Tema 24. Il matrimonio e l'Ordine sacerdotale

Il matrimonio è una sapiente istituzione di Dio per realizzare tra gli uomini il suo disegno d’amore. Nasce dal consenso personale e irrevocabile degli sposi. Le sue proprietà essenziali sono l’unità e l’indissolubilità. I figli sono il dono più grande del matrimonio e contribuiscono al bene dei genitori. Con il sacramento dell’Ordine viene conferita una partecipazione al sacerdozio di Cristo secondo la modalità trasmessa dalla successione apostolica.

Il Padre, nel suo disegno d’amore, ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo per elevarci alla dignità di figli di Dio (cfr. Ef 1,4-5). Inoltre, vuole contare sulla cooperazione degli uomini per portare a compimento il suo disegno di salvezza e i sacramenti del matrimonio e dell’Ordine conferiscono al cristiano una vocazione e missione specifica nella Chiesa[1].


1. Il sacramento del matrimonio

    Il matrimonio non è «effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali: è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, nella quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite. Per i battezzati, poi, il matrimonio riveste la dignità di segno sacramentale della grazia, in quanto rappresenta l’unione di Cristo e della chiesa»[2].

    «Nella sua realtà più profonda, l'amore è essenzialmente dono e l'amore coniugale, mentre conduce gli sposi alla reciproca «conoscenza» che li fa “una carne sola” (cfr. Gen 2,24), non si esaurisce all'interno della coppia, poiché li rende capaci della massima donazione possibile, per la quale diventano cooperatori con Dio per il dono della vita ad una nuova persona umana»[3].

    Questo amore mutuo tra gli sposi «diventa un'immagine dell'amore assoluto e indefettibile con cui Dio ama l'uomo. È cosa buona, molto buona, agli occhi del Creatore. E questo amore che Dio benedice è destinato ad essere fecondo e a realizzarsi nell'opera comune della custodia della creazione: Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gen 1,28)»[4].

    L’amore coniugale è definito dal dono delle persone in quanto reciprocamente sessuate in ordine alla generazione. Nessuno può diventare padre da solo o con un’altra persona dello stesso sesso, perchè la paternità e la maternità sono principio unico di generazione. Nell’amore coniugale l’accettazione del dono ha un dinamismo del tutto proprio e peculiare rispetto ad altri linguaggi dell’amore: solamente nell’amore coniugale che dà identità tra l’offerta del dono e l’accettazione del dono. Infatti l’accettazione del dono della paternità si realizza mediante l’uso del dono della maternità e viceversa. Non c’è una comunione d’amore più intima di quella di due persone che, con parole della Sacra Scrittura, sono una sola carne[5].

    La dinamica della donazione coniugale appena descritta rende evidente come l’amore coniugale non nasca in modo spontaneo ma scaturisca dalla donazione libera di ognuna delle due persone e che sia un amore dovuto, proprio perché frutto di una donazione reciproca. Così insegna san Paolo quando scrive che «la moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie»[6], oppure quando ricorda agli sposi che «devono amare le loro mogli, come il proprio corpo»[7]. In quanto istituzione naturale il matrimonio esprime la dimensione di giustizia inerente all’amore coniugale: «l'istituzione matrimoniale non è una indebita ingerenza della società o dell’autorità, né l'imposizione estrinseca di una forma, ma esigenza interiore del patto d'amore coniugale che pubblicamente si afferma come unico ed esclusivo perché sia vissuta così la piena fedeltà al disegno di Dio Creatore»[8].

    Essendo la comunità matrimoniale il fondamento naturale della famiglia, cellula della società, essa non appartiene esclusivamente alla sfera privata ma è un bene di interesse pubblico. La società protegge il matrimonio per mezzo della sua istituzionalizzazione legale: il matrimonio civile nella società civile e il matrimonio canonico nella Chiesa. Affinché la legalizzazione del matrimonio sia effettiva e realmente utile al bene comune, deve essere conforme alla sua natura, cioè al matrimonio come istituzione naturale e nel caso del matrimonio canonico anche come sacramento.

