Indonesia - Papua Nuova Guinea - Timor-Leste - Singapore
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Incontro con gli assisiti dalle realtà caricative
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Incontro con i Fedeli della Diocesi di Vanimo
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Visita ai Bambini con disabilità della Scuola “Irmãs Alma”
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Incontro Interreligioso con i giovani
INDONESIA
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Signor Presidente,
distinte Autorità,
eminentissimi Signori Cardinali,
Signori Vescovi,
illustri Rappresentanti delle comunità religiose, delle diverse religioni,
illustri Rappresentanti della società civile,
Membri del Corpo Diplomatico!
Ringrazio cordialmente Lei, Signor Presidente, per il gradito invito a visitare il Paese e per le sue gentili parole di saluto. Rivolgo al Presidente eletto il mio più sentito augurio per un fruttuoso lavoro al servizio dell’Indonesia, immenso arcipelago di migliaia e migliaia di isole bagnate dal mare che collega l’Asia all’Oceania.
Si potrebbe quasi affermare che, come l’oceano è l’elemento naturale che unisce tutte le isole indonesiane, così il mutuo rispetto per le specifiche caratteristiche culturali, etniche, linguistiche e religiose di tutti i gruppi umani di cui si compone l’Indonesia è il tessuto connettivo indispensabile a rendere unito e fiero il popolo indonesiano.
Il vostro motto nazionale “Bhinneka tunggal ika” (“Uniti nelle diversità”, letteralmente “Molti, ma uno”) manifesta bene questa realtà multiforme di popoli diversi saldamente uniti in una sola Nazione. E inoltre mostra che, come la grande biodiversità presente in questo arcipelago è fonte di ricchezza e splendore, analogamente le differenze specifiche contribuiscono a formare un magnifico mosaico, nel quale ogni tessera è insostituibile elemento per comporre una grande opera originale e preziosa. E questo è il vostro tesoro, è la vostra ricchezza più grande.
L’armonia nel rispetto delle diversità si raggiunge quando ogni visione particolare tiene conto delle necessità comuni e quando ogni gruppo etnico e confessione religiosa agiscono in spirito di fraternità, perseguendo il nobile fine di servire il bene di tutti. La consapevolezza di partecipare a una storia condivisa, nella quale ciascuno porta il proprio contributo e dove è fondamentale la solidarietà di ogni parte verso il tutto, aiuta a individuare le giuste soluzioni, a evitare l’esasperazione dei contrasti e a trasformare la contrapposizione in fattiva collaborazione.
Questo saggio e delicato equilibrio, tra la molteplicità delle culture e delle differenti visioni ideologiche e le ragioni che cementano l’unità, va continuamente difeso da ogni sbilanciamento. Si tratta di un lavoro artigianale, ripeto, un lavoro artigianale affidato a tutti, ma in maniera speciale all’azione svolta dalla politica, quando essa si pone come obiettivo l’armonia, l’equità, il rispetto dei diritti fondamentali dell’essere umano, uno sviluppo sostenibile, la solidarietà e il perseguimento della pace, sia all’interno della società sia con gli altri popoli e Nazioni. E da qui la grandezza della politica. Diceva un saggio che la politica è la forma più alta della carità. È bello questo.
Per favorire una pacifica e costruttiva armonia, che assicuri la pace e unisca le forze per sconfiggere gli squilibri e le sacche di miseria, che ancora persistono in alcune zone, la Chiesa desidera incrementare il dialogo interreligioso. Si potranno eliminare in questo modo i pregiudizi e far crescere un clima di rispetto e di fiducia reciproca, indispensabile per affrontare le sfide comuni, tra le quali quella di contrastare l’estremismo e l’intolleranza, i quali – distorcendo la religione – tentano di imporsi servendosi dell’inganno e della violenza. Invece la vicinanza, l’ascoltare l’opinione degli altri, questo crea la fratellanza di una Nazione. E questa è una cosa molto bella, molto bella.
La Chiesa Cattolica si pone al servizio del bene comune e desidera rafforzare la collaborazione con le istituzioni pubbliche e altri soggetti della società civile, ma mai facendo proselitismo, mai; rispetta la fede di ogni persona. E con questo, incoraggia la formazione di un tessuto sociale più equilibrato e per assicurare una distribuzione più efficiente ed equa dell’assistenza sociale.
Permettetemi di fare ora un riferimento al Preambolo della vostra Costituzione del 1945, il quale offre indicazioni preziose sulla direzione del cammino che l’Indonesia democratica e indipendente ha scelto. E questa è una storia molto bella; quando uno la legge, vede che è stata una scelta di tutti.
Per ben due volte in poche righe il Preambolo fa riferimento a Dio onnipotente e alla necessità che la sua benedizione scenda sul nascente Stato dell’Indonesia. Similmente, il testo che apre la vostra Legge fondamentale a due riprese tratta della giustizia sociale, auspicando che si instauri un ordinamento internazionale fondato su di essa, considerata tra i principali obiettivi da realizzare a vantaggio dell’intero popolo indonesiano.
Unità nella molteplicità, giustizia sociale, benedizione divina sono dunque i principi fondamentali, destinati a ispirare e orientare i programmi specifici, sono come la struttura portante, la solida base sulla quale costruire la casa. E come non notare che tali principi si accordano molto bene con il motto di questa mia visita in Indonesia: “Fede, fraternità, compassione”?
Purtroppo, invece, si riscontrano nel mondo attuale alcune tendenze che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale (cfr Lett. enc. Fratelli tutti, 9). In diverse regioni constatiamo il sorgere di violenti conflitti, che sono spesso il risultato di una mancanza di rispetto reciproco, della volontà intollerante di far prevalere a tutti i costi i propri interessi, la propria posizione, o la propria parziale narrazione storica, anche quando ciò comporta sofferenze senza fine per intere collettività e sfocia in vere e proprie guerre sanguinose.
A volte poi si sviluppano violente tensioni all’interno degli Stati, per la ragione che chi detiene il potere vorrebbe tutto uniformare, imponendo la propria visione anche in questioni che dovrebbero essere lasciate all’autonomia dei singoli o dei gruppi.
