Il Centro di Cure Palliative “Insieme nella Cura”

Sfidando la pandemia, il 16 dicembre 2020 il Centro di Cure Palliative “Insieme nella Cura” ha iniziato a prendersi cura delle persone malate e alle loro famiglie, in Hospice e in assistenza domiciliare.

“In questi primi mesi – racconta Simona – ognuno di noi si è trovato catapultato in una dimensione nuova: nuova equipe, nuova struttura, nuova organizzazione. Lavorare fianco a fianco, conoscersi meglio ogni giorno e scoprire che ognuno di noi, oltre ad avere molto da imparare, ha anche moltissimo da dare: credo che la forza del nostro gruppo risieda in questo. Abbiamo iniziato non sapendo davvero che cosa ci aspettasse, soprattutto in termini di emozioni. L’assistenza di una persona nell’ultimo tratto della propria vita è molto complesso; non riguarda mai solo lui o lei, ma coinvolge proprio tutto, a partire da sé e dalla propria famiglia. Posso dire che le cure palliative sono davvero l’essenza dell’assistenza, non solo dal punto di vista infermieristico: ognuno di noi è coinvolto completamente con i nostri ospiti e le loro famiglie”.Un senza fissa dimora che apre il proprio cuore per raccontarsi per l’ultima volta, che con ogni probabilità è anche la prima; una donna che torna a parlare con la famiglia, il dolore per le persone che se ne vanno e la consapevolezza che fare il proprio lavoro, mettendoci tutti se stessi, cambia il mondo e cambia per sempre le vite di chi dona assistenza con professionalità e dedizione ai pazienti dell’Hospice “Insieme nella cura” e alle loro famiglie, contribuendo a combattere preconcetti e luoghi comuni.

OGNUNO DEI PROFESSIONISTI COINVOLTI HA MESSO IN GIOCO TANTE ENERGIE ANCHE CON LA CONSAPEVOLEZZA CHE FOSSE ANCOR PIÙ URGENTE E NECESSARIO ADOPERARSI AFFINCHÉ NESSUNO SI POTESSE SENTIRE SOLo.

Un avvio preparato con tanto lavoro e anche con un forte impegno per creare un team coeso e in sintonia. Ognuno dei professionisti coinvolti, dalla progettazione del Centro all’organizzazione, dall’accoglienza all’assistenza quotidiana verso gli ospiti e le proprie famiglie, ha messo in gioco tante energie anche con la consapevolezza che, in un momento in cui la lotta al Covid-19 sta creando solitudine e distanza, era ancor più urgente e necessario adoperarsi affinché ognuno si potesse sentire accompagnato in un momento di particolare fragilità e bisogno e nessuno potesse soffrire la solitudine. Volti, storie, emozioni, raccontate in prima persona, come in un reportage dalla frontiera più avanzata dell’assistenza e del senso del dono di sé. È la storia di una esperienza – di vera terza missione dell’Università Campus Bio-Medico di Roma – e di un cambiamento, dentro e fuori, vissuto dai protagonisti.

“In questi primi mesi – racconta Simona – ognuno di noi si è trovato catapultato in una dimensione nuova, nuova equipe, nuova struttura, nuova organizzazione. Lavorare fianco a fianco, conoscersi ogni giorno e scoprire che ognuno di noi, oltre ad avere molto da imparare, ha anche moltissimo da dare e credo che la forza del nostro gruppo risieda in questo. Abbiamo iniziato non sapendo davvero cosa ci aspettasse, soprattutto in termini di emozioni. L’assistenza di una persona nell’ultimo tratto della propria vita è molto complesso; non riguarda mai sono lui o lei, ma coinvolge proprio tutto, di sé e della propria famiglia. Posso dire che le cure palliative sono davvero l’essenza dell’assistenza, non solo dal punto di vista infermieristico: ognuno di noi è coinvolto completamente con i nostri ospiti e le loro famiglie”.

