Fare di ogni Centro una famiglia (II)

Le famiglie cristiane sono luoghi nei quali tutti vivono e fanno di tutto per gli altri. In questo articolo analizziamo alcune derive che possono fare addormentare questa logica, e proponiamo delle linee operative per risvegliarla.

In una delle sue ultime lettere ai suoi figli nell’Opus Dei, san Josemaría rifletteva sulla «logica nuova» di una famiglia di Dio sulla terra. Già sin dai giorni di attesa a Nazaret, il Signore aveva introdotto Maria e Giuseppe sul modo di pensare e di vivere di quel bambino che si sarebbe annichilito e dato completamente, perché non sarebbe venuto per essere servito ma a servire[1]. È la stessa logica che Dio vuole per ogni casa cristiana.

«Guardate qual è l’ambiente nel quale Cristo è nato. Tutto parla di dedizione incondizionata: Giuseppe — una storia di duri eventi, combinati con la gioia di essere il custode di Gesù — mette in gioco il suo onore, la serena continuità del suo lavoro, la tranquillità del futuro; tutta la sua esistenza è una disponibilità pronta a ciò che Dio chiede. Maria ci si manifesta come la Serva del Signore (Lc 1, 38) che, con il suo fiat, trasforma la sua intera esistenza in una sottomissione al disegno divino della salvezza. E Gesù? Basterebbe dire che il nostro Dio ci si mostra come un bambino; il Creatore di tutte le cose si presenta a noi nelle fasce di una piccola creatura, in modo che non possiamo dubitare che è vero Dio e vero Uomo (...). Bisogno impregnarsi di questa logica nuova, che Dio ha inaugurato scendendo sulla terra. A Betlemme nessuno si riserva niente. Là non si sente parlare del mio onore, né del mio tempo, né del mio lavoro, né delle mie idee, né dei miei gusti, né del mio denaro. Là tutto si mette al servizio del grandioso gioco di Dio con l’umanità, che è la Redenzione»[2].

La vita di famiglia si rinnova e si moltiplica in accordo con questo «grandioso gioco» del servizio, inteso non come servilismo, né come un freddo assommare di prestazioni, di servizi... ma come una disposizione permanente a vivere per gli altri, come strumenti dell’attenzione quotidiana di Dio. Questo modo di vivere, che san Josemaría certe volte chiamava «il sano pregiudizio psicologico di pensare abitualmente agli altri»[3], deve essere il normale tenore dei centri dell’Opera. E, grazie a Dio, è proprio questo che, in tanti modi, viene percepito da tante persone che li frequentano: la disposizione che porta a rendere gradevole la vita degli altri, a dedicare loro tempo e ascolto anche se magari abbiamo da fare cose urgenti, ad aiutarli a risolvere un problema, a chiedere perdono quando è necessario, ad andare avanti con un sorriso, a compiere un incarico di un’altro che è stanco o arriva tardi... e tante altre occasioni che la convivenza ci presenta quotidianamente.

Tuttavia, come accade in ogni famiglia, la vita di ogni giorno qualche volta produce un certo effetto di erosione; e, col passare del tempo, possono radicarsi altre dinamiche in casa o nel nostro carattere. Senza voler essere esaustivi, possiamo riassumerle in quattro derive, nelle quali possono apparire impostazioni eccessivamente centrate al funzionamento della casa, a danno delle persone che vi abitano, oppure quello che potremmo chiamare «equivoci relazionali»: conflitti che nascono da posizioni non comprese della convivenza. Ovviamente, quanto viene descritto di seguito non sono situazioni che si danno, per così dire, in maniera chimicamente pura; son piuttosto tendenze che possono intervenire a poco a poco, magari mescolate tra di loro, e che mostrano come la debolezza umana tende a fondersi con ciò che è più importante e desiderato. Una breve riflessione sull’una e l’altra ci permetterà di identificare «le volpi, le volpi piccoline che devastano le vigne» (Ct 2, 15). Così, per contrasto, resterà ben evidente la «logica» di Dio riguardo i focolari, e concretamente i centri dell’Opera.