D’altra parte, malgrado le suadenti dichiarazioni programmatiche, sono molte le situazioni in cui manca un effettivo e lungimirante impegno per costruire la giustizia sociale. Ne deriva che una parte considerevole dell’umanità viene lasciata ai margini, senza i mezzi per un’esistenza dignitosa e senza difesa per far fronte a gravi e crescenti squilibri sociali, che innescano acuti conflitti. E come si risolve questo? Con una legge di morte, cioè limitare le nascite, limitare la ricchezza più grande che ha un Paese, che sono le nascite. Il vostro Paese, invece, ha famiglie di tre, quattro, cinque figli che vanno avanti. E questo si vede nel livello d’età del Paese. Continuate così. È un esempio per tutti i Paesi. Forse questo fa ridere; forse certe famiglie preferiscono avere un gatto, un cagnolino, e non un figlio. Questo non va.
In altri contesti, invece, si ritiene di poter o dover prescindere dal ricercare la benedizione di Dio, giudicandola superflua per l’essere umano e per la società civile, che si dovrebbero promuovere con le loro proprie forze, ma che, così facendo, incontrano spesso la frustrazione e il fallimento. Al contrario, vi sono casi in cui la fede in Dio viene continuamente posta in primo piano, ma spesso per essere purtroppo manipolata e per servire non a costruire pace, comunione, dialogo, rispetto, collaborazione, fraternità, a costruire il Paese, ma per fomentare divisioni e odio.
Fratelli e sorelle, di fronte a queste ombre, rallegra osservare come la filosofia che ispira l’organizzazione dello Stato indonesiano manifesti saggezza ed equilibrio. Faccio mie, a tale proposito, le parole pronunciate da San Giovanni Paolo II, proprio in questo Palazzo, in occasione della sua visita del 1989. Egli tra l’altro affermò: «Nel riconoscere la presenza di una legittima diversità, nel rispettare i diritti umani e politici di tutti i cittadini e nel promuovere la crescita dell’unità nazionale fondata sulla tolleranza e il rispetto per gli altri, voi gettate le fondamenta di quella società giusta e pacifica che tutti gli Indonesiani desiderano per se stessi e che vogliono trasmettere ai propri figli» (Discorso al Presidente della Repubblica indonesiana e alle Autorità, Jakarta, 9 ottobre 1989).
Anche se a volte, nel corso delle vicende storiche, i principi ispiratori sopra richiamati non sempre hanno avuto la forza di imporsi in ogni circostanza, essi rimangono validi e affidabili, come un faro che mostra la direzione da percorrere e avverte circa i più pericolosi errori da evitare.
Signor Presidente, Signore e Signori,
auspico che tutti, nel loro quotidiano agire, sappiano trarre ispirazione da questi principi e renderli effettivi nell’adempimento ordinario dei rispettivi doveri, perché opus justitiae pax, la pace è frutto della giustizia. L’armonia infatti si ottiene quando ciascuno si impegna non solo per i propri interessi e la propria visione, ma in vista del bene di tutti, per costruire ponti, per favorire accordi e sinergie, per unire le forze allo scopo di sconfiggere ogni forma di miseria morale, economica, sociale, e promuovere pace e concordia.
Cari fratelli e sorelle, continuate sulla vostra strada, che è così bella e così giusta. E così porto la benedizione a tutto il popolo: Dio benedica l’Indonesia con la pace, per un futuro ricco di speranza. Dio benedica tutti voi!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Ci sono cardinali, ci sono vescovi, ci sono preti, ci sono suore, ci sono le laiche, i laici, ci sono i bambini, ma tutti siamo fratelli. Non è più importante il Papa, il cardinale, il vescovo… Tutti fratelli. Ognuno ha il suo compito per far crescere il popolo di Dio. Capito?
Saluto il Cardinale, i Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, le consacrate e i consacrati, i seminaristi e i catechisti presenti. Ringrazio il Presidente della Conferenza Episcopale per le sue parole, e anche i fratelli e le sorelle che hanno condiviso con noi le loro testimonianze.
Come è stato ricordato, il motto scelto per questa Visita Apostolica è “Fede, fraternità, compassione”. Penso che siano tre virtù che esprimono bene sia il vostro cammino di Chiesa sia la vostra indole di popolo, etnicamente e culturalmente molto varia, ma al tempo stesso caratterizzata da una connaturale tensione all’unità e alla convivenza pacifica, come testimoniano i principi tradizionali della Pancasila. Vorrei riflettere insieme con voi su queste tre parole.
La prima è fede. L’Indonesia è un grande Paese, con enormi ricchezze naturali, a livello di flora, di fauna, di risorse energetiche e di materie prime, e così via. Una ricchezza così grande potrebbe facilmente trasformarsi, letta con superficialità, in motivo di orgoglio e di presunzione, ma, se considerata con mente e cuore aperti, può essere invece un richiamo a Dio, alla sua presenza nel cosmo, nella sua vita e nella nostra vita, come ci insegna la Sacra Scrittura (cfr Gen 1; Sir 42,15-43,33). È il Signore, infatti, che dona tutto questo. Non c’è un centimetro del meraviglioso territorio indonesiano, né un istante della vita di ognuno dei suoi milioni di abitanti che non sia dono del Signore, segno del suo amore gratuito e preveniente di Padre. E guardare a tutto questo con umili occhi di figli ci aiuta a credere, a riconoscerci piccoli e amati (cfr Sal 8) e a coltivare sentimenti di gratitudine e di responsabilità.
Ce ne ha parlato Agnes, a proposito del nostro rapporto con il creato e con i fratelli, specialmente i più bisognosi, da vivere con uno stile personale e comunitario improntato al rispetto, alla civiltà e all’umanità, con sobrietà e carità francescana.
Dopo la fede, la seconda parola del motto è fraternità. Una poetessa del novecento ha usato un’espressione molto bella per descrivere questo atteggiamento: ha scritto che essere fratelli vuol dire amarsi riconoscendosi «diversi come due gocce d’acqua». [1] Bello! Ed è proprio così. Non ci sono due gocce d’acqua uguali l’una all’altra, né ci sono due fratelli, nemmeno gemelli, completamente identici. Vivere la fraternità, allora, vuol dire accogliersi a vicenda riconoscendosi uguali nella diversità.
