interno (cfr 2 Cor 4,7)» (ibid., 142). Oggi qui voglio dirvi che vogliamo piangere con voi se state piangendo, accompagnare con i nostri applausi e le nostre risate le vostre gioie, aiutarvi a vivere la sequela del Signore. Voi, ragazzi e ragazze, giovani, sappiate questo: quando una comunità cristiana è veramente cristiana non fa proselitismo. Soltanto ascolta, accoglie, accompagna e cammina; ma non impone niente.

Gesù si lamenta anche delle città che ha visitato, compiendo in esse più miracoli e riservando ad esse maggiori gesti di tenerezza e vicinanza, e deplora la loro mancanza di fiuto nel rendersi conto che il cambiamento che era venuto a proporre loro era urgente, non poteva aspettare. Arriva perfino a dire che sono più testarde e accecate di Sodoma (cfr Mt 11,20-24). E quando noi adulti ci chiudiamo a una realtà che è già un fatto, ci dite con franchezza: “Non lo vedete?”. E alcuni più coraggiosi hanno il coraggio di dire: “Non vi accorgete che nessuno vi ascolta più, né vi crede?”. Abbiamo davvero bisogno di convertirci, di scoprire che per essere al vostro fianco dobbiamo rovesciare tante situazioni che sono, in definitiva, quelle che vi allontanano.

Sappiamo – come ci avete detto – che molti giovani non ci chiedono nulla perché non ci ritengono interlocutori significativi per la loro esistenza. È brutto questo, quando una Chiesa, una comunità, si comporta in modo tale che i giovani pensano: “Questi non mi diranno nulla che serva alla mia vita”. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, perché sentono la presenza della Chiesa come fastidiosa e perfino irritante. E questo è vero. Li indignano gli scandali sessuali ed economici di fronte ai quali non vedono una condanna netta; il non saper interpretare adeguatamente la vita e la sensibilità dei giovani per mancanza di preparazione; o semplicemente il ruolo passivo che assegniamo loro (cfr Sinodo dedicato ai giovani, Instrumentum laboris, 66). Queste sono alcune delle vostre richieste. Vogliamo rispondere a loro, vogliamo, come voi stessi dite, essere una «comunità trasparente, accogliente, onesta, attraente, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva» (ibid., 67), cioè una comunità senza paura. Le paure ci chiudono. Le paure ci spingono a essere proselitisti. E la fratellanza è un’altra cosa: il cuore aperto e l’abbraccio fraterno.

Prima di arrivare al testo evangelico che sovrasta questo tempio, Gesù inizia elevando una lode al Padre. Lo fa perché si rende conto che coloro che hanno compreso, quelli che capiscono il centro del suo messaggio e della sua persona, sono i piccoli, coloro che hanno l’anima semplice, aperta. E vedendovi così, riuniti, a cantare, mi unisco alla voce di Gesù e resto ammirato, perché voi, nonostante la nostra mancanza di testimonianza, continuate a scoprire Gesù in seno alle nostre comunità. Perché sappiamo che dove c’è Gesù c’è sempre rinnovamento, c’è sempre l’opportunità della conversione, di lasciarsi alle spalle tutto ciò che ci separa da Lui e dai nostri fratelli. Dove c’è Gesù, la vita ha sempre sapore di Spirito Santo. Voi, qui oggi, siete l’attualizzazione di quella meraviglia di Gesù.

Allora sì, diciamo di nuovo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Ma lo diciamo convinti che, al di là dei nostri limiti, delle nostre divisioni, Gesù continua ad essere il motivo per essere qui. Sappiamo che non c’è sollievo più grande che lasciare che Gesù porti le nostre oppressioni. Sappiamo anche che ci sono molti che ancora non lo conoscono e vivono nella tristezza e nello smarrimento. Una vostra famosa cantante, circa dieci anni fa, diceva in una delle sue canzoni: «L’amore è morto, l’amore se n’è andato, l’amore non vive più qui» (Kerli Kõiv, L’amore è morto). No, per favore! Facciamo sì che l’amore sia vivo, e tutti noi dobbiamo fare questo! E sono tanti quelli che fanno questa esperienza: vedono che finisce l’amore dei loro genitori, che si dissolve l’amore di coppie appena sposate; sperimentano un intimo dolore quando a nessuno importa che debbano emigrare per cercare lavoro o quando li si guarda con sospetto perché sono stranieri. Sembrerebbe che l’amore sia morto, come diceva Kerli Kõiv, ma sappiamo che non è così, e abbiamo una parola da dire, qualcosa da annunciare, con pochi discorsi e molti gesti. Perché voi siete la generazione dell’immagine, la generazione dell’azione al di sopra della speculazione, della teoria.