    In molti paesi è frequente che le persone convivano more uxorio senza alcun vincolo istituzionale. Le ragioni sono varie: «l’influenza delle ideologie che svalutano il matrimonio e la famiglia, l’esperienza del fallimento di altre coppie che essi non vogliono rischiare, il timore verso qualcosa che considerano troppo grande e sacro, le opportunità sociali ed i vantaggi economici che derivano dalla convivenza, una concezione meramente emotiva e romantica dell’amore, la paura di perdere la libertà e l’autonomia, il rifiuto di qualcosa concepito come istituzionale e burocratico»[9]. Se la relazione è stabilita con una sincera volontà coniugale, occorrerà fare rilevare la necessità di legalizzare la loro situazione. Se non c’è tale volontà, bisognerà aiutarli a scoprire la menzogna di tale relazione, perché l’amore coniugale «esige un dono totale e definitivo delle persone tra loro»[10]; e come questa menzogna indebolisce la sincerità e la fedeltà mutue: «che senso può avere una unione in cui le persone non si impegnano l'una nei confronti dell'altra, e manifestano in tal modo una mancanza di fiducia nell'altro, in se stessi o nell'avvenire?»[11].

    Se guardiamo alla creazione alla luce di Cristo, scopriamo che il matrimonio «è il fondamento di «tutti i progetti salvifici di Dio», “l'inizio della storia della salvezza”, che culmina in Cristo»[12]. Il matrimonio delle origini è così rivestito di una dignità nuova: è stato istituito da Dio come segno dell’unione di Cristo con la Chiesa[13], in virtù del quale l’amore coniugale non solo partecipa dell’amore creatore di Dio, ma anche del suo amore salvifico, trasmettendo assieme alla vita umana anche la vita della grazia in Cristo.

    Il peccato originale ha provocato insieme la rottura tra l’uomo e Dio e la rottura della comunione originale tra l’uomo e la donna. A sua volta, l’istituzione del matrimonio si indebolisce con l’introduzione della poligamia e del ripudio e la paternità della carne trasmette il peccato invece della vita dei figli di Dio.

    La Legge antica e la pedagogia divina non criticano la poligamia dei patriarchi né proibiscono il divorzio; ma «vedendo l'Alleanza di Dio con Israele sotto l'immagine di un amore coniugale esclusivo e fedele, (cfr. Os 1-3; Is 54.62, Ger 2-3.31; Ez 16, 62; 23), i profeti hanno preparato la coscienza del popolo eletto ad una intelligenza approfondita dell'unicità e dell'indissolubilità del matrimonio (cfr. Mal 2, 13-17)»[14]. Inoltre, il rinnovo dell’originaria benedizione divina su Abramo, assieme alla promessa di una discendenza innumerevole alla quale darà la terra di Canaan[15], conferisce al matrimonio un ruolo fondamentale nella realizzazione del disegno della salvezza: senza il matrimonio non si compirebbe l’alleanza stretta da Dio con Abramo e la sua discendenza, che alla luce del Nuovo Testamento sono figura di Cristo e della Chiesa[16].

    «Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé, ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (cfr Mc 10, 1-12). La famiglia e il matrimonio sono stati redenti da Cristo (cfr Ef 5,21-32), restaurati a immagine della Santissima Trinità, mistero da cui scaturisce ogni vero amore. L’alleanza sponsale, inaugurata nella creazione e rivelata nella storia della salvezza, riceve la piena rivelazione del suo significato in Cristo e nella sua Chiesa. Da Cristo attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia necessaria per testimoniare l'amore di Dio e vivere la vita di comunione. Il Vangelo della famiglia attraversa la storia del mondo sin dalla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1, 26-27) fino al compimento del mistero dell’Alleanza in Cristo alla fine dei secoli con le nozze dell’Agnello (cfr Ap 19, 9)»[17].


    2. La celebrazione del matrimonio

      Il matrimonio nasce dal consenso personale e irrevocabile degli sposi[18]. «Il consenso matrimoniale è l'atto della volontà con cui l'uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio»[19].

      «La Chiesa normalmente richiede per i suoi fedeli la forma ecclesiastica della celebrazione del Matrimonio»[20]. Per questo, «sono validi soltanto i matrimoni che si contraggono alla presenza dell'Ordinario del luogo o del parroco o del sacerdote oppure diacono delegato da uno di essi che sono assistenti, nonché alla presenza di due testimoni, conformemente, tuttavia, alle norme stabilite» dal Codice di Diritto Canonico[21].

      Questa prassi ha diverse ragioni: il matrimonio sacramentale crea diritti e doveri nella comunità della Chiesa tra gli sposi e in relazione ai figli. Essendo il matrimonio uno stato di vita nella Chiesa, è giusto che ci sia certezza su di esso (da qui l’obbligo di avere dei testimoni) mentre il carattere pubblico del consenso protegge il "Sì" pronunciato una volta e aiuta a restarvi fedeli (cfr. Catechismo, 1631).