Anche questo è un valore caro alla tradizione della Chiesa indonesiana, che si manifesta nell’apertura con cui essa si relaziona alle varie realtà che la compongono e la circondano, a livello culturale, etnico, sociale e religioso, valorizzando l’apporto di tutti e donando generosamente il suo in ogni contesto. Questo, fratelli e sorelle, è importante, perché annunciare il Vangelo non vuol dire imporre o contrapporre la propria fede a quella degli altri, non vuol dire fare proselitismo, vuol dire donare e condividere la gioia dell’incontro con Cristo (cfr 1 Pt 3,15-17), sempre con grande rispetto e affetto fraterno per chiunque. E in questo vi invito a mantenervi sempre così: aperti e amici di tutti – quell’espressione mi piace tanto: “mano nella mano”, andare così, come ha detto don Maxi –, profeti di comunione, in un mondo dove sembra invece stia crescendo sempre più la tendenza a dividersi, imporsi e provocarsi a vicenda (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 67). E su questo voglio dirvi una cosa: voi sapete chi è la persona che nel mondo fa le più grandi divisioni? Lo sapete chi è? Il grande divisore, che sempre divide, divide… Gesù unisce e questo divide. È il diavolo. State attenti!
È importante cercare di arrivare a tutti, come ci ha ricordato Suor Rina, con l’auspicio di poter tradurre in Bahasa Indonesia, oltre ai testi della Parola di Dio, anche gli insegnamenti della Chiesa, per renderli accessibili a più persone possibile. E lo ha evidenziato anche Nicholas, descrivendo la missione del catechista con l’immagine di un “ponte” che unisce. Questo mi ha colpito, e mi ha fatto pensare allo spettacolo meraviglioso, nel grande arcipelago indonesiano, di migliaia di “ponti del cuore” che uniscono tutte le isole, e ancora di più a milioni di tali “ponti” che uniscono tutte le persone che vi abitano! Ecco un’altra bella immagine della fraternità: un ricamo immenso di fili d’amore che attraversano il mare, superano le barriere e abbracciano ogni diversità, facendo di tutti «un cuore solo e un’anima sola» (cfr At 4,32). Il linguaggio del cuore, non dimenticate!
E veniamo alla terza parola: compassione, che è molto legata alla fraternità. Compassione vuol dire patire con l’altro, condividere i sentimenti: è una bella parola! Come sappiamo, infatti, la compassione non consiste nel dispensare elemosine a fratelli e sorelle bisognosi guardandoli dall’alto in basso, guardandoli dalle proprie sicurezze e dai propri privilegi, ma al contrario, compassione significa farci vicini gli uni agli altri, spogliandoci di tutto ciò che può impedirci di chinarci per entrare davvero in contatto con chi sta a terra, e così sollevarlo e ridargli speranza (cfr Lett. enc. Fratelli tutti, 70). E questo è importante: toccare la povertà. Quando io confesso, domando sempre alle persone adulte: “Tu fai elemosina?”, e mi dicono di sì, generalmente, perché è gente buona. Ma la seconda domanda è: “Tu, quando fai l’elemosina, tocchi la mano del mendicante? Guardi nei suoi occhi? O gli butti la moneta da lontano per non toccarlo? Questa è una cosa che dobbiamo imparare tutti: la compassione significa soffrire, patire, accompagnare nei sentimenti chi sta soffrendo e abbracciarlo, accompagnarlo. E non solo: vuol dire anche abbracciarne i sogni e desideri di riscatto e di giustizia, prendersene cura, farsene promotori e cooperatori, coinvolgendo anche altri, allargando la “rete” e i confini in un grande dinamismo espansivo di carità (cfr ivi, 203). E questo non vuol dire essere comunista, questo vuol dire carità, vuol dire amore.
C’è chi ha paura della compassione perché la considera una debolezza – soffrire con l’altro una debolezza – ed esalta invece, come se fosse una virtù, la scaltrezza di chi fa i propri interessi mantenendosi a distanza da tutti, non lasciandosi “toccare” da niente e da nessuno, pensando così di essere più lucido e libero nel raggiungere i propri scopi. Purtroppo io ricordo una persona molto ricca, ricchissima, a Buenos Aires, ma che aveva il vizio di prendere, prendere, prendere, sempre più soldi. È morto e ha lasciato un’eredità enorme. Sapete quali erano le battute che faceva la gente? “Poveretto, non hanno potuto chiudere la bara!”. Voleva prendersi tutto e non ha preso niente. Fa ridere, ma non dimenticate una cosa: il diavolo entra dalle tasche, sempre! È vero. Il fatto di avere le ricchezze come sicurezza è un modo falso di guardare alla realtà. Ciò che manda avanti il mondo non sono i calcoli di interesse – che finiscono in genere col distruggere il creato e dividere le comunità – ma la carità che si dona. Questo porta avanti: la carità che si dona. E la compassione non offusca la visione reale della vita, anzi, ci fa vedere meglio le cose, nella luce dell’amore, cioè ci fa vedere meglio le cose con gli occhi del cuore. E vorrei ripeterlo, per favore, state attenti, non dimenticate: il diavolo entra dalle tasche!
Il portale di questa Cattedrale, nella sua architettura, mi sembra riassuma molto bene quanto abbiamo detto, in chiave mariana. Esso infatti è sorretto, al centro dell’arco a sesto acuto, da una colonna sulla quale è posta una statua della Vergine Maria. Ci mostra così la Madre di Dio prima di tutto come modello di fede, mentre simbolicamente sostiene, col suo piccolo “sì” (cfr Lc 1,38), tutto l’edificio della Chiesa. Il suo corpo fragile, appoggiato alla colonna, alla roccia che è Cristo, sembra infatti portare con Lui su di sé il peso di tutta la costruzione, come a dire che essa, opera del lavoro e dell’ingegno dell’uomo, non può sostenersi da sola. Maria appare poi come immagine di fraternità, nel gesto di accogliere, in mezzo al portale principale, tutti coloro che vogliono entrare. È la madre che accoglie. E infine è anche icona di compassione, nel suo vigilare e proteggere il popolo di Dio che, con le gioie e i dolori, le fatiche e le speranze si raduna nella casa del Padre. È la madre della compassione.