Efficace, ma freddo

Le prime due derive che possono confondere la vera logica del servizio si trovano nell’ambito della funzionalità. Se pensiamo ai due termini di cui si serviva frequentemente san Josemaría per caratterizzare l’Opera —«famiglia, e insieme milizia»[4]—, il rischio allora sarebbe quello di un certo scompenso, dato che la «milizia» tenderebbe a fare eclissare la famiglia, dando luogo a focolari efficienti, ma con poco calore, o forse con tensioni e ferite più o meno nascoste.

Una prima deriva in questo senso è quella che potremmo dire logica della sinergia. Questa logica è in parte legata allo sviluppo della società negli ultimi decenni, che ha portato con sé, come rovescio di tanti servizi e possibilità, una infinità di compiti e lotte da affrontare: fatture, gestioni amministrative, messaggi... Il risultato è che facilmente possiamo passare le ore correndo appresso agli avvenimenti e alle gestioni. Come succede in una famiglia qualsiasi nella quale, a furia di essere vincolati al lavoro, alla casa, ai figli, e a tutto quello che si deve fare per loro, marito e moglie possono trovarsi guastata l’amicizia matrimoniale (la loro intimità, l’affetto reciproco...), così anche in un centro, con maggiori motivazioni quando in esso fanno capo diverse attività apostoliche, potrebbe succedere che gli uni e gli altri finiscano con l’avere tra di loro un rapporto che si avvicina maggiormente alla funzionalità, quasi fosse ridotto alle «cose delle quali bisogna occuparsi»[5].

A questo punto, il centro tenderebbe a funzionare con sinergia (syn – ergon, unione di azioni), ma con una significativa mancanza di simpatia (synpathos, unione di sentimento). Ognuno svolgerebbe i suoi incarichi, i suoi compiti, il suo piano di vita; la casa funzionerebbe come un meccanismo di precisione —ognuno starebbe al suo posto, ogni persona nel suo lavoro... —, ma verrebbe meno la capacità di simpatizzare, di sentire con gli altri: stare bene con gli altri, soffrire con loro. San Josemaría ha messo in guardia contro questo rischio con parole forti: « Il giorno nel quale dovessimo vivere come estranei o indifferenti, avremo ucciso l’Opus Dei»[6]. Inoltre, come succede a un semplice livello umano in qualunque organizzazione, la mancanza di simpatia tra gli uni e gli altri finirebbe col pregiudicare o bloccare anche la sinergia.

Una seconda deriva potremmo chiamarla logica dell'ordine. Anche qui c’è analogia con qualsiasi casa, nella quale l’uno e l’altro dei coniugi dia una importanza magari eccessiva al fatto che le cose siano «come devono essere»: l’orario, l’ordine materiale, gli incarichi dell’uno o dell’altro... Ovviamente, ogni casa ha bisogno di certe regole per non trovarsi nel caos, ma a volte possono coltivarsi aspettative eccessive su una casa ideale, un modo di fare le cose che si pensano le migliori e da seguirsi a ogni costo, anche a costo della pace familiare. E, tuttavia, l’esperienza di tante famiglie dimostra come, quando c’è un eccesso di regole, e non si sta attenti nella cura dei rapporti tra genitori e figli, si crea frustrazione, quando non ribellione, nei figli. A questo, tra l’altro, faceva riferimento san Paolo quando scriveva: «Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino» (Col 3, 21).