      «Le proprietà essenziali del matrimonio sono l'unità e l'indissolubilità, che nel matrimonio cristiano conseguono una peculiare stabilità in ragione del sacramento» (CIC, 1056). Il marito e la moglie «per il patto coniugale non sono più due, ma una sola carne (Mt 19,6). Questa intima unione, come mutuo impegno tra le persone, come quello dei figli, esige piena fedeltà e richiede la sua indissolubile unità»[22].

      «L'unità del Matrimonio confermata dal Signore appare in maniera lampante anche dalla uguale dignità personale sia dell'uomo che della donna, che deve essere riconosciuta nel mutuo e pieno amore. La poligamia è contraria a questa pari dignità e all'amore coniugale che è unico ed esclusivo»[23].

      «Nella sua predicazione Gesù ha insegnato senza equivoci il senso originale dell'unione dell'uomo e della donna, quale il Creatore l'ha voluta all'origine: il permesso, dato da Mosè, di ripudiare la propria moglie, era una concessione motivata dalla durezza del cuore; l'unione matrimoniale dell'uomo e della donna è indissolubile: Dio stesso l'ha conclusa: “Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi” (Mt 19,6) (Catechismo, n. 1614)». In virtù del sacramento, per il quale gli sposi cristiani manifestano e partecipano al mistero dell’unità e del fecondo amore tra Cristo e la Chiesa[24], l’indissolubilità acquista un nuovo significato e si rafforza la stabilità originaria del vincolo coniugale, in modo tale che «il matrimonio rato (cioè, celebrato tra battezzati) e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte»[25].

      «Il divorzio è una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto, liberamente stipulato dagli sposi, di vivere l'uno con l'altro fino alla morte. Il divorzio offende l'Alleanza della salvezza, di cui il Matrimonio sacramentale è segno»[26]. «Può avvenire che uno dei coniugi sia vittima innocente del divorzio pronunciato dalla legge civile; questi allora non contravviene alla norma morale. C'è infatti una differenza notevole tra il coniuge che si è sinceramente sforzato di rimanere fedele al sacramento del Matrimonio e si vede ingiustamente abbandonato, e colui che, per sua grave colpa, distrugge un Matrimonio canonicamente valido»[27].

      «Esistono tuttavia situazioni in cui la coabitazione matrimoniale diventa praticamente impossibile per le più varie ragioni. In tali casi la Chiesa ammette la separazione fisica degli sposi e la fine della coabitazione. I coniugi non cessano di essere marito e moglie davanti a Dio; non sono liberi di contrarre una nuova unione. In questa difficile situazione, la soluzione migliore sarebbe, se possibile, la riconciliazione»[28]. Se dopo la separazione «il divorzio civile rimane l'unico modo possibile di assicurare certi diritti legittimi, quali la cura dei figli o la tutela del patrimonio, può essere tollerato, senza che costituisca una colpa morale»[29].

      Se dopo il divorzio si contrae una nuova unione, per quanto riconosciuta dalla legge civile, «il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico e permanente»[30]. I divorziati che si risposano, per quanto continuino ad appartenere alla Chiesa, non possono essere ammessi all'Eucaristia, perché il loro stato e condizione di vita contraddicono oggettivamente l’unione di amore indissolubile di Cristo con la Chiesa, significata e attualizzata nell'Eucaristia. «L'assoluzione sacramentale, che può essere data «solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò importa, in concreto, che quando l'uomo e la donna per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, "assumano l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi"»[31].

      Queste norme debbono essere applicate nella logica della compassione per le persone fragili, evitando di mettere tante condizioni che svuotano di significato la misericordia divina[32]. Questo vuol dire tenere conto che il penitente «per quanto sia fedele all’intenzione di non peccare più, l’esperienza passata e la coscienza della debolezza presente suscitano il timore di nuove cadute; ma questo non pregiudica l’autenticità dell’intenzione, quando a tale timore si unisce la volontà, aiutata dalla preghiera, di fare tutto il possibile per evitare il peccato»[33]. A seconda delle circostanze concrete nelle quali vive, il penitente può non essere pienamente responsabile dei propri atti. Il confessore dovrà tenerne conto per valutare quello che può fare per evitare il peccato e così avere la certezza morale della sufficiente contrizione del penitente per ricevere l’assoluzione[34].