Cari fratelli e sorelle, mi piace concludere questa conversazione riprendendo ciò che San Giovanni Paolo II, in visita qui alcuni decenni orsono, ha detto proprio rivolgendosi ai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose. Citava il versetto del Salmo: «Laetentur insulae multae» – «Gioiscano le isole tutte» (Sal 96,1) e invitava i suoi ascoltatori a realizzarlo, «rendendo testimonianza alla gioia della Risurrezione e dando la […] vita cosicché anche le isole più lontane possano “gioire” udendo il Vangelo, di cui voi siete veri predicatori, insegnanti e testimoni» (Incontro con i Vescovi, il clero e i religiosi dell’Indonesia, Jakarta, 10 ottobre 1989).
Anch’io vi rinnovo questa esortazione, e vi incoraggio a continuare la vostra missione forti nella fede, aperti a tutti nella fraternità e vicini a ciascuno nella compassione. Forti, aperti e vicini, con la fortezza della fede. L’apertura per accogliere tutti, tutti! Mi colpisce tanto quella parabola del Vangelo, quando gli invitati a nozze non hanno voluto venire e non sono venuti. Che cosa fa il Signore? Si amareggia? No, ha capito qualcosa quell’uomo e manda i suoi servi: “Andate agli incroci delle strade e portate tutti, tutti, tutti dentro. Tutti dentro, con questo stile tanto bello che è andare avanti con la fratellanza, con la compassione, con l’unità… Tutti. E penso a tante isole, tante isole… E il Signore dice alla gente buona, a voi: “Tutti, tutti” – “Ma, Signore, quello…” – “Tutti, tutti”. Anzi, il Signore dice: “buoni e cattivi”, tutti!
Anch’io vi rinnovo questa esortazione e vi incoraggio a continuare la vostra missione, forti nella fede, aperti a tutti nella fraternità e vicini a ciascuno nella compassione. Fede, fraternità e compassione. Tre parole che vi lascio, e voi dopo ci pensate. Fede, fraternità e compassione. Vi benedico, vi ringrazio per il tanto bene che fate ogni giorno in tutte queste belle isole! Prego per voi. Prego ma, per favore, vi chiedo di pregare per me. E state attenti a una cosa: pregate a favore, non contro! Grazie.
[1] W. Szymborska, “Nulla due volte accade”, in La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Milano, 2009, p. 45.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono felice di trovarmi qui, nella più grande Moschea dell’Asia, insieme a tutti voi. Saluto il Grande Imam e lo ringrazio per le parole che mi ha rivolto, ricordando che questo luogo di culto e di preghiera è anche “una grande casa per l’umanità”, in cui ciascuno può entrare per fermarsi con sé stesso, per dare spazio a quell’anelito di infinito che porta nel cuore, per cercare l’incontro con il divino e vivere la gioia dell’amicizia con gli altri.
Mi piace ricordare che questa Moschea è stata progettata dall’architetto Friedrich Silaban, che era cristiano e si aggiudicò la vittoria del concorso. Ciò attesta che, nella storia di questa Nazione e nella cultura che vi si respira, la Moschea, come anche gli altri luoghi di culto, sono spazi di dialogo, di rispetto reciproco, di armonica convivenza tra le religioni e le diverse sensibilità spirituali. Questo è un grande dono che ogni giorno siete chiamati a coltivare, perché l’esperienza religiosa sia punto di riferimento di una società fraterna e pacifica e mai motivo di chiusura e di scontro.
A tale proposito mi piace ricordare la costruzione di un tunnel sotterraneo – il “tunnel dell’amicizia” – che collega la Moschea Istiqlal e la Cattedrale di Santa Maria dell’Assunzione. Si tratta di un segno eloquente, che permette a questi due grandi luoghi di culto di essere non soltanto l’uno “di fronte” all’altro, ma anche l’uno “collegato” all’altro. Questo passaggio infatti permette un incontro, un dialogo, una reale possibilità di «scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, […] di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 87). Vi incoraggio a proseguire su questa strada: che tutti, tutti insieme, ciascuno coltivando la propria spiritualità e praticando la propria religione, possiamo camminare alla ricerca di Dio e contribuire a costruire società aperte, fondate sul rispetto reciproco e sull’amore vicendevole, capaci di isolare le rigidità, i fondamentalismi e gli estremismi, che sono sempre pericolosi e mai giustificabili.
Non si tratta soltanto di una reciproca cortesia, di qualcosa di formale, no! Si tratta invece di un comune cammino di amicizia che avete iniziato da tempo, sostenuti da chi nel Paese ha avuto responsabilità civili e politiche, incoraggiato dai diversi leader religiosi, ma che è stato possibile soprattutto per la bella disposizione d’animo del popolo indonesiano, per la vostra apertura interiore, per l’accoglienza che sapete offrirvi reciprocamente, per la capacità che avete di armonizzare le diversità.
In questa prospettiva, simboleggiata dal tunnel sotterraneo, vorrei lasciarvi due consegne per incoraggiare il cammino dell’unità e dell’armonia che già avete intrapreso.
La prima è: guardare sempre in profondità, perché solo lì si può trovare ciò che unisce al di là delle differenze. Infatti, mentre in superficie ci sono gli spazi della Moschea e della Cattedrale, ben definiti e frequentati dai rispettivi fedeli, sotto terra, lungo il tunnel, quelle stesse persone diverse si incontrano e possono accedere al mondo religioso dell’altro. Questa immagine ci ricorda una cosa importante: che gli aspetti visibili delle religioni – i riti, le pratiche e così via – sono un patrimonio tradizionale che va tutelato e rispettato; ma ciò che sta “sotto”, quello che scorre in modo sotterraneo, proprio come il “tunnel dell’amicizia”, potremmo dire la radice comune a tutte le sensibilità religiose è una sola: la ricerca dell’incontro con il divino, la sete di infinito che l’Altissimo ha posto nel nostro cuore, la ricerca di una gioia più grande e di una vita più forte di ogni morte, che anima il viaggio della nostra vita e ci spinge a uscire dal nostro io per andare incontro a Dio. Ecco, ricordiamoci questo: guardando in profondità, cogliendo ciò che scorre nell’intimo della nostra vita, il desiderio di pienezza che abita il profondo del nostro cuore, noi ci scopriamo tutti fratelli, tutti pellegrini, tutti in cammino verso Dio, al di là di ciò che ci differenzia.