“Da quando sono state aperte le porte dell’Hospice, ci siamo trovati davanti molte persone, alcune per pochissimi giorni, altre per periodi più lunghi. Chi non conosce le cure palliative può facilmente cadere nella retorica che vede nell’Hospice un luogo di morte, eppure – raccontano all’unisono i protagonisti di “Insieme nella cura” – non abbiamo mai avuto tanta vita con noi. Spesso gli ospiti e le loro famiglie ci hanno ringraziati per aver restituito loro quella dignità che prima avevano perso. Dare valore ai giorni, alla vita anche quando sta finendo, è l’unica cosa che conta davvero ed è l’impegno che prendiamo con loro giorno dopo giorno”.

“Giorni fa – ricordano – abbiamo accolto una signora che sembrava sul punto di spegnersi da un momento all’altro. Ci siamo trovati spiazzati, entravamo nella sua stanza in punta di piedi. Non parlava, non apriva neppure gli occhi, aveva la bocca piena di lesioni e respirava appena. Poi, piano piano, ha iniziato a rispondere a domande semplici; la nostra premura era che non avesse dolore; ha iniziato a farci capire che aveva bisogno di cambiare posizione, ha aperto gli occhi, ha iniziato a sussurrare poche parole, piccole frasi. Oggi siamo entrati a salutarla, si è svegliata, ha aperto gli occhi e ci ha chiesto di tirarla più su, di aggiustarle il cuscino e stenderle le gambe e di pulirle la bocca. Ora le sue labbra sono rosa, i denti puliti, le lesioni che aveva all’inizio non ci sono quasi più. Durante la mattinata suo nipote ci ha chiesto se la sorella potesse farle visita. È stato un momento davvero incredibile”.

LA VITA DI OGNUNO DI NOI È PREZIOSA FINO ALL’ULTIMO BATTITO DEL CUORE E, FINO A QUEL MOMENTO, DOBBIAMO FARE QUALUNQUE COSA È IN NOSTRO POTERE AFFINCHÉ QUANTI SI AFFIDANO A NOI, SI SENTANO RISPETTATI.

“Adesso, la gravità della condizione della nostra paziente non è cambiata – riprende Simona – ma quanta dignità abbiamo restituito alla sua vita, con il “solo” prenderci cura di lei? La vita di ognuno di noi è preziosa fino alla fine, fino all’ultimo battito del cuore, e fino a quel momento, dobbiamo fare qualunque cosa è in nostro potere affinché quanti si affidano a noi, si sentano rispettati e venga rispettato e protetto il diritto alla cura, all’accoglienza, alla dignità, interpretando così in pieno quello che diceva Cicely Saunders, vera pioniera delle cure palliative: non aggiungere giorni alla vita, ma dare più vita ai giorni”.

Marta e Alessia lavorano nell’ufficio accanto alla porta d’ingresso. La porta di un Centro Cure Palliative è simbolo di passaggio, di cambiamento e di accoglienza. Stare lì ti permette di essere la prima persona che accoglie gli ospiti, i familiari, e accompagnarli durante i primi passi del loro percorso. “Un ruolo complesso ma bello in cui cerchiamo di riuscire a dare immediatamente il senso di casa, e un sorriso a chiunque arrivi. Essere alla porta ci permette di poter osservare ogni singolo cambiamento dei familiari che vengono a trovare i loro cari. Sui loro volti si possono leggere un caleidoscopio d’emozioni: la gioia di poter finalmente rivedere il proprio caro dopo 10, 15, 20 giorni o mesi di lontananza, ma anche la paura di confrontarsi con i cambiamenti portarti dalla malattia. In altri si può intravedere una piccola traccia di distensione e serenità, dopo aver visto la nostra struttura, e dopo essersi confrontati con medici e operatori e sentito il proprio caro. Altre volte, vedendo i volti dei familiari, ti accorgi del dolore, dello sconforto e della paura della perdita, lo riesci a leggere nitidamente nonostante le mascherina, attraverso quegli occhi lucidi, e in quei momenti vorresti poter abbracciare tutti i familiari, sostenerli nel loro dolore.