      In ogni caso, se c’è una nuova caduta, la persona deve accostarsi al sacramento prima di fare la comunione. Difatti, le relazioni sessuali con altri che non sia il coniuge legittimo sono sempre, per il loro oggetto, intrinsecamente cattive. In più, siccome il pentimento è «di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo»[35]: si può fare la Comunione privatamente o là dove non si è conosciuti, evitando così di causare giudizi, confusione, sconcerto o scandalo negli altri fedeli). L’Eucaristia ricevuta non sarà la meta del cammino di conversione, ma il prezioso aiuto per continuare a fare i passi necessari per vivere una situazione che non contrasta più con gli insegnamenti di Cristo sul matrimonio[36].


      3. La paternità responsabile

        «Il matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il dono più eccellente del matrimonio e contribuiscono grandemente al bene dei genitori stessi. Dio che disse: “non è bene che l'uomo sia solo” (Gen 2,18) e “che creò all'inizio l'uomo maschio e femmina” (Mt 19,4), volendo comunicare all'uomo una speciale partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: “crescete e moltiplicatevi” (Gen 1,28). Di conseguenza un amore coniugale vero e ben compreso e tutta la struttura familiare che ne nasce tendono, senza trascurare gli altri fini del matrimonio, a rendere i coniugi disponibili a cooperare coraggiosamente con l'amore del Creatore e del Salvatore che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la sua famiglia»[37].

        Pertanto, tra «i coniugi che in tal modo adempiono la missione loro affidata da Dio, sono da ricordare in modo particolare quelli che, con decisione prudente e di comune accordo, accettano con grande animo anche un più grande numero di figli da educare convenientemente»[38].

        Per quanto possano avere una generosa disposizione verso la paternità, certe volte gli sposi possono essere «ostacolati da alcune condizioni della vita di oggi, e possono trovare circostanze nelle quali non si può aumentare, almeno per un certo tempo, il numero dei figli»[39]. «Se dunque per distanziare le nascite esistono seri motivi, derivanti dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori, la chiesa insegna essere allora lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio nei soli periodi infecondi e così regolare la natalità senza offendere minimamente i principi morali»[40].

        «Secondo il disegno di Dio, il matrimonio è il fondamento della più ampia comunità della famiglia, poiché l'istituto stesso del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione ed educazione della prole, in cui trovano il loro coronamento (cfr. Gaudium et Spes, 50)»[41].

        «Il Creatore del mondo ha stabilito la società coniugale come origine e fondamento della società umana; la famiglia per questo è la cellula prima e vitale della società»[42]. Questa specifica ed esclusiva dimensione pubblica del matrimonio e della famiglia reclama la sua difesa e la sua promozione da parte della società civile.

        Nella Chiesa la famiglia è chiamata Chiesa domestica perché la specifica comunione dei suoi membri è chiamata ad essere «rivelazione e attuazione specifica della comunione ecclesiale»[43]. «I genitori devono essere per i loro figli i primi maestri della fede e assecondare la vocazione propria di ognuno, quella sacra in modo speciale»[44]. «È qui che si esercita in maniera privilegiata il sacerdozio battesimale del padre di famiglia, della madre, dei figli, di tutti i membri della famiglia, “con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e l'operosa carità”. Il focolare è così la prima scuola di vita cristiana e una scuola di umanità più ricca. È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l'amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l'offerta della propria vita»[45].


        4. Il sacramento dell’Ordine sacerdotale

          All’interno del popolo di Israele, al quale ci si riferisce in Esodo 19,6 come “regno di sacerdoti”, la tribù di Levi fu scelta da Dio «per il servizio della Dimora della Testimonianza»[46]; tra i leviti si consacravano i sacerdoti dell’antica alleanza con il rito dell’unzione[47], conferendo loro una funzione in favore degli uomini «nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati»[48]. In quanto elemento della legge mosaica, questo sacerdozio è «introduzione a una speranza migliore»[49], «ombra dei beni futuri», ma oltre a questo «non ha mai il potere di condurre alla perfezione per mezzo di sacrifici - sempre uguali, che si continuano a offrire di anno in anno - coloro che si accostano a Dio»[50].

          Il sacerdozio levitico ha prefigurato in qualche modo nel popolo eletto la piena realizzazione del sacerdozio di Gesù Cristo, non legato né alla genealogia, né ai sacrifici del tempio, né alla Legge, ma soltanto allo stesso Dio[51]. Per questo, fu «proclamato da Dio Sommo Sacerdote al modo di Malchisedec» (Eb 5, 10), il quale «con un'unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati» (Eb 10, 14). Infatti, il Verbo di Dio incarnato, compiendo le profezie messianiche, redime tutti gli uomini con la sua morte e la sua risurrezione, donando la propria vita nella pienezza della sua condizione sacerdotale. Questo sacerdozio, che Gesù stesso presenta in termini di consacrazione e di missione (cfr. Gv 10, 14), ha, quindi, valore universale: «una azione salvifica fuori dell’unica mediazione di Cristo»[52].