Questi modi di vedere e di fare potrebbero risultare non meno problematici nel caso di un centro. Da un lato, perché quelli che vi convivono sono adulti, ognuno con la propria libertà e responsabilità; dall’altro, perché il centro, essendo una iniziativa apostolica chiamata a «funzionare», è una casa aperta a tutti, è anche focolare di chi vi abita, ed è necessario che questi lo possano sentire come tale, e non come una mera continuazione della loro vita professionale. Rispetto a un convenzionale focolare domestico, un centro dell’Opera ha una peculiarità nel fatto che in esso il focolare e il lavoro coesistono in permanenza; e anche nel fatto che quelli che sono impegnati in compiti apostolici stanno lì perché ne hanno voglia. Essendo questa il motivo più soprannaturale[7], e, quindi, più radicale, dev’essere anche principio di tatto e sensibilità. «Per essere molto spirituali, molto soprannaturali —insegnava san Josemaría—, bisogna essere molto umani, sforzarsi di avere un senso affettuosamente umano della vita»[8]

Alla luce di questi elementi, si può capire quanto sia problematico mettere troppa enfasi sui criteri, le regole, gli obiettivi, ecc. Il passare del tempo finisce con il manifestare gli inconvenienti di tale logica. La cosa più ovvia è che chi mette a fuoco esclusivamente o principalmente «quanto previsto» può confondere l’importanza dei mezzi con quella del fine, e finire con limitare la libertà degli altri su problemi che possono ammettere diverse soluzioni[9]. Un altro inconveniente consiste nel fatto che, se non si arriva a trovarsi d’accordo su ciò che «dovrebbe essere» con la spontaneità che deve caratterizzare la vita di famiglia, l’ambiente potrebbe raffreddarsi e irrigidirsi. Infine, c’è il fatto che chi si impegna a tenere sotto controllo la situazione ottiene sempre vittorie fragili: nel mettere al primo posto l’efficacia, magari non ottiene di attrarre e convincere veramente: guadagnare il loro cuore e aiutarli a crescere in libertà[10]. Chi fondamentalmente aspira a controllare la situazione si stanca facilmente, e può fare stancare gli altri, che possono sentirsi poco protagonisti nella costruzione del focolare.

Equivoci relazionali

Nella vita del focolare possono introdursi altre due derive che possono definirsi equivoci o «cortocircuiti» relazionali. Come le prime, hanno le loro analogie con la vita di alcune famiglie, e sono caratterizzate dal fatto di generare una certa insoddisfazione di fondo in coloro che si vedono intrappolati da questi equivoci. Un personaggio delle parabole del Signore personifica questo tipo di situazione. È il figlio maggiore che rinfaccia a suo padre una serie di torti subiti in paragone a suo fratello, e che finisce con l’essere costretto a sentire queste parole: «Figlio, tu sei sempre con me, e tutto quello che è mio è tuo» (Lc 15, 31).

La prima di queste derive si potrebbe chiamare logica del merito. È quella di chi può essere esteriormente pieno di attenzioni per questo o per quello, e di una grande capacità di sacrificarsi per occuparsi delle cose della casa e di chi vi abita. Ma opera, in generale in modo inconsapevole, con la prospettiva di guadagnarsi l’affetto degli altri come contropartita delle sue fatiche. Questa logica, che a ragione si applica a molti ambiti della vita, non funziona in famiglia, perchè non corrisponde alla realtà. Qui siamo nel terreno della gratuità: siamo famiglia, e ha poco significato voler raccogliere meriti da chi ci vuole bene

Per altro, chi sente come propria la famiglia si fa in quattro per essa: però, senza esigere contropartite affettive, come un padre o una madre non le esige per amare i figli (al contrario, e contro ogni previsione, hanno la loro felicità, proprio in questo prodigarsi). Certo, a volte potrebbe mancarci la considerazione per le nostre fatiche; però, se pensiamo abitualmente a quello che ci devono dare per ciò che facciamo, il nostro sguardo può diventare autoreferenziale: come succede al figlio maggiore della parabola, che vive nella casa del padre, ma non la sente come realmente sua. Questo figlio, quando rimprovera per i torti subiti rispetto al fratello, sa coniugare le persone solo al singolare —io, tu, egli—. Dimenticando il noi, che è proprio il terreno sul quale il padre vorrebbe portarlo. Alla fine, la sua logica svela una profonda insoddisfazione, si paragona e osserva la libertà degli altri (quella del padre, quella del fratello), che giudica, perchè danno o perché ricevono ciò che, secondo lui, non dovrebbero dare o ricevere (cfr. Lc 15,29-32). In questo modo, quello che, ai suoi occhi, sembra una giusta rivendicazione in realtà è amara gelosia, orgoglio ferito.

