Commento al Vangelo: “Il pubblicano e il fariseo”

Vangelo della 30ª domenica del Tempo ordinario (Ciclo C) e commento al vangelo.

Vangelo (Lc 18, 9-14)

In quel tempo Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

– Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il pubblicano, invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato.


Commento

Con la parabola del fariseo e del pubblicano che salgono al tempio per pregare, Gesù ci dà ancora una volta alcuni insegnamenti sull’umiltà, virtù indispensabile per trattare Dio e gli altri; è anche “la disposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono della preghiera”, ricorda il Catechismo della Chiesa (n. 2559).

Il contrasto tra i due personaggi della parabola è notevole e stimolante, soprattutto perché, per l’opinione pubblica di allora, la figura del fariseo sintetizzava il modello della virtù e della istruzione, mentre il solo nome di pubblicano era sinonimo di peccatore (cfr., per esempio, Lc 5, 30) e i pubblicani erano considerati impuri per il solo fatto di lavorare con i gentili.

Gesù presenta il fariseo orgoglioso di se stesso e con tratti quasi comici: prega “rimanendo in piedi” e in una posizione più avanzata del pubblicano; si rivolge a Dio in modo magniloquente, elenca i suoi molti meriti in cose fatte in sovrappiù rispetto a quanto prescritto, come i digiuni; e vive in continuo paragone con gli altri, che considera inferiori. Il fariseo crede di pregare, ma in realtà si limita a un monologo “tra sé e sé”, alla ricerca del suo compiacimento personale ed escludendosi dall’amore di Dio.

Invece il pubblicano si ferma a distanza e con lo sguardo rivolto in basso, perché si sente indegno di rivolgersi al suo Signore; nel pregare si batte il petto, quasi per frantumare la durezza del cuore e lasciare entrare il perdono di Dio. Come afferma sant’Agostino, “benché la sua coscienza lo allontanasse da Dio, la sua pietà lo avvicinava a lui”[1].

Gesù descrive in termini così marcati l’arroganza del fariseo che nessuno vorrebbe somigliare a lui, ma semmai all’umile pubblicano. Tuttavia in noi è in agguato una forma simile di arroganza, che si presenta più sottile e può infiltrarsi nel nostro comportamento e nel nostro modo di pregare. San Giovanni Crisostomo commentava così questi versetti: “Infatti, come l’umiltà supera il peso del peccato e uscendo da sé arriva fino a Dio, così la superbia, per i peso che ha, affonda la giustizia. Pertanto, sebbene tu faccia una quantità di cose ben fatte, se credi di poterne fare a meno, perderai il frutto della tua preghiera. Viceversa, anche quando porti nella tua coscienza il peso di mille colpe, se credi di essere il più piccolo di tutti, riuscirai ad avere una grande fiducia in Dio”[2].

Gesù dice che il pubblicano tornò a casa sua giustificato mentre non così il fariseo. Indica così il frutto che si ottiene con la vera vita di pietà: la giustificazione, che in questa parabola potrebbe tradursi come l’arte di far piacere a Dio, e che non consiste tanto nel sentirci al sicuro e migliori nel compiere esattamente alcune norme, ma piuttosto nel riconoscere davanti a Dio la nostra povera condizione di creature, bisognose della sua misericordia e chiamate ad amare gli altri come Dio li ama.

Dalla parabola ricaviamo un modo sicuro per evitare l’arroganza nella nostra vita di pietà: sarà umile e gradita a Dio se ci porta a frequenti atti di contrizione e ad amare gli altri. Sarà arrogante e infruttuosa se ci fa sentire sicuri dei propositi da noi compiuti e ci induce a frequenti giudizi critici verso gli altri. Spiega Papa Francesco, “Non basta dunque domandarci quanto preghiamo, dobbiamo anche chiederci come preghiamo, o meglio, com’è il nostro cuore: è importante esaminarlo per valutare i pensieri, i sentimenti, ed estirpare arroganza e ipocrisia”[3]. Per evitare questo male dell’anima mentre cerchiamo di migliorare e di avere un’autentica conoscenza di sé, può esserci utile ciò che scrisse san Josemaría: “Non è mancanza d’umiltà che tu riconosca il progresso della tua anima. Così ne puoi ringraziare Dio. Non dimenticare che sei un poveretto che indossa un bell’abito... imprestato”[4].

Pablo M. Edo


[1] Sant’Agostino, De verb. Dom. Serm. 36.

[2] San Giovanni Crisostomo, Serm. De fariseo et De publicano.

[3] Papa Francesco, Udienza, 1 giugno 2016.

[4] San Josemaría, Cammino, n. 608.