Il secondo invito è: avere cura dei legami. Il tunnel è stato costruito da una parte all’altra per creare un collegamento tra due luoghi diversi e distanti. Questo fa il passaggio sotterraneo: collega, cioè crea un legame. A volte noi pensiamo che l’incontro tra le religioni sia una questione che riguarda il cercare a tutti i costi dei punti in comune tra le diverse dottrine e professioni religiose. In realtà, può succedere che un approccio del genere finisca per dividerci, perché le dottrine e i dogmi di ogni esperienza religiosa sono diversi. Quello che realmente ci avvicina è creare un collegamento tra le nostre diversità, avere cura di coltivare legami di amicizia, di attenzione, di reciprocità. Sono relazioni in cui ciascuno si apre all’altro, in cui ci impegniamo a ricercare insieme la verità imparando dalla tradizione religiosa dell’altro; a venirci incontro nelle necessità umane e spirituali. Sono legami che ci permettono di lavorare insieme, di marciare uniti nel perseguire qualche obiettivo, nella difesa della dignità dell’uomo, nella lotta alla povertà, nella promozione della pace. L’unità nasce dai vincoli personali di amicizia, dal rispetto reciproco, dalla difesa vicendevole degli spazi e delle idee altrui. Che possiate sempre avere cura di questo!
Cari fratelli e sorelle, “promuovere l’armonia religiosa per il bene dell’umanità” è l’ispirazione che siamo chiamati a seguire e che dà anche il titolo alla Dichiarazione congiunta preparata per questa occasione. In essa assumiamo con responsabilità le gravi e talvolta drammatiche crisi che minacciano il futuro dell’umanità, in particolare le guerre e i conflitti, purtroppo alimentati anche dalle strumentalizzazioni religiose, ma anche la crisi ambientale, diventata un ostacolo per la crescita e la convivenza dei popoli. E davanti a questo scenario è importante che i valori comuni a tutte le tradizioni religiose siano promossi e rafforzati, aiutando la società a «sconfiggere la cultura della violenza e dell’indifferenza» (Dichiarazione congiunta di Istiqlal) e a promuovere la riconciliazione e la pace.
Vi ringrazio per questo cammino comune che portate avanti. L’Indonesia è un grande Paese, un mosaico di culture, di etnie e tradizioni religiose, una ricchissima diversità che si rispecchia anche nella varietà dell’ecosistema e dell’ambiente circostante. E se è vero che ospitate la più grande miniera d’oro del mondo, sappiate che il tesoro più prezioso è la volontà che le differenze non diventino motivo di conflitto ma si armonizzino nella concordia e nel rispetto reciproco. Non smarrite questo dono! Non impoveritevi mai di questa ricchezza così grande, anzi, coltivatela e trasmettetela soprattutto ai più giovani. Che nessuno ceda al fascino dell’integralismo e della violenza, che tutti siano invece affascinati dal sogno di una società e di un’umanità libera, fraterna e pacifica!
Grazie per il vostro sorriso gentile, che sempre splende sui vostri volti ed è segno della vostra bellezza e della vostra apertura interiore. Dio vi conceda questo dono. Con il suo aiuto e la sua benedizione andate avanti, Bhinneka Tunggal Ika, uniti nella diversità. Grazie!
Incontro con gli assisiti dalle realtà caricative
Carissimi fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono molto contento di incontrarvi. Saluto tutti voi, in particolare il presidente della Conferenza episcopale indonesiana, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto. Ringrazio anche Mimi e Andrew per ciò che hanno condiviso. È molto bello che i vescovi indonesiani abbiano scelto di celebrare i 100 anni della loro Conferenza nazionale con voi. Grazie, grazie! Grazie a voi per questa scelta. Grazie, Presidente! Si vede che il tuo spirito certosino ci aiuta a fare queste cose.
Voi siete piccole stelle luminose nel cielo di questo arcipelago, le membra più preziose di questa Chiesa, i suoi “tesori”, come fin dai primi secoli del cristianesimo insegnava il diacono martire San Lorenzo. E in proposito voglio sottolineare che condivido pienamente ciò che ha detto Mimi: Dio ha creato gli esseri umani con capacità uniche per arricchire la diversità del nostro mondo – sei stata brava, Mimi, grazie! –; e lei stessa ce lo ha dimostrato parlandoci in modo meraviglioso di Gesù, “nostro faro di speranza”. Grazie per questo!
Affrontare insieme le difficoltà, fare tutti del nostro meglio portando ognuno il proprio contributo irripetibile, ci arricchisce e ci aiuta a scoprire giorno per giorno quanto vale il nostro stare insieme, nel mondo, nella Chiesa, in famiglia, come ci ha ricordato Andrew, al quale facciamo anche i complimenti per la sua partecipazione ai Giochi Paralimpici: bravo! Facciamo un bell’applauso ad Andrew. E facciamone uno anche a tutti noi, chiamati a diventare insieme campioni dell’amore nelle grandi olimpiadi della vita. Un applauso a tutti noi!
Carissimi, tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri, e questo non è un male. Ci aiuta, infatti, a capire sempre meglio che l’amore è la cosa più importante della nostra esistenza (cfr 1 Cor 13,13), ad accorgerci di quante persone buone ci sono attorno a noi. Ci ricorda, poi, quanto il Signore ci vuole bene, a tutti, al di là di qualsiasi limite e difficoltà. Ciascuno di noi è unico ai suoi occhi, agli occhi del Signore, e Lui non si dimentica mai di noi, mai. Ricordiamolo, per tenere viva la nostra speranza e per impegnarci a nostra volta, senza mai stancarci, a fare della nostra vita un dono per gli altri (cfr Gv 15,12-13).