          Nell’Ultima Cena Gesù manifesta la volontà di rendere partecipi gli apostoli del suo sacerdozio che ha le caratteristiche di consacrazione e missione: «Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità»[53]. Tale partecipazione si realizza in diversi momenti nel corso del ministero di Cristo. Sono passi successivi che condurranno alla istituzione dell’ordine sacro: quando chiama gli apostoli a costituire il collegio apostolico[54], quando li istruisce e li invia a predicare[55], quando conferisce loro il potere di perdonare i peccati[56], quando affida loro la missione universale[57]; e in modo particolare quando ordina loro di celebrare l’Eucaristia: «fate questo in memoria di me»[58]. Per la missione apostolica essi «vennero confermati pienamente il giorno di Pentecoste»[59].

          Nel corso della loro vita «non solo ebbero vari collaboratori nel ministero, ma perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, affidarono, quasi per testamento, ai loro immediati cooperatori l'ufficio di completare e consolidare l'opera da essi incominciata (...) e in seguito diedero disposizione che dopo la loro morte altri uomini subentrassero al loro posto» E così «i vescovi hanno ricevuto il ministero della comunità per esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi. Presiedono in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa»[60].

          Nel Nuovo Testamento il ministero apostolico si trasmette con l’imposizione delle mani accompagnata da una preghiera[61]. È questa la prassi che si trova nei riti di ordinazione più antichi come quelli raccolti nella Traditio apostolica e negli Statuta Ecclesiae Antiqua. Questo nucleo essenziale, che costituisce il segno sacramentale, è stato arricchito nel corso dei secoli con alcuni riti complementari, che possono differire secondo le diverse tradizioni liturgiche. «Così, nel rito latino, i riti di introduzione - la presentazione e l'elezione dell'ordinando, l'omelia del Vescovo, l'interrogazione dell'ordinando, le litanie dei santi - attestano che la scelta del candidato è stata fatta in conformità alla prassi della Chiesa e preparano l'atto solenne della consacrazione. A questa fanno seguito altri riti che esprimono e completano in maniera simbolica il mistero che si è compiuto: per il Vescovo e il presbitero l'unzione del santo crisma, segno dell'unzione speciale dello Spirito Santo che rende fecondo il loro ministero; la consegna del libro dei Vangeli, dell'anello, della mitra e del pastorale al Vescovo, come segno della sua missione apostolica di annunziare la Parola di Dio, della sua fedeltà alla Chiesa, Sposa di Cristo, del suo compito di Pastore del gregge del Signore; la consegna, al sacerdote, della patena e del calice, l'offerta del popolo santo, che egli è chiamato a presentare a Dio; la consegna del libro dei Vangeli al diacono, che ha ricevuto la missione di annunziare il Vangelo di Cristo»[62].


          5. Natura ed effetti dell’Ordine sacerdotale

            Mediante il sacramento dell’Ordine viene conferita una partecipazione al sacerdozio di Cristo secondo le modalità trasmesse dalla successione apostolica. Il sacerdozio ministeriale si distingue dal sacerdozio comune dei fedeli, che deriva dal battesimo e dalla confermazione; entrambi «sono ordinati l'uno all'altro», tuttavia «differiscono essenzialmente e non solo di grado»[63]. Caratteristica propria e specifica del sacerdozio ministeriale è di essere «una ripresentazione sacramentale di Cristo capo e Pastore»[64], cosa che permette di esercitare l’autorità di Cristo nei compiti pastorali di predicazione e di governo e di agire in persona Christi nell’esercizio del ministero sacramentale.

            La repraesentatio Christi Capitis sussiste sempre nel ministro, la cui anima è stata sigillata dal carattere sacramentale, impresso indelebilmente nell’anima con l’ordinazione. Il carattere è dunque l’effetto principale del sacramento e dal momento che è una realtà permanente il sacramento dell'Ordine non può essere ripetuto, eliminato, o conferito per un tempo limitato. «Un soggetto validamente ordinato può, certo, per gravi motivi, essere dispensato dagli obblighi e dalle funzioni connessi all'ordinazione o gli può essere fatto divieto di esercitarli, ma non può più ridiventare laico in senso stretto»[65].