Infine, c’è una deriva che potremmo chiamare logica del sentimento, per la quale il criterio di valutare la vita familiare si concentra nelle proprie sensazioni: Come mi fa sentire la vita in famiglia? Mi sento bene? Senza dubbio queste sono domande alle quali è giusto fare attenzione: gli uni e gli altri dovrebbero stare attenti a individuare ciò che migliora il clima di casa come ciò che potrebbe creare malessere. Tuttavia, per quanto il benessere emotivo possa essere un importante indicatore, non può diventare il principale criterio, la motivazione fondamentale per collaborare nella costruzione del focolare.

Se, in una persona, si creasse questa logica, diventerebbero indispensabili le sensazioni positive per sforzarsi di attendere alla famiglia. E, tuttavia, ci sono momenti nei quali la famiglia ha bisogno che lasciamo da parte le nostre preferenze. Come ci ha ricordato spesso il Padre, «si può fare con gioia – e non malvolentieri – quello che costa, quello che non piace, se lo si fa per e con amore, e dunque liberamente»[11]. Uno potrebbe non riuscire a superare questa difficoltà perchè, mentre sente di «avere diritto» di ricevere affetto, e lo richiede come un amore incondizionato, non si fa domande sul suo contributo. È quello che succede al fratello maggiore della parabola, che non considera se suo padre ha bisogno, da parte sua, di qualche «extra»: pensa soltanto alla festa che non ha potuto fare (cfr. Lc 15, 29).

Concentrarsi soltanto a pretendere affetto porta a generare preferenze di persone: di fronte all’amicizia sincera e aperta che è propria della relazione fraterna[12], si sviluppa allora la dinamica delle amicizie particolari,[13] che, per il fatto di essere esclusive ed escludenti, sono caricature dell’amicizia fraterna; in tal modo, in casa ci sarebbero «gli amici» e «gli altri». Naturalmente, un comportamento del genere pregiudicherebbe l’ambiente familiare, ma anche la stessa persona interessata, che potrebbe restare amareggiata, senza risorse affettive. Il dono del celibato, orientato com’è a generare una grande «capacità di volere bene a tutti»[14], diventerebbe tristemente rimpicciolito.

La logica del servizio è la logica del dono

Le derive che abbiamo abbozzato hanno in comune che conducono a un implicito fino a qui , una delimitazione degli sforzi e della dedizione. A volte — e questo accade in qualsiasi settore della società —, dietro certe crisi o cedimenti fisici e psichici può nascondersi una logica di pensiero e un comportamento fissato in una fredda pretesa di efficacia, di controllo, di aver meriti o di attesa di affetto; oppure in un miscuglio di vari di questi elementi, tra le altre possibilità[15].

Queste tipologie di crisi, con le quali la vita stessa vuole riportarci alla realtà, può essere occasione di purificazione e di rettificare: l’occasione per rendersi conto di ciò che si è perso, o che non si è riusciti a trovare, il giusto obiettivo. Tuttavia, se non le si affronta, ne può derivare un forte desiderio di evasione, un bisogno di eventi straordinari dovuti alla frustrazione; anche se, in conclusione, non saranno risolutivi, perché non affrontano il problema alla radice. Magari, allora succede che le vicende più importanti della vita familiare - proprio quelle che ci fanno uscire dalla normalità - non si apprezzano sufficientemente: niente sembra avere un ritorno abbastanza soddisfacente. E, mentre si potrebbe vivere felici e grati di ciò che si ha, si vive sospirando per quello che non si ha.

