Molto umani, molto divini (X): Ti seguirò dovunque tu vada

La virtù della fortezza ci permette di seguire Gesù senza dipendere dalle condizioni mutevoli della nostra vita e dell’ambiente in cui viviamo

Stando sulla soglia d’ingresso della casa di Simone, Gesù ha guarito molti malati, oltre ad aver espulso altrettanti demoni. È ormai l’ora di raggiungere l’altra riva del lago, quando uno scriba, forse stupito da tutti questi prodigi, si avvicina e gli dice: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada» (Mt 8, 19). Quali intenzioni pervadevano le profondità del cuore di quell’uomo? Fino a che punto si rendeva conto di ciò che significava seguire il Maestro? Sappiamo soltanto quello che rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8, 20).

Anche se in un primo momento queste possono sembrare parole dure, come per disilludere chiunque, tutto dipende da quello che lo scriba cercava in Cristo. Sicuramente gli apostoli avranno ascoltato risposte simili e, più che un avvertimento o un freno, in esse avranno scoperto un invito. In tal modo si comprende, per esempio, come mai Pietro, Giovanni e Giacomo «lasciarono tutto» quando Gesù li chiamò alla fine di una giornata di lavoro (Lc 5, 11) o che Matteo abbia fatto lo stesso quando il Signore lo andò a cercare mentre incassava le imposte (Lc 5, 28). Gli apostoli si rendono conto che, anche se il non avere «dove posare il capo» può comportare un grande sacrificio, qualunque cosa è poco in confronto a una vita vissuta accanto a Gesù.

Il Signore, dunque, adopera un linguaggio forte, perché non vuole che quest’uomo s’inganni, pensando forse di poter condividere un progetto fantasioso, nel quale tutto andrà sempre col vento in poppa. Infatti, nel cammino accanto a Gesù molte volte le difficoltà - la stanchezza, i difetti propri e quelli altrui, le incomprensioni, i malintesi – pesano più di quel che vorremmo. Ed è allora che la virtù della fortezza, innalzata dalla grazia divina, si rivela decisiva: ci dà le armi perché il nostro desiderio di seguire Gesù «dovunque tu vada» sia più grande di qualunque ostacolo.

Una affettività sempre orientata a Dio

«La felicità del Cielo è per coloro che sanno essere felici sulla terra»[1], era solito ripetere san Josemaría. Nel nostro quotidiano sono molte le cose che ci fanno gioire, ma si presentano anche delle contrarietà che ci mettono alla prova. È logico, in tal senso, che la nostra felicità sulla terra dipenderà molto da come sapremo gestire questi momenti complicati, quei giorni nei quali quasi nulla si svolge come avevamo preventivato. In questi casi è indispensabile la fortezza, che trasforma gli ostacoli in occasioni per riorientare continuamente i nostri desideri più profondi verso la direzione corretta: verso Dio. La fortezza fa sì che la nostra affettività si lasci guidare più da Dio che dalle circostanze personali o esterne, che possono sempre cambiare.

Vi sono cose che non sono necessarie per essere felici, che a volte forse ci si presentano come indispensabili. Questo può succedere con certe comodità che oggi sono considerate indispensabili, ma anche con altre necessità che possiamo aver creato noi, quasi senza rendercene conto. A parte che dobbiamo prendere coscienza di queste dipendenze, vogliamo essere sufficientemente liberi in modo che le circostanze esterne non prendano le decisioni al posto nostro: che un momento problematico non ci rubi il sorriso, che la stanchezza non ci vinca troppo rapidamente, essere sempre capaci di rinunciare a un piacere personale a favore di un’altra persona. La fortezza ci rende meno dipendenti da tutto ciò che non è l’amore di Dio, in modo da essere contenti fra ogni tipo di persone, in qualsiasi posto, a qualsiasi attività ci dedichiamo.