Grazie! Grazie per questo incontro e per quello che voi fate, tutti insieme. Vi benedico e prego per voi. E per favore, anche voi non dimenticatevi di pregare per me. Grazie. Oggi vorrei fare gli auguri a quella mamma che non è potuta venire, è a letto, ma oggi compie 87 anni. Le mandiamo gli auguri, da qui, tutti insieme.
L’incontro con Gesù ci chiama a vivere due atteggiamenti fondamentali che ci permettono di diventare suoi discepoli. Il primo atteggiamento: ascoltare la Parola; il secondo: vivere la Parola. Prima ascoltare, perché tutto nasce dall’ascolto, dall’aprirsi a Lui, dall’accogliere il dono prezioso della sua amicizia. Ma poi è importante vivere la Parola ricevuta, per non essere ascoltatori vani che illudono sé stessi (cfr Gc 1,22); per non rischiare di ascoltare soltanto con le orecchie senza che il seme della Parola scenda nel cuore e cambi il nostro modo di pensare, di sentire, di agire, e questo non è buono. La Parola che ci viene donata e che ascoltiamo chiede di diventare vita, di trasformare la vita, di incarnarsi nella nostra vita.
Questi due atteggiamenti essenziali, ascoltare la Parola e vivere la Parola, possiamo contemplarli nel Vangelo che è stato appena proclamato.
Anzitutto, ascoltare la Parola. L’Evangelista racconta che tanta gente accorreva da Gesù e «la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio» (Lc 5,1). Cercano Lui, hanno fame e sete della Parola del Signore e la sentono risuonare nelle parole di Gesù. Dunque, questa scena, che si ripete tante volte nel Vangelo, ci dice che il cuore dell’uomo è sempre alla ricerca di una verità capace di sfamare e saziare il suo desiderio di felicità; che non possiamo accontentarci delle sole parole umane, dei criteri di questo mondo, dei giudizi terreni; sempre abbiamo bisogno di una luce che venga dall’alto a illuminare i nostri passi, di un’acqua viva che possa dissetare i deserti dell’anima, di una consolazione che non deluda perché proviene dal cielo e non dalle effimere cose di quaggiù. In mezzo allo stordimento e alla vanità delle parole umane, fratelli e sorelle, c’è bisogno della Parola di Dio, l’unica che è bussola per il nostro cammino, l’unica che tra tante ferite e smarrimenti è in grado di ricondurci al significato autentico della vita.
Fratelli e sorelle, non dimentichiamo questo: il primo compito del discepolo – noi tutti siamo discepoli! – non è quello di indossare l’abito di una religiosità esteriormente perfetta, di fare cose straordinarie o impegnarsi in imprese grandiose. No. Il primo compito, il primo passo, invece, consiste nel sapersi mettere in ascolto dell’unica Parola che salva, quella di Gesù, come possiamo vedere nell’episodio evangelico, quando il Maestro sale sulla barca di Pietro per distanziarsi un po’ dalla riva e così predicare meglio alla gente (cfr Lc 5,3). La nostra vita di fede inizia quando umilmente accogliamo Gesù sulla barca della nostra esistenza, gli facciamo spazio, ci mettiamo in ascolto della sua Parola e da essa ci facciamo interrogare, scuotere e cambiare.
Allo stesso tempo, fratelli e sorelle, la Parola del Signore chiede di incarnarsi concretamente in noi: siamo perciò chiamati a vivere la Parola. Ripetere soltanto la Parola, senza viverla, ci fa diventare come pappagalli: sì, la dico, ma non si capisce, non si vive. Infatti, dopo che ha finito di predicare alle folle dalla barca, Gesù si rivolge a Pietro e lo esorta a rischiare scommettendo su quella Parola: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca» (v. 4). La Parola del Signore non può restare una bella idea astratta o suscitare soltanto l’emozione di un momento; essa ci chiede di cambiare il nostro sguardo, di lasciarci trasformare il cuore a immagine di quello di Cristo; la Parola ci chiama a gettare con coraggio le reti del Vangelo in mezzo al mare del mondo, “correndo il rischio”, sì, correndo il rischio di vivere l’amore che Lui ci ha insegnato e ha vissuto per primo. Anche a noi, fratelli e sorelle, il Signore, con la forza bruciante della sua Parola, chiede di prendere il largo, di staccarci dalle rive stagnanti delle cattive abitudini, delle paure e delle mediocrità, per osare una nuova vita. La mediocrità piace al diavolo! Perché entra in noi e ci rovina.
Certo, gli ostacoli e le scuse per dire di no non mancano mai; ma guardiamo ancora all’atteggiamento di Pietro: veniva da una notte difficile, in cui non aveva pescato nulla, era arrabbiato, era stanco, era deluso; eppure, invece di rimanere paralizzato in quel vuoto e bloccato dal proprio fallimento, dice: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (v. 5). Sulla tua parola getterò le reti. E allora accade l’inaudito, il miracolo di una barca che si riempie di pesci fino quasi ad affondare (cfr v. 7).
Fratelli e sorelle, dinanzi ai tanti compiti della nostra vita quotidiana; davanti alla chiamata, che tutti avvertiamo, a costruire una società più giusta, ad andare avanti sulla via della pace e del dialogo – quella via che qui in Indonesia da tempo è stata tracciata –, possiamo sentirci a volte inadeguati, sentire il peso di tanto impegno che non sempre porta i frutti sperati oppure dei nostri errori che sembrano arrestare il cammino. Ma con la stessa umiltà e la stessa fede di Pietro, anche a noi è chiesto di non restare prigionieri dei nostri fallimenti. Questa è una cosa molto brutta, perché i fallimenti ci prendono e noi possiamo diventare prigionieri dei fallimenti. No, per favore: non restiamo prigionieri dei nostri fallimenti; invece di rimanere con lo sguardo fisso sulle nostre reti vuote, guardiamo a Gesù e fidiamoci di Lui. Non guardare le tue reti vuote, guarda Gesù, guarda Gesù! Lui ti farà camminare, Lui ti farà andare bene, fidati di Gesù! Sempre possiamo rischiare di prendere il largo e gettare nuovamente le reti, anche quando abbiamo attraversato la notte del fallimento, il tempo della delusione in cui non abbiamo preso nulla. Adesso farò un piccolo momento di silenzio e ognuno di voi pensi ai propri fallimenti. [pausa] E guardando questi fallimenti, rischiamo, andiamo avanti con il coraggio della Parola di Dio.