Di fronte a queste derive, che rimpiccioliscono la vita e la vocazione, c’è il «grandioso gioco di Dio, che è la Redenzione»[16]. La logica del servizio ci spinge a dare, ma non perché vogliamo ricevere, ma perché «abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4, 16). Nel centro della nostra vita c’è Dio, che ci ama e ci colma di grazia per saperci dare gratuitamente: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8). Allora, il focolare non viene costruito per calcolo. La logica del servizio conduce alla semplicità del padre e della madre, che non ha bisogno di fare propositi né di assommare gesti di servizio[17]: semplicemente si danno, si prestano a essere semplicemente un semplice blocco di pietra[18] affinché le pareti siano più robuste e il calore del focolare si mantenga meglio. E, contemplando la bellezza della casa che stanno costruendo, si riempiano di gioia e di gratitudine.

Questa è la logica filiale di Gesù che può dire veramente al Padre: «Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie» (Gv 17, 10). Qui la migliore ricompensa è l’amore di Dio, che sempre ci precede; in ogni istante, ci ama per primo (cfr. 1 Gv 4, 10). E di questo amore si riempie il cuore quando è con gli altri. Un amore «senza riposo e senza stanchezza»[19], perché ciò che veramente stanca è «girare attorno al proprio io»[20]. Servire, invece, vivere veramente per gli altri, a volte può costare; però, alla fine, non stanca.

Tonalità diverse, a seconda dei luoghi e delle persone

«Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella» (Sal 127, 1). Queste parole della Scrittura hanno una brillantezza particolare quando si pensa alla presenza reale del Signore negli oratori dei centri dell’Opera: Egli costruisce la casa, Egli custodisce la città, se lo lasciamo fare. «Se il centro dei tuoi pensieri e delle tue speranze è il Tabernacolo — scrive san Josemaría —, come saranno abbondanti, figlio mio, i frutti di santità e di apostolato!»[21]. Ed è proprio così: quando uno vive nella prospettiva di Dio, per gli altri, diventa uno che facilita, ispira e avvicina alla santità, che è il fondamento più forte del focolare.

Il modo in cui questa dinamica del servizio si potrà manifestare —«il “sano preconcetto psicologico” di pensare abitualmente agli altri»[22]— sarà diverso a seconda delle persone. Ogni centro dev’essere un mosaico unico, composto dai talenti che ciascuno mette al servizio del calore della famiglia. L’aspettativa di come dev’essere il focolare è diversa per ognuno, e per questo è importante che non sia guidato da una semplice lista di regole da applicare.

Ogni centro finirà con l’avere toni particolari nella celebrazione delle feste, nell’aiutarsi gli uni gli altri nella gestione materiale della casa, o nello sviluppo di progetti apostolici, o nei rapporti con le famiglie. C’è sempre qualcosa di comune: l'affetto, il senso dello humor, il senso soprannaturale, gli incontri familiari, le notizie del Padre e della famiglia dell’Opera, la sobrietà gioiosa e la serenità soprannaturale che consente un riposo rigeneratore. Uno stesso spirito dappertutto, con una viva concretezza ovunque. Per questo ci sentiamo sempre in casa quando andiamo in un’altra Regione o in un altro centro; perché sentiamo l’unità e la diversità — la ricchezza — dell’Opera.

La logica del servizio non libera dai propri difetti, e neppure da quelli degli altri; tanto meno impedisce di trovarsi più o meno bene con quelli che vivono assieme; oppure che la casa e le attività siano organizzate meglio o peggio; oppure esime dalla necessità di sforzarci per capire chi ci sta intorno[23]; o di chiedere perdono o di perdonare quando è il caso[24]. Però — e questa è la cosa decisiva — questa logica consente di trovare sempre la soluzione per andare avanti e per avvicinarsi di più a Dio.