Così quando le folle, entusiaste dei suoi miracoli, volevano proclamarlo re, Gesù «non si lasciò ingannare dal trionfalismo: era libero. Come nel deserto, quando respinge le tentazioni di Satana perché era libero, e la sua libertà consisteva nel seguire la volontà del Padre [...]. Pensiamo oggi alla nostra libertà [...]. Sono libero? O, al contrario, sono schiavo delle mie passioni, delle mie ambizioni, delle ricchezze, della moda?»[2]. San Paolo ci trasmette la sua esperienza: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione. So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in Colui che mi dà la forza» (Fil 4, 11-13). Per lui niente è un ostacolo nel suo cammino verso ciò che veramente egli vuole: amare Dio con tutto il suo cuore.

Basta guardare il mondo in modo realista per riconoscere quanto la fortezza sia necessaria. Notiamo che le circostanze, positive o avverse, esercitano su di noi un'influenza. Ci rendiamo conto della necessità di accettare certi periodi difficili senza abbatterci, senza perdere la serenità. Inoltre sappiamo per esperienza personale che le cose importanti richiedono impegno e pazienza: dal proseguire un certo genere di studi o vincere un difetto del proprio carattere, fino a coltivare relazioni profonde con altre persone o crescere nell’amicizia con Dio. Tuttavia, malgrado il buon senso ce lo dimostri chiaramente, non accade di rado che a un certo punto del ragionamento il cammino si distorca e la nostra idea di fortezza si restringa: come se fosse soltanto uno sforzo faticoso per andare contropelo.

No, la fortezza non consiste in un grigio esercizio della volontà nel superare se stessi, nel non lamentarsi, nel rifiutare o nel resistere a tutto ciò che non vogliamo o non comprendiamo. Considerarla in tal modo finisce con lo stancare chiunque. Essere forti consiste, piuttosto, nell’irrobustire le nostre convinzioni, nel rinnovare sempre l’amore che ci muove, nel far brillare in noi con maggior forza i beni più autentici. Allora sceglieremo con una facilità sempre maggiore, e anche con piacere, quello che veramente vogliamo, quella «parte migliore» della quale parla Gesù (cfr. Lc 10, 42).

Esaminiamolo con un esempio: chi non ha sufficiente fortezza probabilmente non sarà capace di evitare un commento sgarbato o di sorridere quando è stanco. In questo tipo di situazioni la fatica è il motivo che pesa di più nelle sue reazioni o nelle sue decisioni, e gli fa perdere di vista altri motivi per i quali forse varrebbe la pena impegnarsi. Invece chi ha fatto crescere in sé la fortezza, non solo riesce a superare la stanchezza, ma lo fa perché si rende conto del bene che questo procura sia a lui che agli altri, e lì scopre anche una via per amare Dio. Solo in questo modo azioni come privarsi di un piccolo piacere, alzarsi a ora fissa, evitare una lamentela o fare un favore che spontaneamente non faremmo, si trasformano in un modo di educarci nella percezione di un bene più grande ma forse meno evidente, almeno all’inizio.

Questo processo, del quale potremmo notare solo la sfida che significa superare se stessi, finisce in realtà col renderci più liberi in quanto la nostra gioia e la nostra pace dipenderà più da ciò che veramente vogliamo, e meno dalle piccole tirannie momentanee, siano esse esterne o interne. Nella lotta per migliorare in fortezza si tratta proprio di esplorare questi angoli morti che ci impediscono di vedere alcuni aspetti del bene semplicemente perché comportano uno sforzo. Chi impara a vivere con fortezza potrà perseverare nel bene anche quando le buone decisioni non sono le più attraenti. Essere forti è l’atteggiamento proprio di chi intuisce il valore reale delle cose.