Santa Teresa di Calcutta, della quale oggi celebriamo la memoria e che instancabilmente si è presa cura dei più poveri e si è fatta promotrice di pace e di dialogo, diceva: “Quando non abbiamo nulla da dare, diamogli quel nulla. E ricorda: anche se non dovessi raccogliere niente, non stancarti mai di seminare”. Fratello e sorella, non stancarti mai di seminare, perché questo è vita.
Questo, fratelli e sorelle, vorrei dire anche a voi, a questa Nazione, a questo meraviglioso e variegato arcipelago: non stancatevi di prendere il largo, non stancatevi di gettare le reti, non stancatevi di sognare, non stancatevi di sognare e costruire ancora una civiltà della pace! Osate sempre il sogno della fraternità, che è un vero tesoro fra voi. Sulla Parola del Signore vi incoraggio a seminare amore, a percorrere fiduciosi la strada del dialogo, a praticare ancora la vostra bontà e gentilezza col sorriso tipico che vi contraddistingue. Vi hanno detto che voi siete un popolo sorridente? Non perdete il sorriso, per favore, e andate avanti! E siate costruttori di pace. Siate costruttori di speranza!
Questo è il desiderio espresso di recente dai Vescovi del Paese, ed è l’augurio che anch’io vorrei rivolgere a tutto il popolo indonesiano: camminare insieme per il bene della società e della Chiesa! Siate costruttori di speranza. Sentite bene: siate costruttori di speranza! Quella speranza del Vangelo che non delude (cfr Rm 5,5), non delude mai, e che ci apre alla gioia senza fine. Grazie tante.
PAPUA NUOVA GUINEA
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Signor Governatore Generale,
Signor Primo Ministro,
distinti Rappresentanti della società civile,
Signori Ambasciatori,
Signore e signori!
Sono lieto di essere oggi qui con voi e di poter visitare la Papua Nuova Guinea. Ringrazio il Governatore Generale per le sue cordiali parole di benvenuto e ringrazio tutti voi per la calorosa accoglienza. Rivolgo il mio saluto all’intero popolo del Paese, augurandogli pace e prosperità. E fin d’ora esprimo la mia gratitudine alle Autorità per l’aiuto che offrono a molte attività della Chiesa nello spirito di mutua collaborazione per il bene comune.
Nella vostra Patria, un arcipelago con centinaia di isole, si parlano più di ottocento lingue, in corrispondenza ad altrettanti gruppi etnici: questo evidenzia una straordinaria ricchezza culturale e umana; e vi confesso che si tratta di un aspetto che mi affascina molto, anche sul piano spirituale, perché immagino che questa enorme varietà sia una sfida per lo Spirito Santo, che crea l’armonia delle differenze!
Il vostro Paese, poi, oltre che di isole e di idiomi, è ricco anche di risorse della terra e delle acque. Questi beni sono destinati da Dio all’intera collettività e, anche se per il loro sfruttamento è necessario coinvolgere più vaste competenze e grandi imprese internazionali, è giusto che nella distribuzione dei proventi e nell’impiego della mano d’opera si tengano nel dovuto conto le esigenze delle popolazioni locali, in modo da produrre un effettivo miglioramento delle loro condizioni di vita.
Questa ricchezza ambientale e culturale rappresenta al tempo stesso una grande responsabilità, perché impegna tutti, i governanti insieme ai cittadini, a favorire ogni iniziativa necessaria a valorizzare le risorse naturali e umane, in modo tale da dar vita a uno sviluppo sostenibile ed equo, che promuova il benessere di tutti, nessuno escluso, attraverso programmi concretamente eseguibili e mediante la cooperazione internazionale, nel mutuo rispetto e con accordi vantaggiosi per tutti i contraenti.
Condizione necessaria per ottenere tali risultati duraturi è la stabilità delle istituzioni, la quale è favorita dalla concordia su alcuni punti essenziali tra le differenti concezioni e sensibilità presenti nella società. Accrescere la solidità istituzionale e costruire il consenso sulle scelte fondamentali rappresenta infatti un requisito indispensabile per uno sviluppo integrale e solidale. Esso richiede inoltre una visione di lungo periodo e un clima di collaborazione tra tutti, pur nella distinzione dei ruoli e nella differenza delle opinioni.
Auspico, in particolare, che cessino le violenze tribali che causano purtroppo molte vittime, non permettono di vivere in pace e ostacolano lo sviluppo. Faccio pertanto appello al senso di responsabilità di tutti, affinché si interrompa la spirale di violenza e si imbocchi invece risolutamente la via che conduce a una fruttuosa collaborazione, a vantaggio dell’intero popolo del Paese.
Nel clima generato da questi atteggiamenti potrà trovare un assetto definitivo anche la questione dello status dell’isola di Bougainville, evitando il riaccendersi di antiche tensioni.
Consolidando la concordia sui fondamenti della società civile, e con la disponibilità di ciascuno a sacrificare qualcosa delle proprie posizioni a vantaggio del bene di tutti, si potranno mettere in moto le forze necessarie a migliorare le infrastrutture, ad affrontare i bisogni sanitari ed educativi della popolazione e ad accrescere le opportunità di lavoro dignitoso.
Tuttavia, anche se a volte ce ne dimentichiamo, l’essere umano ha bisogno, oltre che del necessario per vivere, di una grande speranza nel cuore, che lo faccia vivere bene, gli dia il gusto e il coraggio di intraprendere progetti di ampio respiro e gli consenta di elevare lo sguardo verso l’alto e verso vasti orizzonti.