Quando si costruisce il focolare in chiave di servizio, tutto prende vita: nei momenti di tertulia o del dopocena, ognuno è attento a rendere viva la conversazione, in modo che gli altri possano riposare; la correzione fraterna si porta nella preghiera e si pensa con un grande affetto verso l’altro, e si fa non per il fastidio che possono causare i suoi difetti; si fa in modo di passare sopra a tante cose senza irritarsi; sorridendo e scrollando le spalle[25]. L’autentico servizio, per quanto possa richiedere lo sforzo di uscire dal nostro piccolo egoismo, è un win-win; è sempre una somma in tutte e due le direzioni; da quella di chi serve e da quella di chi è servito. Ed è giusto chiamarlo «servizio», anche se con un certo imbarazzo. É, semplicemente, amore fraterno.

L’impegno di ognuno nella costruzione del focolare

Nella sua lettera sulle caratteristiche della vocazione all’Opera, il Padre ha ricordato la decisiva influenza delle amministrazioni nella creazione dell’ambiente di famiglia nei centri: «con il vostro lavoro curate e servite la vita nell’Opera, mettendo la singola persona come obiettivo e priorità del vostro impegno. Ciò esprime in modo molto concreto che l’Opera è famiglia; una famiglia vera, non in senso metaforico»[26]. Si tratta di un lavoro performante, nel senso che crea un ambiente propizio e propone un riferimento nel quale si può vedere il contributo di ciascuno all’ambiente di famiglia. Tuttavia, per incarnarsi, per farlo diventare vita, questa base ha bisogno dell’impegno di tutti.

Per i componenti del consiglio locale di un centro, il compito di servizio che Dio affida loro attraverso l’Opera consiste soprattutto nel vegliare in modo che ciascuno abbia la necessaria formazione e l’accompagnamento spirituale, oltre a un certo benessere materiale. San Josemaría lo sintetizzava così: «con sollecitudine paterna e materna, prendetevi cura delle anime e dei corpi di quelli che vi sono stati affidati»[27]. Questo compito richiede da loro responsabilità, ma anche tante dosi di pazienza e di abbandono a Dio. Così, si vede la necessità di capire il modo di essere di ciascuno, e i suoi punti di forza, sui quali faranno leva per aiutarli a crescere, ciascuno e il centro nel suo insieme; si vede con maggiore chiarezza che ciò che veramente conta è che tutti si avvicinano di più a Dio, e non tanto che le cose vadano in un modo determinato, e sono pronti a chiedere perdono, perché questo non solo non fa venire meno la loro autorità, ma li avvicina agli altri. Quando l’organizzazione del centro si svolge in questo modo, l’ambiente non cessa di esigere, come presuppone la ricerca della santità, ma ci guadagna in gioia e serenità che rende autentica questa ricerca[28]. Allora, tutto il centro si sente un tutt’uno con la ragion d’essere del focolare: tutti in uno, con le finalità di tutti e le particolarità di ognuno.

Il sacerdote, da parte sua, è spesso un interlocutore che ascolta e dà serenità, e aiuta a vedere, con prospettiva e magari con acutezza, i diversi aspetti della convivenza quotidiana. «Noi sacerdoti, scriveva san Josemaría, dobbiamo avere lo stesso spirito degli altri, ma specialmente di comprensione, di carità, di convivenza con tutti, di non scandalizzarci, di sollevare, di aiutare, come una madre»[29]. Con maggiore motivazione degli altri, quindi, il sacerdote dev’essere strumento di unità e di speranza, «senza timidezza né “complessi” (che di solito denotano poca maturità umana), ma anche senza invadenze “clericali” (che rivelano poco senso soprannaturale)»[30]. Se per i direttori la logica dell’esigenza può essere un rischio, per i sacerdoti può esserlo quella del merito: egli è sempre al servizio degli altri in modo palpabile, differenziato e insostituibile; e, senza rendersene conto, potrebbe intervenire una certa mentalità di vittima, se gli sembra che i suoi sforzi non vengano valorizzati. Don Álvaro andava così al punto di questa mentalità: «Se desiderate davvero sapere in che cosa si vede l’anima sacerdotale, ve lo riassumerò con parole di nostro Padre: nel non dire mai basta. Non rispondere mai “basta” all’amore, non fermarci di fronte al sacrificio, come Cristo»[31].