Essere alla porta significa essere pronti ad accogliere familiari impazienti in cerca di un porto sicuro in cui approdare, in cerca di risposte. Alcune volte anche in cerca di qualcuno che li prenda per mano e li traghetti nella accettazione della malattia. Essere alla porta è anche semplicemente un caffè, un sorriso, un cioccolatino e un “Benvenuto”. Gesti piccoli che, soprattutto in una situazione di paura, smarrimento, di negazione, di conflitto interiore, cambiano la giornata, hanno il potere di cambiare il senso di una giornata, di “aggiustare” una relazione familiare, di regalare pace”.

“La prima volta che sono entrata nell’Hospice per lavorare, mi sono sentita piccola, indifesa e con mille cose da imparare – racconta Martina –. Mi sono chiesta se fossi all’altezza, se ce la potessi fare, se nel mio piccolo sarei riuscita a rendere migliori le loro vite, per quel poco che ne rimaneva. Se sarei riuscita a star loro accanto, se sarei stata in grado di strappare loro anche solo un sorriso. Le cure palliative ti fanno riscoprire quanto bello e importante sia il nostro lavoro, quanto il nostro contributo, il toccare con mano le loro vite, entrarci in punta di piedi, scoprire le loro fragilità, capire cosa sia la sofferenza, ci faccia riscoprire noi stessi più forti; ci fa capire quanto il nostro lavoro, il nostro esserci come professionisti e come persone, sia fondamentale per i nostri pazienti e le loro famiglie. In questi mesi l’Hospice mi ha resa più consapevole di quanto sia importante dare dignità alla persona, fino alla fine. Di quanto sia bello ridere e scherzare con i pazienti e le loro famiglie portando dentro di te ricordi unici. Non dimenticherò mai la prima volta in cui mi sono confrontata con quel momento che vorremmo non arrivasse mai: il mio primo paziente che ci ha lasciato, le urla, lo strazio; tremavo, mi sentivo piccola, persa e avevo paura.

IN QUESTI MESI L’HOSPICE MI HA RESA PIÙ CONSAPEVOLE DI QUANTO SIA IMPORTANTE DARE DIGNITÀ ALLA PERSONA, FINO ALLA FINE.

Notti insonni, a pensare alla morte di uno dei miei pazienti più cari, un “guerriero”, come pochi. Giorni a metabolizzare, ripercorrendo il tutto. Degli ultimi momenti di vita del nostro “guerriero” non potrò mai dimenticare le urla della moglie e la domanda che mi pose: “Come fai a fare questo lavoro?”. Da lì mille interrogativi, la paura di non essere all’altezza, di non aver dato il massimo. I giorni successivi sono stati la conferma che in realtà avevo dato tutto ciò che potevo, il grazie della moglie mi ha riempito il cuore a lungo, mi ha fatta sentire speciale, mi ha fatto capire qual è il bello del nostro lavoro. Sapete anche una cosa? È stato bello piangere, è stato bello riscoprirsi fragili e per niente invincibili. È stato bello sapere di avere “una famiglia” accanto che è la stessa equipe con cui lavori e condividi tutto. È stato bello scoprire che, grazie alle cure palliative, grazie all’Hospice “Insieme nella cura”, ho messo a “nudo” le mie emozioni, ho capito quanto io dia ai pazienti, alle loro famiglie e quanto loro diano ogni giorno a me. Ognuno di loro mi insegna qualcosa a mi lascia un segno di sé.”

Per Marta, l’Hospice porta il nome e il volto di Roberto. “Roberto non c’è più, ma la stanza numero quattro sarà per sempre la sua stanza: la stanza di Roberto. Roberto era scontroso, schivo, in lotta perenne con sé stesso e con il mondo, incastrato nelle bugie che raccontava a tutti e a sé stesso per primo. Un uomo profondamente solo. Pochissimi affetti, senza lavoro e senza fissa dimora. Nella sua permanenza in Hospice, mai nessuno è venuto a trovarlo e in quei suoi ultimi mesi siamo stati noi la sua casa, la sua famiglia e i suoi amici. Ho capito che stavamo veramente facendo la differenza quando un sabato mattina richiamò la nostra attenzione col campanello accanto al letto: entrata in stanza mi resi conto che non aveva nulla da chiedermi, voleva semplicemente parlare. Mi sedetti sul letto vicino a lui e mi raccontò del suo vecchio lavoro, della sua dipendenza dall’alcool, del suo amore per i pastori tedeschi, delle tre donne che erano state i suoi grandi amori ma non aveva mai sposato.

