26 giugno: Dio è contento quando sogniamo

In occasione della festa di san Josemaría, don Luca Brenna approfondisce il tema del “sogno” a partire dal “sogno ad occhi aperti” fatto dal fondatore il giorno in cui vide l’Opus Dei.

Per chi si sente figlio di san Josemaría, il 26 giugno evoca tanti ricordi. È come se la propria vita diventasse una storia animata e la si vedesse nel suo insieme, un 26 giugno dopo l’altro: lo svolgersi di un sogno ispirato dallo stesso fondatore dell’Opus Dei.

San Josemaría, sognatore e padre di sognatori, chiamò “Opus Dei” quel sogno ad occhi aperti che fece il mattino del 2 ottobre 1928. Dio, che è creatore, sparge incessantemente semi di creatività sui suoi figli, e poi, entusiasta dei loro sogni, li benedice, si mette all’opera (Opus) e dà loro forma. Per questo il mondo è così incredibilmente bello.

San Josemaría chiamò “Opus Dei” quel sogno ad occhi aperti che fece il mattino del 2 ottobre 1928

San Josemaría ha sempre avuto una spiccata disposizione al sogno, basti pensare che ai tempi del seminario lo avevano soprannominato “il sognatore”[1]. E sognatore rimase per tutti i suoi giorni, fino all’ultimo. Spirò realizzando un sogno fatto in precedenza: morire senza disturbare troppo, sotto lo sguardo materno della Madonna di Guadalupe. Lasciò in eredità ai suoi figli e alle sue figlie un segreto e un compito: sognate, e la realtà supererà i vostri sogni.

Che bisogno c’è di sognare, se possiamo vedere?

Oggi ci risulta difficile concepire il sogno come qualcosa che ha a che fare con Dio. Siamo sempre un po’ sospettosi. Forse questo sospetto è dovuto al pesante pregiudizio indotto dalla psicanalisi, secondo cui è nell’inconscio, e dunque in ciò che sta “in basso”, la fonte dei sogni, e non certo in cielo. Inoltre, immersi come siamo nella cultura dell’immagine, noi possiamo vedere tutto in qualsiasi momento, anche ciò che non esiste, basta volerlo. Che bisogno c’è allora di sognare, se possiamo vedere?

Eppure, accanto a tutto ciò, sentiamo anche una grande nostalgia dei sogni, e non mancano, specie tra i giovani, testimonianze affascinanti di sognatori controcorrente, spesso riconosciuti come coloro che soli possono indicare una via alla vita vera in modo credibile.

A questo punto ci potremmo legittimamente chiedere, tornando al santo sognatore: c’entra davvero il sogno con la questione seria della santità? Perché Dio sarebbe contento quando sogniamo? Non sarebbe meglio rimanere con i piedi per terra, aderire alla realtà quotidiana, dove indubbiamente ci aspetta il Signore, anziché disperdere energie in sterili evasioni? Ancora, non è già abbastanza grande il sogno di Dio, di cui siamo riusciti a realizzare soltanto una minima parte? Pensiamo ad esempio a quel “sono venuto a gettare fuoco sulla terra” [2] di Gesù: non basterebbe l’intera vita a realizzare un’infinitesima parte di questo sogno. Perché aggiungere sogni a sogni?

Provo ad azzardare qualche ipotesi di risposta.

Il sogno apre il cuore all’accoglienza della logica del dono

Innanzitutto, quando si sogna? Pensiamo ai bambini che sognano ad occhi aperti, mentre papà o mamma raccontano le favole, magari sempre le stesse. Questo mi sembra che succeda spesso: si sogna accanto a un padre, si può sognare perché c’è un padre, ed il sogno ci aiuta a tracciare i confini e la fisionomia del nostro essere figli. Il sogno quindi è conseguenza, ma anche presupposto, di una vita interiore da figli, da chi insomma, davanti all’angoscia della provvisorietà, riesce a concepire un domani amico.

Il sogno, poi, si ambienta in un mondo leggero in cui non vigono le leggi della fisica: non c’è tempo, non c’è gravità, tutto è possibile. Tutto è “offerto”. Il sogno apre il cuore all’accoglienza di un altro tipo di logica, la logica del dono: ricevere, prima di tutto, qualcosa che non mi è dovuto, non è proporzionato alle mie forze o ai miei meriti. Questa logica ci spaventa, non perché non la desideriamo, ma perché ci sembra troppo bella per essere vera e per avere il diritto di accoglierla. Ma senza dono, la vita diventa commercio, e l’uomo resta inevitabilmente solo. Dio non desidera questo, perché è Padre, e noi siamo suoi figli. Il sogno, allora, è la via alla guarigione dall’illusione dell’indipendenza.

Ancora, il sogno ha a che fare con qualcosa che non esiste. È lo spazio in cui si accoglie ciò che non c’è, e che forse è impossibile, credendo alla sua esistenza e alla sua possibilità. Il sogno ci apre alla logica della fede come abbandono, nei due sensi: abbandono al Padre, e abbandono, nelle mani del Padre, di noi stessi e dei nostri ristretti criteri.

Torniamo, in conclusione, all’invito di san Josemaría: sognate! Sogna tu stesso, fai il tuo sogno. Mi colpisce questa fiducia nella bontà di ogni singolo uomo che sogna. Quando sogno sotto lo sguardo ammirato del Padre, ciò che è infinitamente privato (appunto il mio sogno) diventa indicazione, strada, dimora, anche per le vite degli altri. Questa apertura del sogno dalla dimensione privata a quella condivisa, allena il cuore ad entrare nella dinamica divina, che è dinamica di comunione.

Ecco perché, forse, Dio è tanto contento quando sogniamo. E quando sogniamo insieme a Lui, sotto il suo sguardo ammirato. E quando ci raccontiamo i sogni. E quando sogniamo di nuovo dopo aver parlato assieme dei nostri sogni. E quando li raccontiamo a Dio. In un andirivieni continuo tra noi, i sogni e Dio. Questa è già vita eterna. Questa è l’opera di Dio.

Luca Brenna


[1] Cfr. Amici di Dio, 59.

[2] Cfr. Lc 12,49.