«Quando mi parlarono della sala di studio - ricorda Elisabetta -, credevo che si trattasse di un’attività caritativa. Pensavo che avrei aiutato a studiare qualche ragazza in difficoltà. Invece trovai delle liceali che studiavano con grande diligenza e intensità. Mi fecero sentire a mio agio anche se non mi conoscevano per niente ed erano più giovani di me che ero all’università».
Elisabetta, originaria di Orsenigo, in Brianza, ha conosciuto l’Opus Dei quando era all’università: «Non avevo mai sentito parlare dell’Opera - racconta - se non con il famoso Codice Da Vinci. Ero nel consiglio pastorale della mia parrocchia, dove sono praticamente cresciuta, e dovevamo organizzare la Giornata nazionale della vita. Ricordavo che una mia professoressa delle medie faceva parte del Movimento per la vita e decisi di invitarla». Quella professoressa invitò Elisabetta al Ciar, un centro culturale per liceali promosso da persone dell’Opera a Como. “Ciar” significa “luce”, “chiarore”, nel dialetto del luogo. Quel centro culturale non c’è più, ma i suoi frutti sono visibili ancora oggi nella vita di Elisabetta.
Una gita a Roma per locali
«Iniziai a frequentare il Ciar e mi invitarono all’Univ - prosegue Elisabetta -, ma io avevo già organizzato un viaggio a Roma con delle mie amiche proprio prima dell’inizio della Settimana Santa. Ognuna doveva scegliere cosa fare per i quattro giorni di vacanza nella Capitale. Eravamo pronte ad andare in discoteche, locali e a visitare qualche monumento obbligatorio come il Colosseo. Io ero curiosa di vedere il quadro della vocazione di san Matteo, nella chiesa di san Luigi dei Francesi. Davanti a quel quadro mi accorsi che il Signore non ci chiama perché siamo bravi, ma ci ama gratuitamente, non per le nostre doti».
Le amiche di Elisabetta, sue colleghe dell’università, si accorsero dell’inquietudine nata nel suo cuore: «Invece di uscire e andare per locali, passammo le sere di quella breve vacanza a parlare di fede, e del senso della vita».
«Una volta tornata a casa, la prima cosa che feci fu iniziare con una bella confessione. Poi parlai con il mio fidanzato, spiegandogli che avrei voluto vivere cristianamente la nostra relazione. Lui si disse d’accordo perché mi voleva bene, e dopo qualche tempo mi chiese di sposarlo. Io però pensavo che avrei voluto che il padre dei miei figli fosse cristiano, e lui non lo era. Ci lasciammo e continuai il mio discernimento».
Una spiegazione non convincente
Qualche mese dopo Pasqua, d’estate, partecipai a un’attività di formazione cristiana a Palmi, una convivenza. Una sera ci furono delle testimonianze per spiegare quali sono i modi di vivere la vocazione all’Opus Dei. Per la vocazione di aggregata non c’era la testimone, per cui un’altra persona ne parlò in un modo un po’ teorico che non mi convinse del tutto: mi incuriosii e iniziai a esplorare la possibilità di diventare aggregata».
«In quei mesi mia mamma era preoccupatissima, perché aveva sentito solo cose negative sull’Opus Dei. Per trovare qualcuno che potesse dissuadermi dal frequentare l’Opera andò persino dal parroco. E fu un bene, perché il parroco conosceva diverse persone dell’Opus Dei nella parrocchia e aiutò mia madre a capire che era tutto alla luce del sole e nella Chiesa».
Un regalo per il compleanno della Madonna
«Qualche tempo dopo andai a Messa al santuario di Maria nascente ad Alzate Brianza. Nelle nostre zone la devozione per il compleanno della Madonna è molto sentita, e iniziava la novena dell’otto settembre. Eravamo un piccolo nucleo famigliare: c’era mia mamma, Rosanna, una mia amica aggregata che stava seguendo da vicino il mio percorso, e una numeraria ausiliare che viveva lì vicino».
«Quel giorno mia madre mi disse che secondo lei il Signore mi stava proprio chiamando. Mentre me lo diceva stavamo lavando insieme i piatti, e ruppi un bicchiere per l’emozione. L’otto settembre scrissi la lettera per chiedere di essere parte dell’Opus Dei come aggregata».
Non lasciarsi governare dal lavoro
Gli alimenti sono la passione di Elisabetta, che professionalmente si occupa di provvedere alla supervisione dell’intera filiera produttiva, per verificare che vengano sempre rispettati gli standard qualitativi. Dopo aver lavorato come manager nell’area controllo qualità di un’azienda di additivi alimentari, si è resa conto di essere completamente assorbita dal lavoro, e ha deciso di volersi rimettere in sesto e cambiare aria con un’esperienza all’estero, licenziandosi. Oggi Elisabetta è tornata in Italia: «Sono alla ricerca del lavoro con la consapevolezza che non voglio farmi governare dalla mia prossima professione. Santificare il lavoro non avendone uno non è così scontato, però cercare il lavoro è un lavoro. Mi piace moltissimo preparare professionalmente gli incontri e i colloqui, affidare le persone che incontro nei vari step ai loro angeli custodi».
«Per me tra i tanti insegnamenti preziosi di san Josemaría - conclude Elisabetta - c’è "Se non puoi lodare, taci". La maldicenza è distruttiva, e sul lavoro, e non solo, sembra l’hobby preferito delle persone. Una mia ex collega, Veronica, era innamorata di questa frase: quando sentiva l’impulso di lasciarsi andare a un liberatorio “spetteguless” diceva: se non puoi lodare taci».