            L’Ordine, in ciascuno dei suoi gradi, conferisce inoltre «la grazia dello Spirito Santo propria di questo sacramento» che consiste «in una configurazione a Cristo Sacerdote, Maestro e Pastore del quale l'ordinato è costituito ministro»[66]. Questa ministerialità è insieme un dono e un compito, dato che l’Ordine si riceve in vista del servizio a Cristo e ai fedeli, che nella Chiesa costituiscono il suo Corpo Mistico. Più precisamente, per il vescovo il dono ricevuto è «lo spirito di governo che hai dato al tuo amato Figlio Gesù Cristo, e che lui, a sua volta, ha comunicato ai santi apostoli»[67]. Per il presbitero si chiede a Dio il dono dello Spirito «perché sia degno di presentarsi senza rimprovero davanti al tuo altare, di annunciare il vangelo del tuo regno, di realizzare il ministero della tua parola di verità, di offrirti doni e sacrifici spirituali, di rinnovare il tuo popolo con il bagno della rigenerazione; in modo che vada incontro al nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo»[68]. I diaconi, «con la grazia sacramentale, in comunione con il vescovo e il suo presbiterio, servono il Popolo di Dio nel ministero della liturgia, della parola e della carità»[69].


            6. I gradi dell’Ordine sacerdotale

              Il diaconato, il presbiterato e l’episcopato mantengono tra di loro una relazione intrinseca in quanto gradi dell’unica realtà sacramentale dell’Ordine sacro.

              L’episcopato è «la pienezza del sacramento dell’Ordine sacro» chiamato «nella liturgia della Chiesa e nella testimonianza dei santi padri “sacerdozio supremo” o “apice del ministero sacro”»[70]. Ai vescovi viene conferito «il ministero della comunità per esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi. Presiedono in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa»[71]. Sono successori degli apostoli e membri del collegio episcopale, al quale sono immediatamente incorporati in virtù dell’ordinazione, conservando la comunione gerarchica con il Papa, capo del collegio e con gli altri membri. Proprio ad essi spetta la funzione di reggere, così la Chiesa universale come presiedere le Chiese locali, che reggono «come vicari e legati di Cristo», e lo fanno «col consiglio, la persuasione, l'esempio, ma anche con l'autorità e la sacra potestà»[72]. Tra i doveri episcopali «eccelle la predicazione del Vangelo [75]. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell'autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita», e quando «insegnano in comunione col romano Pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità»[73]. Infine, come amministratori della grazia del supremo sacerdozio, moderano con la loro autorità la distribuzione sana e fruttuosa dei sacramenti: «regolano l'amministrazione del battesimo, col quale è concesso partecipare al regale sacerdozio di Cristo. Sono i ministri originari della confermazione, dispensatori degli ordini sacri e moderatori della disciplina penitenziale, e con sollecitudine esortano e istruiscono le loro popolazioni, affinché nella liturgia e specialmente nel santo sacrificio della messa»[74].

              Il presbiterato è stato istituito da Dio affinchè i suoi ministri «avessero la sacra potestà dell'Ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati (6), e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale»[75]. Ai presbiteri è stata affidata la funzione ministeriale «in grado subordinato ai presbiteri, questi sono dunque costituiti nell'Ordine del presbiterato per essere cooperatori dell'Ordine episcopale, per il retto assolvimento della missione apostolica affidata da Cristo»[76]. Essi partecipano «dell’autorità con la quale Cristo stesso forma, santifica e regge il suo Corpo», e per l’Ordine sacramentale ricevuto «sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa»[77]. Essi «costituiscono col loro vescovo un solo presbiterio [109] sebbene destinato a uffici diversi»[78] e disimpegnano la loro missione in contatto diretto con gli uomini. Più concretamente, i presbiteri «come obbligo principale hanno quello di annunciare a tutti il Vangelo di Cristo, per costituire e fare crescere il popolo di Dio, compiendo il mandato del Signore “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”»[79].

              La sua funzione è esercitata soprattutto «nel culto eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al sacrificio del loro capo e nel sacrificio della messa rendono presente e applicano fino alla venuta del Signore (cfr. 1 Cor 11,26), l'unico sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al Padre quale vittima immacolata»[80]. Questo va unito al «ministero della riconciliazione e del conforto», che esercita «a favore dei fedeli penitenti o ammalati». Come veri pastori essi esercitano «secondo la loro parte di autorità, l'ufficio di Cristo, pastore e capo, raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme di fratelli animati da un solo spirito, per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre»[81].

              I diaconi costituiscono il grado inferiore della gerarchia. A loro vengono imposte le mani «non per il sacerdozio, ma per il servizio». Sostenuti dalla grazia sacramentale essi servono il popolo di Dio nella «diaconia» della liturgia, della predicazione e della carità, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio. È compito del diacono «amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l'eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura»[82].