E così piace a Gesù; perché Lui passò facendo il bene, e quando è morto ha preferito alle parole il gesto forte della croce. Noi siamo uniti dalla fede in Gesù, ed è Lui che attende che lo portiamo a tutti i giovani che hanno perso il senso della loro vita. E il rischio è, anche per noi credenti, di perdere il senso della vita. E questo succede quando noi credenti siamo incoerenti. Accogliamo insieme quella novità che Dio porta nella nostra vita; quella novità che ci spinge a partire sempre di nuovo, per andare là dove si trova l’umanità più ferita. Dove gli uomini, al di là dell’apparenza di superficialità e conformismo, continuano a cercare una risposta alla domanda sul senso della loro vita. Ma non andremo mai da soli: Dio viene con noi; Lui non ha paura, non ha paura delle periferie, anzi, Lui stesso si è fatto periferia (cfr Fil 2,6-8; Gv 1,14). Se abbiamo il coraggio di uscire da noi stessi, dai nostri egoismi, dalle nostre idee chiuse, e andare nelle periferie, là lo troveremo, perché Gesù ci precede nella vita del fratello che soffre ed è scartato. Egli è già là (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 135).

Ragazzi e ragazze, l’amore non è morto, ci chiama e ci invia. Chiede solo di aprire il cuore. Chiediamo la forza apostolica di portare il Vangelo agli altri – ma offrirlo, non imporlo – e di rinunciare a fare della nostra vita cristiana un museo di ricordi. La vita cristiana è vita, è futuro, è speranza! Non è un museo. Lasciamo che lo Spirito Santo ci faccia contemplare la storia nella prospettiva di Gesù risorto, così la Chiesa, così le nostre Chiese saranno in grado di andare avanti accogliendo in sé le sorprese del Signore (cfr ibid.., 139), recuperando la propria giovinezza, la gioia e la bellezza della quale parlava Mirko, della sposa che va incontro al Signore. Le sorprese del Signore. Il Signore ci sorprende perché la vita ci sorprende sempre. Andiamo avanti, incontro a queste sorprese. Grazie!


25 settembre, Tallin: Incontro con gli assistiti delle opere di carità della Chiesa

Cari fratelli e sorelle!

Grazie per avermi accolto questo pomeriggio nella vostra casa. Per me è importante fare questa visita e poter stare qui in mezzo a voi. Grazie a voi per la vostra testimonianza e per aver condiviso con noi tutto ciò che portate nel cuore.

Prima di tutto, vorrei congratularmi con te, Marina, e con tuo marito, per la bellissima testimonianza che ci avete donato. Siete stati benedetti con nove figli, con tutto il sacrificio che questo significa, come ci hai fatto notare. Dove ci sono bambini e giovani, c’è molto sacrificio, ma soprattutto c'è futuro, gioia, speranza. Ecco perché è confortante sentirti dire: “Rendiamo grazie al Signore per la comunione e l’amore che regna in casa nostra”. In questa terra, dove gli inverni sono duri, a voi non manca il calore più importante, quello della casa, quello che nasce dallo stare in famiglia. Con discussioni e problemi? Sì, è normale, ma con la voglia di andare avanti insieme. Non sono belle parole, ma un esempio chiaro.

E grazie per aver condiviso anche la testimonianza di queste suore che non avevano paura di uscire e andare dove voi stavate per essere segno della vicinanza e della mano tesa del nostro Dio. Tu hai detto che erano come degli angeli che venivano a visitarvi. È così: sono degli angeli.

Quando la fede non ha paura di lasciare le comodità, di mettersi in gioco e ha il coraggio di uscire, riesce a manifestare le parole più belle del Maestro: «Che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato» (Gv 13,34). Amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa, come in questa casa. Amore che sa di compassione e di dignità. E questo è bello. [Guarda i nove figli di Marina seduti su un’unica panca e li conta] Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove. Bella famiglia! Bella famiglia!