«È normale che in molte famiglie convivano persone appartenenti a varie generazioni (nonni, genitori, figli) e con caratteristiche diverse.(...) Se è vero che, talvolta, queste situazioni possono portare a un deteriorarsi dell’unità familiare, è anche vero che, molto spesso, tali difficoltà e altre ancora possono unire di più la famiglia, quando c’è vero amore»[32]. Ne deriva che tutti quelli che vivono in uno stesso centro, dal più anziano all’ultimo arrivato, hanno la missione di costruire il focolare, con i talenti che Dio ha dato loro, e con il loro proprio modo di essere; in modo che la casa sia, per ciascuno, un luogo di intimità, di amore incondizionato e di riposo sereno. Tutti hanno un ruolo insostituibile in questo impegno, perché ciascuno conosce meglio degli altri i talenti che Dio gli ha dato, per metterli a servizio di tutti, con iniziativa e generosità. La fraternità che si vive in ogni nostro centro sarà così un’oasi di pace e un punto di ispirazione per la vita degli aggregati e dei soprannumerari, e per tutte le persone che si avvicinano al calore dell’Opera.

Per ultimo, ma non il meno importante, i malati hanno un compito speciale, non solo «perché per un'anima innamorata, i bambini e i malati sono Lui»[33], ma anche perché sono la sfida più diretta e pratica alle derive negative che abbiamo di fronte. Lasciandosi accudire, dando quello che nel loro stato possono dare, e senza cedere alla logica di chi non si sente abbastanza voluto bene, possono essere un polo di coesione del centro, per unire gli sforzi nel servire chi ne ha più bisogno.

La vita di focolare del centro, edificata su queste basi, irradia intorno a sè l’amore di Dio e apre a poco a poco, in quelli che vi abitano e in quelli che lo frequentano, le porte della casa che Egli ha preparato per quelli che lo amano. «Se vi amate, diceva san Josemaría, ognuna delle nostre case sarà il focolare che io ho visto, quello che io voglio che sia in ogni nostro angolo. E ognuno dei vostri fratelli sentirà una fame santa di arrivare a casa, dopo una giornata di lavoro; e poi avrà voglia di uscire per strada (...), per questa guerra di pace»[34].


[1]. Cfr. Fil 2,7; Mt 20,28.

[2]. San Josemaría, Lettera, 14-II-1974, n. 2.

[3]. San Josemaría, Forgia, n. 861.

[4]. «L’Opus Dei certamente è famiglia e, insieme, milizia. Famiglia unita dall’affetto gioioso e amabile; milizia, prontissima alla lotta spirituale» (De Spiritu, n. 64).

[5]. A questo può aggiungersi un altro rischio culturale del presente. La tendenza a vivere il tempo libero in maniera individualista, in modo che tutto quello che non è lavoro tende a girare attorno ai miei interessi, ai miei gusti, alle mie attività, alla mia vita sociale, ecc. Naturalmente, un atteggiamento di questo tipo comprometterebbe significativamente il calore della casa.

[6]. Citato in F. Ocáriz, Lettera pastorale, 16-II-2023, n. 9.

[7]. Cfr. San Josemaría, È Gesù che passa, n. 17.

[8]. San Josemaría, Lettera 27, n. 34, citato in E. Burkhart - J. López, Vita quotidiana e santità nell’insegnamento di San Josemaría, Libreria Editrice Vaticana, vol. III.

[9]. Cfr. F. Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 8.

[10]. «La formazione, durante l’intera vita, senza trascurarne la necessaria esigenza, deve tendere in grande misura ad aprire orizzonti. Se invece ci limitassimo alla reciproca esigenza, potremmo finire per vedere soltanto ciò che non riusciamo a fare, i nostri difetti e i nostri limiti, dimenticandoci la cosa più importante: l’amore di Dio per noi.» (F. Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 11).