              7. Ministro e soggetto

                Il conferimento dell’Ordine nei suoi tre gradi è riservato esclusivamente al vescovo; nel Nuovo Testamento a conferirlo sono solo gli apostoli e «poiché il sacramento dell'Ordine è il sacramento del ministero apostolico, spetta ai Vescovi in quanto successori degli Apostoli trasmettere “questo dono dello Spirito”, (Lumen gentium, 21), questo “seme apostolico” (Lumen gentium, 20)»[83], custodito lungo i secoli nel ministero ordinato.

                Per la liceità dell’ordinazione episcopale la Chiesa latina richiede un esplicito mandato pontificio[84]; mentre nelle chiese orientali essa è riservata al Romano Pontefice, al Patriarca o al Metropolita, ed è sempre illecita in assenza del mandato legittimo (cfr. CCEO, 745). Nel caso dell’ordinazione presbiterale o diaconale si stabilisce che l’ordinante sia il vescovo del candidato, a meno che lo stesso non abbia rilasciato lettera dimissionaria (cfr. CIC, 1015-1016); se l’ordinazione avviene al di fuori della propria circoscrizione, è necessaria la venia del vescovo diocesano (cfr. CIC, 1017).

                Per la validità dell’ordinazione nei suoi tre gradi è necessario che il candidato sia maschio e battezzato. Gesù Cristo, infatti, elesse come apostoli soltanto uomini, nonostante tra coloro che lo seguivano ci fossero anche donne, che pure in diverse occasioni avevano dimostrato una fedeltà maggiore. Questo agire del Signore è normativo per tutta la vita della Chiesa e non può essere considerato circostanziale, dato che già gli apostoli si sentirono vincolati a questa prassi e imposero le mani solo a uomini, anche quando la Chiesa era diffusa in regioni nelle quali la presenza di donne nel ministero non avrebbe suscitato perplessità. I padri della Chiesa seguirono fedelmente questa norma, consapevoli che si trattasse di una tradizione vincolante, raccolta in modo adeguato nei decreti sinodali. Di conseguenza la Chiesa «non si considera autorizzata ad ammettere le donne all’ordinazione sacerdotale»[85].

                Una ordinazione legittima e pienamente fruttuosa richiede inoltre che il candidato abbia una vera vocazione soprannaturale, confermata dall’invito dell’autorità competente (la “chiamata della gerarchia”). Nella Chiesa latina vige la legge del celibato ecclesiastico per i tre gradi; condizione che «non è, certamente, richiesta dalla natura stessa del sacerdozio»[86], ma che «è particolarmente confacente alla vita sacerdotale», poiché con il loro celibato i chierici partecipano al modo che Cristo ha scelto per realizzare la propria missione, «aderiscono più facilmente a lui con un cuore non diviso si dedicano più liberamente in lui e per lui al servizio di Dio e degli uomini». Con la piena donazione della loro vita alla missione che è stata loro affidata, gli ordinandi «evocano così quell'arcano sposalizio istituito da Dio, (...) per il quale la Chiesa ha come suo unico sposo Cristo (131). Essi inoltre diventano segno vivente di quel mondo futuro, presente già attraverso la fede e la carità, nel quale i figli della risurrezione non si uniscono in matrimonio»[87]. Non sono obbligati al celibato i diaconi permanenti e neppure i presbiteri delle Chiese orientali. Infine, per essere sacerdoti sono richieste determinate disposizioni interiori ed esteriori, l’età e la scienza adeguate, il compimento dei requisiti previ all’ordinazione e l’assenza di impedimenti e irregolarità[88]. Per i candidati all’ordinazione episcopale sono richieste particolari condizioni che ne assicurano l’idoneità[89].


                Bibliografia di Base

                - Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1533-1600, 1601-1666, 2331-2400.

                - San Josemaría, Colloqui, nn. 87-112.

                - San Josemaría, Omelia Il matrimonio, vocazione cristiana, È Gesù che passa, nn. 22-30.

                - San Josemaría, Omelia Sacerdote per l’eternità, Amare la Chiesa, Palabra, Madrid 1986, pp. 63-82.


                [1] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1534.

                [2] San Paolo VI, Humanae Vitae, n. 8.

                [3] San Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, n. 14.

                [4] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1604.

                [5] Gen 2,24.

                [6] 1 Cor 7,4.

                [7] Ef 5,28.

                [8] San Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, n. 11.

                [9] Francesco, Amoris laetitia, n. 40.