Quasi non ci potevo credere. Era entrato che non aveva piacere neanche di scambiare qualche parola di circostanza e, dopo qualche settimana, mi ha aperto le porte dei suoi pensieri, dei suoi ricordi, dei suoi segreti. Mi sono sentita grata, fortunata e felice del lavoro che tutti insieme avevamo fatto nei suoi confronti: Roberto si fidava di noi. Certo, le giornate “no” sono continuate e naturalmente lui, da scontroso qual era, non è diventato la persona più socievole del mondo. La mano che gli avevamo teso, però, lui finalmente l’aveva stretta. Se n’è andato un lunedì pomeriggio, stringendo ancora quella stessa mano.”

“Quando Roberto, all’improvviso, se n’è andato siamo rimasti tutti con un vuoto particolare. Non aveva parenti a Roma, solo un amico. Siamo stati a pregare per lui accanto al suo corpo – ricorda Marta – e poi, pensando che nessuno avrebbe organizzato il suo funerale, abbiamo chiesto al cappellano di celebrare la Santa Messa per lui in Hospice. L’abbiamo preparata con cura e con emozione: Roberto, gli altri, i familiari, il nostro lavoro… tutto era quell’altare un po’ improvvisato. E sicuramente il Cielo e la terra in quel momento si sono uniti in modo speciale. Abbiamo sentito la carezza rivolta a chi ogni giorno cerca di santificare la vita con il proprio lavoro e mettendo sé stesso in ogni gesto, donando un po’ di sé”.

POSSO RASSICURAVI DICENDOVI CHE IL SENTIMENTO CHE QUI SI RESPIRA È L’AMORE!

Maria Rosaria riassume la propria esperienza in Hospice cambiando un po’ il titolo di una canzone di Adriano Celentano. Per lei “L’emozione Ha voce” ed è la voce degli ospiti, dei loro familiari, delle colleghe e dei colleghi, tutti uniti in uno straordinario inno alla vita. “Sono due mesi e pochi giorni che vivo questa esperienza come operatrice socio sanitaria e sono tante le persone che, passando da noi, mi hanno raccontato la loro storia e mi hanno lasciato, ognuna a proprio modo, un ricordo, un sorriso, una battuta, un profumo. Tanti pensano che l’Hospice (anche a me è successo) sia un luogo in cui il sentimento predominante sia la tristezza. E invece no, posso rassicuravi dicendovi che il sentimento che qui si respira è L’AMORE! L’amore che noi mettiamo nel nostro lavoro, l’amore che quel figlio dimostra a sua madre cullandola come lei faceva quando lui era in fasce; l’amore di una madre che rassicura sua figlia prima che lasci questa esistenza; l’amore che spinge a ricongiungersi davanti al letto del proprio padre che sta per salutare la sua famiglia per l’ultima volta; l’amore di chi dà il massimo nel prendersi cura di chi ama, l’amore di chi ha perso qualcuno ma torna a salutarci con un sorriso enorme sul viso.

Quando sono al lavoro, tra me e me, canticchio All you need is Love, (Tutto ciò di cui hai bisogno è l’amore) forse anche perché è la mia canzone preferita, forse perché lo respiro, forse perché è l’amore che ci salva, è vita. Ci sono dei versi di un brano di Roberto Vecchioni che potrebbero riassumere quello che vedo e provo e fa cosi: “… e la vita è così vera che sembra impossibile doverla lasciare, e la vita è così grande che quando sarai sul punto di morire pianterai un ulivo convinto ancora di vederlo fiorire”. Qui in Hospice abbiamo il compito e l’onore di “curare” la persona, non più la malattia, ma ogni volta che trascorro del tempo con una persona che sta per morire, trovo una persona che… vive!”