Muoversi con scioltezza nella realtà 

Quando sentiamo Gesù che dice allo scriba che «non ha dove posare il capo», potremmo pensare anche che vuole metterlo alla prova: «seguirmi non è cosa facile; sei sicuro di volerlo fare?». Comunque troviamo altri passi del Vangelo nei quali il Signore si esprime in maniera simile e non lo fa come avvertimento – lo abbiamo visto con la chiamata di alcuni apostoli –, ma come invito: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23); «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione» (Mt 7, 13). In nessun caso si tratta di chiamate a una sofferenza senza senso, ma allo sviluppo di una grande libertà: far crescere in noi, un po’ per volta, una disposizione del cuore che sia capace di amare fino all’estremo, come egli stesso ha fatto.

«Quel che occorre per raggiungere la felicità non è una vita comoda, ma un cuore innamorato»[3]. Il cammino del cristiano è esigente perché richiede un amore sempre più profondo; e, come dice quella vecchia canzone, «un cuore che non vuole subire dolori, passerà la vita intera senza un amore»[4]. La vita di Gesù ci mostra che rapporto dobbiamo avere con l’avversità o con il dolore. La sua fortezza non è quella di chi costruisce muri attorno a sé, né quella di chi si copre con un’armatura per evitare le ferite, o perché la realtà non lo danneggi. A forza di muri e di armature la resistenza non diventerà mai veramente parte della nostra personalità; tali risorse impediscono più che altro il contatto, una relazione con la realtà. La loro rigidità rende impossibile muoversi con scioltezza.

La fortezza di Gesù, invece, dialoga costantemente con tutto ciò che lo circonda. Gesù non accetta il dolore solamente perché appare arduo oppure per dimostrare qualcosa a se stesso o a noi. In realtà semplicemente lo accetta quando è necessario, senza permettere che lo disarmi. Vede nelle difficoltà un significato che dà motivazioni e profondità a ciò che sta vivendo, invece di considerarlo tutto un assurdo. E questo è amare il mondo appassionatamente nel suo significato più completo. Amare il mondo significa avere la capacità di coltivare con esso delle relazioni in tutta la sua ricchezza, anche con il valore nascosto di ciò che è imperfetto, nelle situazioni della vita, in noi stessi, negli altri. Se cerchiamo la fortezza di Cristo saremo persone più sensibili e profonde, pienamente inserite nella realtà, più capaci di incontrare Dio dappertutto. Insomma, persone più contemplative.

Pazienza per arrivare sino alla fine 

«Ci vantiamo saldi nella speranza della gloria di Dio – scrive san Paolo -. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 2-5). Ogni sacrificio liberamente accettato, ogni contrarietà accolta senza ribellarsi, ogni vittoria ottenuta per amore, conferma in noi la convinzione che la nostra felicità sta in Dio più che in ogni altra realtà. La lotta quotidiana diventa, allora, una conquista progressiva del vero bene, che ci concede un po’ della gloria futura alla quale aspiriamo: la lotta diventa in tal modo un cammino di speranza.

Cercare abitualmente il bene autentico e nascosto nelle nostre decisioni ci concede l’audacia di non accontentarci di ciò che è bell’e pronto o dell’effimero. E questo genera pazienza: cominciamo a sperare sempre più nell’amore che non delude e che dà un senso ai nostri sforzi. Per questo chi è forte non dispera, non perde la serenità in caso di un insuccesso o quando i frutti del lavoro tardano a mostrarsi. La pazienza non è né semplice ottimismo né rassegnazione: è l’atteggiamento dell’uomo libero, che ama non solo per certi periodi, ma che lotta con gli occhi sempre rivolti al fine che si propone. La profonda convinzione di non volersi accontentare di meno che della felicità del cielo può sostenere la necessaria lotta quotidiana che permette di seguire Gesù «dovunque egli vada». Questo è la fortezza. Un cuore forte, che non perde di vista il fine, può «lottare, per Amore, fino all’ultimo istante»[5].


[1] San Josemaría, Forgia, n. 1005.

[2] Papa Francesco, Omelia, 13-IV-2018.

[3] San Josemaría, Solco, n. 795.

[4] «A los árboles altos», canzone tradizionale.

[5] San Josemaría, «Tiempo de reparar», n. 4, in En diálogo con el Señor, edición histórico-crítica.