                [10] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2391.

                [11] Ivi, n. 2390.

                [12] Ivi, n. 280.

                [13] Cfr. Ef 5,31-32.

                [14] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1611.

                [15] Cfr. Gen 12, 2.7; 13, 16; 22, 17.

                [16] Cfr. Gal 3,26-29.

                [17] Francesco, Amoris laetitia, n. 63.

                [18] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1626.

                [19] CIC, n. 1057 §2.

                [20] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1631.

                [21] CIC, n. 1108 §1.

                [22] «I coniugi sappiano di essere cooperatori dell'amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria, (…), gli sposi cristiani, fidando nella divina Provvidenza e coltivando lo spirito di sacrificio (117), svolgono il loro ruolo procreatore e si assumono generosamente le loro responsabilità umane e cristiane, glorificano il Creatore e tendono alla perfezione cristiana» (Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 50).

                [23] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1645.

                [24] Ef 5, 32.

                [25] CIC, n. 1141.

                [26] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2384.

                [27] Ivi, n. 2386.

                [28] Ivi, n. 1649.

                [29] Ivi, n. 2383.

                [30] Ivi, n. 2384.

                [31] San Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, n. 84. Cfr. Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, 22-II-2007, 29; Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della Comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati, 14-IX-1994; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650.

                [32] Cfr. Francesco, Amoris laetitia, nn. 307-312.

                [33] San Giovanni Paolo II, Lettera al Card. William W. Baum e ai partecipanti al corso annuale sul foro interno organizzato dalla Penitenzeria Apostolica, 22-III-1996; cfr. Francesco, Amoris laetitia, n. 311.

                [34] Cfr. Ivi, nn. 303-305.

                [35] Pontificio Consiglio per i testi legislativi, Sull’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati, 24-VI-2000, n. 2.

                [36] Cfr. Francesco, Amoris laetitia, nn. 307-308.

                [37] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1652.

                [38] Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 50.

                [39] Ivi, n. 51.

                [40] San Paolo VI, Humanae Vitae, n. 16.

                [41] San Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, n. 14. «La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha il diritto di essere protetta dalla società e dallo Stato» (ONU, Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 10-XII-1948, art. 16).

                [42] Cfr. Consiglio Pontificio per la Familia, Famiglia, matrimonio e uniuni di fatto, Città del Vaticano 2000; Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, Città del Vaticano 2003.

                [43] San Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, n. 21.

                [44] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 11.

                [45] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1657.

                [46] Nm 1,50.

                [47] Cfr. Es 29, 1-7.

                [48] Eb 5, 1.

                [49] Eb 7, 19.

                [50] Eb 10, 1.

                [51] Cfr. Eb 6, 17-20 e 7, 1ss.

                [52] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dominus Iesus, n. 14.

                [53] Gv 17, 18-19.

                [54] Cfr. Mc 3, 13-19.

                [55] Cfr. Lc 9, 1-6.

                [56] Cfr. Gv 20, 22-23.

                [57] Cfr. Mt 28, 18-20.

                [58] 1 Cor 11, 24.

                [59] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 19.

                [60] Ibidem, n. 20.

                [61] Cfr. At 6, 6; 1 Tm 4, 14; 5, 22; 2 Tm 1, 6.

                [62] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1574.

                [63] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 10.

                [64] Cfr. San Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, n. 23.

                [65] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1583.

                [66] Ivi, n. 1585.

                [67] Pontificale Romano, Ordinazione episcopale, Preghiera di consacrazione.

                [68] Rito bizantino, Preghiera di ordinazione presbiterale.

                [69] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 29.

                [70] Ivi, n. 21.

                [71] Ivi, n. 20.

                [72] Ivi, n. 27.

                [73] Ivi, n. 25.

                [74] Ivi, n. 26.

                [75] Concilio Vaticano II, Presbyterorum Ordinis, n. 2.

                [76] Ibidem.

                [77] Ibidem.

                [78] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 28.

                [79] Concilio Vaticano II, Presbyterorum Ordinis, n. 4.

                [80] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 28.

                [81] Ibidem.

                [82] Ivi, n. 29.

                [83] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1576.

                [84] Cfr. CIC, n. 1013.

                [85] San Giovanni Paolo II, Ordinatio Sacerdotalis, 22-V-94, n. 2.

                [86] Concilio Vaticano II, Presbyterorum Ordinis, n. 16.

                [87] Ibidem.

                [88] Cfr. CIC, nn. 1029-1042; CCEO, nn. 758-762.

                [89] Cfr. CIC, n. 378.