Il primo approccio autonomo ai poveri che ebbi nella mia vita fu abbastanza intellettuale e teorico, forse perché frequentavo un liceo “bene” di Roma. Dapprima protestai con i miei genitori perché avevano comprato un'utilitaria nuova anziché trascinare la vecchia auto fino al limite e vendere tutto ai poveri; poi fondai con una decina di liceali più o meno coetanei un collettivo dedito a studiare l'attualità e protestare in favore di cause di paesi emergenti o oppressi; infine durante un'occupazione studentesca tenni un corso sul debito dei Paesi poveri.
Due studenti a un modesto desk
Non avevo grandi competenze economiche, ma ero convinto che l’idea che mi ero fatto della situazione sociale dell’Africa leggendo i giornali fosse sufficientemente accurata per dire agli altri cosa fare per loro. Mi rendevo conto che c'era qualcosa che non andava nel pontificare sui Paesi poveri senza mai averne visitato nemmeno uno. Questa voglia di vedere e toccare con mano ciò di cui parlavo che si faceva strada in me e fu la leva che inconsapevolmente mi cambiò la vita.
Una mattina ero con la classe in gita in una fiera dello studente a Roma. Stavo girando distrattamente tra gli stand di università e facoltà, quando l'occhio mi cadde su un piccolo desk. Chiamarlo “desk” forse è troppo: era un banco di scuola con un cartello con su scritto “volontariato”. Chiesi allora ai due studenti che vi sedevano dietro che tipo di attività stessero promuovendo. Mi risposero: visite cittadine a giovani con disabilità e campi di lavoro in Nicaragua. La seconda frase mi fulminò: senza sapere perché, forse anche fremendo per il trasporto del momento, dissi su due piedi - benché fossi ancora minorenne! -: “Ok ci sto. Cosa devo fare per venire con voi in Nicaragua?"
Loro non lo sapevano, ma per me si trattava della finestra sulla realtà dei poveri che cercavo. Seguirono alcune settimane di conoscenza reciproca: i due studenti del banchetto scoprirono che ero ateo, io in cambio scoprii che loro erano persone dell'Opus Dei.
Inizialmente avevo l’aspettativa e il desiderio di finire in una specie di meeting con qualche guerrillero nicaraguense, mentre loro avevano impostato un volontariato cristiano volto a costruire latrine per un pueblo locale, un paesino. La buona volontà da ambo i lati superò la barriera del credo e la differenza di aspettative: prendemmo l'aereo.
L’arrivo in Nicaragua di un muso lungo
Il viaggio fu già un anticipo del programma. Per un mio ritardo tutto il gruppo rischiò di perdere l’aereo. Una volta in volo, scoprii che gli altri avevano pagato più di me per il viaggio, e ne dedussi che senza conoscermi bene e senza dirmelo avevano pagato parte della quota per me, perché potessi partecipare anch'io.
Arrivati con un pulmino sgangherato a Managua, la capitale del Nicaragua, per i primi due giorni non riuscii a lavorare perché colto da dissenteria per aver bevuto acqua locale. Le persone del gruppo si mostrarono, in questo come nelle altre cose, amichevoli e pazienti, sebbene mi conoscessero solo da un paio di giorni. Erano anche allegre, mentre io portavo un certo muso lungo in virtù della serietà che attribuivo al compito che andavamo a svolgere. Vedere che, nella lotta per aiutare i poveri, il primo impiccio e - in un certo senso - il primo povero da aiutare ero io, fu per me una rivoluzione copernicana. Da prendere con il sorriso.
Le sorprese non finirono qui. Osservando finalmente la gente del pueblo nella foresta, le mie idee si schiantarono contro il muro infrangibile della realtà. I poveri non erano infelici: le mamme sorridevano, i bimbi salivano a piedi nudi sulle palme per tirare giù le noci di cocco, gli anziani sedevano pazienti ai lati delle baracche, i giovani giocavano all'albero della cuccagna. A conti fatti, erano più sorridenti di me. Questo rompeva l'equazione che avevo in testa, per la quale a consumo e ricchezza corrispondeva la felicità, mentre alla povertà seguiva l’infelicità.
Il sasso lanciato nello stagno delle idee
Il fatto che sorridessero non cancellava certo i problemi evidenti di igiene pubblica, abitativi o reddituali delle famiglie, ma il sasso nello stagno delle mie convinzioni era lanciato. Pensando alle mie abitudini da consumatore occidentale e alla mia scarsa allegria, mi sentivo messo in discussione. In quell'occasione notai che il vero e più visibile elemento di disturbo degli equilibri era proprio il consumismo indotto con la pubblicità che, con la sua pervasività di cartelloni e locandine, aveva indotto le mamme a spendere più in bevande gassate che in acqua potabile.
D’altra parte la religione, che consideravo “l’oppio dei popoli”, era un vincolo di unione e allegria tra le persone del paesino, proprio come lo era tra gli studenti italiani accorsi a quel campo di lavoro senza conoscersi, ma legati dalla comune frequentazione, ognuno nella sua città, alle attività dell'Opus Dei.
La lezione che appresi grazie a questa attività nella foresta non l'ho mai più scordata ed è stata per me l’inizio di una conversione, di un deciso cambio di abitudini, di molte amicizie durature. Non siamo noi che visitiamo i poveri, è la loro vita che interroga la nostra, quando ci sporgiamo fuori dalla nostra zona di comfort per stare con loro veramente. E quando ciò accade, quanto ci arricchiscono!
“100 anni di gratitudine” è una raccolta di testimonianze che accompagnano le Assemblee regionali dell’Opus Dei per il 2024. Clicca qui per leggere le testimonianze pubblicate finora, o per approfondire i temi delle Assemblee regionali.