[11]. F. Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 6.

[12]. Cfr. F. Ocáriz, Lettera pastorale, 1-XI-2019, nn. 14-17.

[13]. La nozione di amicizia particolare ha una ampia e complessa storia nella tradizione cristiana. Nominata per la prima volta da san Basilio di Cesarea, avrà uno speciale sviluppo in Occidente a partire dall’Imitazione di Cristo e delle opere di santa Teresa d’Avila e di san Francesco di Sales. Per la comprensione di questa nozione in san Josemaría, cfr. Camino, edizione storico-crítica, n. 366.

[14]. F. Ocáriz, Lettera pastorale, 28-X-2020, n. 22.

[15]. A volte, scrive san Josemaría, «i Direttori commetterebbero un grave errore se permettessero che un figlio mio, senza una vera necessità, si trovasse in situazioni che esigessero da lui una continua eroicità, dimenticando che tali situazioni devono essere transitorie e che si devono cercare i mezzi giusti per farli smettere prima possibile» (Lettera 27, n. 38).

[16]. San Josemaría, Lettera, 14 -II-1974, n. 2.

[17]. «Quando c’è amore, oserei affermare che non c’è bisogno di fare propositi. Mia madre non ha fatto il proposito di amarmi. E bisogna vedere che dettagli di affetto aveva per me!» (San Josemaría, appunti da un incontro familiare, citato in S. Bernal, Monsignor Josemaría Escrivá de Balaguer. Appunti sulla vita del Fondatore dell'Opus Dei; Ares, Milano 1977).

[18]. Cfr. San Josemaría, «Pietre da costruzione» (27-VII-1937) in Crescere al di dentro, 233-239 (AGP, biblioteca, P12).

[19]. San Josemaría, Amici di Dio, n. 296.

[20]. «Quello che stanca veramente, figli miei, è la superbia, girare intorno al proprio io. E, oltre a stancare, impedisce all’anima di sentirsi vicina a Dio» (Beato Álvaro, in Crónica, XI-1989, p. 1141; AGP, Biblioteca P01).

[21]. San Josemaría, Forgia, n. 835.

[22]. Ibidem, n. 861.

[23]. F. Ocáriz, Lettera pastorale, 16-II-2023, nn. 3-6.

[24]. Ibidem, nn. 7-8.

[25]. «San Giuseppe è meraviglioso! È il santo dell’umiltà piena..., del sorriso costante e dell’alzata di spalle» (San Josemaría), citato en A. Vázquez de Prada, Il Fondatore dell’ Opus Dei (III), Leonardo International, Milano, 2004.

[26]. F. Ocáriz, Lettera pastorale, 28-X-2020, n. 15.

[27]. San Josemaría, Lettera 27, n. 39.

[28]. « «Siete tutti così allegri che uno non se lo aspetta», ho sentito commentare. Viene da lontano l’impegno diabolico dei nemici di Cristo, che non si stancano di mormorare che la gente dedicata a Dio ha «la faccia lunga». E, purtroppo, alcuni di coloro che vogliono essere «buoni» fanno loro eco, con le proprie «virtù tristi». — Ti rendiamo grazie, Signore, perché hai voluto contare sulle nostre vite, felici e contente, per cancellare questa falsa caricatura. — Ti chiedo anche di non farcelo dimenticare» (Solco, n. 58).

[29]. San Josemaría, appunti da un incontro, 19-III-1961, in Crónica II-1993, p. 189 (AGP, Biblioteca, P01).

[30]. San Josemaría, Colloqui, n. 4.

[31]. Beato Álvaro, Lettere di Famiglia, n. 377 (AGP, Biblioteca, P17).

[32]. F. Ocáriz, Lettera pastorale, 16-II-2023, n. 14.

[33]. San Josemaría, Cammino, n. 419.

[34]. San Josemaría, Crónica VII-1956, p. 7 (AGP, Biblioteca P01).

Carlos Ayxelá