La fede missionaria va come queste sorelle per le strade delle nostre città, dei nostri quartieri, delle nostre comunità, dicendo con gesti molto concreti: fai parte della nostra famiglia, della grande famiglia di Dio nella quale tutti abbiamo un posto. Non rimanere fuori. E voi, sorelle, fate questo! Grazie.

Penso che questo sia il miracolo che ci hai raccontato tu, Vladimir. Hai trovato sorelle e fratelli che ti hanno offerto la possibilità di risvegliare il cuore e vedere che, in ogni momento, il Signore ti cercava instancabilmente per vestirti a festa (cfr Lc 15,22) e per celebrare il fatto che ognuno di noi è il suo figlio prediletto. La più grande gioia del Signore è vederci rinascere, per questo non si stanca mai di donarci una nuova opportunità. Per questo motivo, sono importanti i legami, sentire che apparteniamo gli uni agli altri, che ogni vita vale, e che siamo disposti a spenderla per questo.

Vorrei invitarvi a continuare a creare legami. Ad uscire nei quartieri per dire a tanti: anche tu fai parte della nostra famiglia. Gesù ha chiamato i discepoli, e ancora oggi chiama ciascuno di voi, cari fratelli, per continuare a seminare e trasmettere il suo Regno. Lui conta sulla vostra storia, sulla vostra vita, sulle vostre mani per percorrere la città e condividere la stessa realtà che voi avete vissuto. Oggi, Gesù può contare su di voi? Ognuno di voi risponda.

Grazie per il tempo che mi avete regalato. E ora vorrei darvi la benedizione, perché il Signore possa continuare a fare miracoli attraverso le vostre mani. E, per favore, anch’io ho bisogno di aiuto; per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!


25 settembre, Tallin: Omelia durante la Santa Messa in Piazza della Libertà

Ascoltando, nella prima Lettura, l’arrivo del popolo ebraico – già libero dalla schiavitù d’Egitto – al Monte Sinai (cfr Es 19,1) è impossibile non pensare a voi come popolo; è impossibile non pensare all’intera nazione dell’Estonia e a tutti i Paesi Baltici. Come non ricordarvi in quella “rivoluzione cantata”, o in quella catena di due milioni di persone da qui a Vilnius? Voi conoscete le lotte per la libertà, potete identificarvi con quel popolo. Ci farà bene, quindi, ascoltare quello che Dio dice a Mosè, per capire quello che dice a noi come popolo.

Il popolo che arriva al Sinai è un popolo che ha già visto l’amore del suo Dio manifestato in miracoli e prodigi; è un popolo che decide di stringere un patto d’amore perché Dio lo ha già amato per primo e gli ha manifestato questo amore. Non è obbligato, Dio lo vuole libero. Quando diciamo che siamo cristiani, quando abbracciamo uno stile di vita, lo facciamo senza pressioni, senza che questo sia uno scambio in cui noi facciamo qualcosa se Dio fa qualcosa. Ma, soprattutto, sappiamo che la proposta di Dio non ci toglie nulla, al contrario, porta alla pienezza, potenzia tutte le aspirazioni dell’uomo. Alcuni si considerano liberi quando vivono senza Dio o separati da Lui. Non si accorgono che in questo modo viaggiano attraverso questa vita come orfani, senza una casa dove tornare. «Cessano di essere pellegrini e si trasformano in erranti, che ruotano sempre intorno a sé stessi senza arrivare da nessuna parte» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 170).

Spetta a noi, come al popolo uscito dall’Egitto, ascoltare e cercare. A volte alcuni pensano che la forza di un popolo si misuri oggi da altri parametri. C’è chi parla con un tono più alto, così che parlando sembra più sicuro – senza cedimenti o esitazioni –; c’è chi, alle urla, aggiunge minacce di armi, spiegamento di truppe, strategie... Questo è colui che sembra più “forte”. Questo però non è cercare la volontà di Dio, ma un accumulare per imporsi sulla base dell’avere. Questo atteggiamento nasconde in sé un rifiuto dell’etica e, con essa, di Dio. Perché l’etica ci mette in relazione con un Dio che si aspetta da noi una risposta libera e impegnata verso gli altri e verso il nostro ambiente, una risposta che è al di fuori delle categorie del mercato (cfr ibid., 57). Voi non avete conquistato la vostra libertà per finire schiavi del consumo, dell’individualismo o della sete di potere o di dominio.

Dio conosce i nostri bisogni, quelli che spesso nascondiamo dietro il desiderio di possedere; anche le nostre insicurezze superate grazie al potere. Quella sete, che abita in ogni cuore umano, Gesù, nel Vangelo che abbiamo ascoltato, ci incoraggia a superarla nell’incontro con Lui. È Lui che può saziarci, colmarci con la pienezza della fecondità della sua acqua, della sua purezza, della sua forza travolgente. La fede è anche rendersi conto che Egli è vivo e ci ama; che non ci abbandona e, perciò, è capace di intervenire misteriosamente nella nostra storia; Egli trae il bene dal male con la sua potenza e la sua infinita creatività (cfr ibid., 278).

Nel deserto, il popolo d’Israele cadrà nella tentazione di cercare altri dei, di adorare il vitello d’oro, di confidare nelle proprie forze. Ma Dio lo attrae sempre di nuovo, ed essi ricorderanno ciò che hanno ascoltato e veduto sulla montagna. Come quel popolo, anche noi sappiamo di essere un popolo “eletto, sacerdotale e santo” (cfr Es 19,6; 1 Pt 2,9), è lo Spirito che ci ricorda tutte queste cose (cfr Gv 14,26).

Eletti non significa esclusivi né settari; siamo la piccola porzione che deve far fermentare tutta la massa, che non si nasconde né si separa, che non si considera migliore o più pura. L’aquila mette al riparo i suoi aquilotti, li porta in luoghi scoscesi finché non riescono a cavarsela da soli, ma deve spingerli a uscire da quel posto tranquillo. Scuote la sua nidiata, porta i suoi piccoli nel vuoto perché mettano alla prova le loro ali; e rimane sotto di loro per proteggerli, per impedire che si facciano male. Così è Dio col suo popolo eletto, lo vuole in “uscita”, audace nel suo volo e sempre protetto solo da Lui. Dobbiamo vincere la paura e lasciare gli spazi blindati, perché oggi la maggior parte degli estoni non si riconoscono come credenti.

Uscire come sacerdoti: lo siamo per il Battesimo. Uscire per promuovere la relazione con Dio, per facilitarla, per favorire un incontro d’amore con Colui che sta gridando: «Venite a me» (Mt 11,28). Abbiamo bisogno di crescere in uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoverci e fermarci davanti all’altro, ogni volta che sia necessario. Questa è l’arte dell’accompagnamento, che si attua con il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione che è capace di guarire, di sciogliere nodi e far crescere nella vita cristiana (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 169).

E infine dare testimonianza di essere un popolo santo. Possiamo cadere nella tentazione di pensare che la santità sia solo per alcuni. In realtà, «tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 14). Ma, come l’acqua nel deserto non era un bene personale ma comunitario, come la manna non poteva essere accumulata perché si sarebbe rovinata, così la santità vissuta si espande, scorre, feconda tutto ciò che le sta accanto. Oggi scegliamo di essere santi risanando i margini e le periferie della nostra società, là dove il nostro fratello giace e patisce la sua esclusione. Non lasciamo che sia quello che viene dopo di noi a fare il passo per soccorrerlo, e nemmeno che sia una questione da risolvere da parte delle istituzioni; siamo noi stessi quelli che fissiamo il nostro sguardo su quel fratello e gli tendiamo la mano per rialzarlo, perché in lui c’è l’immagine di Dio, è un fratello redento da Gesù Cristo. Questo significa essere cristiani e la santità vissuta giorno per giorno (cfr ibid., 98).

Voi avete manifestato nella vostra storia l’orgoglio di essere estoni, lo cantate dicendo: «Sono estone, resterò estone, estone è una cosa bella, siamo estoni». Com’è bello sentirsi parte di un popolo! Com’è bello essere indipendenti e liberi! Andiamo al monte santo, a quello di Mosè, a quello di Gesù, e chiediamo a Lui – come dice il motto di questa visita – di risvegliare i nostri cuori, di darci il dono dello Spirito per discernere in ogni momento della storia come essere liberi, come abbracciare il bene e sentirsi eletti, come lasciare che Dio faccia crescere, qui Estonia e nel mondo intero, la sua nazione santa, il suo popolo sacerdotale.

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