L’abbondanza dei beni materiali, senza questo respiro dell’anima, non basta a dar vita a una società vitale e serena, laboriosa e gioiosa, anzi, la fa ripiegare su sé stessa. L’aridità del cuore le fa perdere l’orientamento e dimenticare la giusta scala dei valori; le toglie slancio e la blocca fino al punto – come accade in alcune società opulente – che essa smarrisce la speranza nell’avvenire e non trova più ragioni per trasmettere la vita.
Per questo è necessario orientare lo spirito verso realtà più grandi; occorre che i comportamenti siano sostenuti da una forza interiore, che li metta al riparo dal rischio di corrompersi e di perdere lungo la strada la capacità di riconoscere il significato del proprio operare e di eseguirlo con dedizione e costanza.
I valori dello spirito influenzano in notevole misura la costruzione della città terrena e di tutte le realtà temporali, infondono un’anima – per così dire –, ispirano e irrobustiscono ogni progetto. Lo ricordano anche il logo e il motto di questa mia visita in Papua Nuova Guinea. Il motto dice tutto con una sola parola: “Pray” – “Pregare”. Forse qualcuno, troppo osservante del “politicamente corretto”, potrà stupirsi di questa scelta; ma in realtà si sbaglia, perché un popolo che prega ha un futuro, attingendo forza e speranza dall’alto. E anche l’emblema dell’uccello del paradiso, nel logo del viaggio, è simbolo di libertà: di quella libertà che niente e nessuno può soffocare perché è interiore, ed è custodita da Dio che è amore e vuole che i suoi figli siano liberi.
Per tutti coloro che si professano cristiani – la grande maggioranza del vostro popolo – auspico vivamente che la fede non si riduca mai all’osservanza di riti e di precetti, ma che consista nell’amore, nell’amare Gesù Cristo e seguirlo, e che possa farsi cultura vissuta, ispirando le menti e le azioni e diventando un faro di luce che illumina la rotta. In questo modo, la fede potrà aiutare anche la società nel suo insieme a crescere e a individuare buone ed efficaci soluzioni alle sue grandi sfide.
Illustri Signore e Signori, sono venuto qui per incoraggiare i fedeli cattolici a proseguire il loro cammino e per confermarli nella professione della fede; sono venuto a gioire con loro per i progressi che stanno facendo e a condividere le loro difficoltà; sono qui, come direbbe San Paolo, quale «collaboratore della vostra gioia» (2 Cor 1,24).
Mi congratulo con le comunità cristiane per le opere di carità che svolgono nel Paese, e le esorto a cercare sempre la collaborazione con le istituzioni pubbliche e con tutte le persone di buona volontà, a partire dai fratelli appartenenti ad altre confessioni cristiane e ad altre religioni, a favore del bene comune di tutti i cittadini della Papua Nuova Guinea.
La fulgida testimonianza del Beato Pietro To Rot – come affermò San Giovanni Paolo II durante la Messa per la Beatificazione – “insegna a mettersi generosamente al servizio degli altri per garantire che la società si sviluppi in onestà e giustizia, in armonia e solidarietà” (cfr Omelia, Port Moresby, 17 gennaio 1995). Il suo esempio, insieme a quelli del Beato Giovanni Mazzucconi, del PIME e di tutti i missionari che hanno annunciato il Vangelo in questa vostra terra, vi doni forza e speranza.
San Michele Arcangelo, Patrono della Papua Nuova Guinea, vegli sempre su di voi e vi difenda da ogni pericolo, protegga le Autorità e tutte le genti di questo Paese.
Eccellenza, Lei ha parlato delle donne. Non dimentichiamo che sono loro a portare avanti un Paese. Le donne hanno la forza di dare vita, di costruire, di far crescere un Paese. Non dimentichiamo le donne, che sono al primo posto dello sviluppo umano e spirituale.
Eccellenza, Signore e Signori!
Inizio con gioia la mia visita in mezzo a voi. Vi ringrazio di avermi aperto le porte del vostro bel Paese, così lontano da Roma eppure così vicino al cuore della Chiesa cattolica. Perché nel cuore della Chiesa c’è l’amore di Gesù Cristo, che sulla croce ha abbracciato tutti gli uomini. Il suo Vangelo è per tutti i popoli, non è legato a nessun potere terreno, ma è libero per fecondare ogni cultura e far crescere nel mondo il Regno di Dio. Il Vangelo si incultura e le culture vanno evangelizzate. Possa questo Regno di Dio trovare piena accoglienza in questa terra, così che tutte le popolazioni della Papua Nuova Guinea, con la varietà delle loro tradizioni, vivano insieme in armonia e diano al mondo un segno di fraternità. Grazie tante.
Cari fratelli e sorelle, buonasera!
Vi saluto tutti con affetto: vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi e catechisti. Ringrazio il Presidente della Conferenza Episcopale per le sue parole, come pure James, Grace, Suor Lorena e don Emmanuel per le loro testimonianze.
Sono contento di stare qui, in questa bella chiesa salesiana: i salesiani sanno fare bene le cose. Complimenti. Questo è un Santuario diocesano dedicato a Maria Aiuto dei Cristiani: Maria Ausiliatrice – io sono stato battezzato nella parrocchia di Maria Ausiliatrice a Buenos Aires – un titolo tanto caro a San Giovanni Bosco; Maria Helpim, come con affetto la invocate qui. Quando, nel 1844, la Madonna ispirò a don Bosco di costruire a Torino una chiesa in suo onore, gli fece questa promessa: “Qui è la mia casa, da qui la mia gloria”. Maria gli promise che, se avesse avuto il coraggio di cominciare la costruzione di quel Santuario, grandi grazie ne sarebbero seguite. E così è successo: la chiesa è stata costruita, ed è meravigliosa – ma è più bella quella di Buenos Aires! – ed è diventata centro di irradiazione del Vangelo, di formazione dei giovani e di carità, è diventata punto di riferimento per tanta gente.
Così il bel Santuario in cui ci troviamo, che si ispira a quella storia, può essere un simbolo anche per noi, particolarmente in riferimento a tre aspetti del nostro cammino cristiano e missionario, come hanno sottolineato le testimonianze che abbiamo ascoltato: il coraggio di cominciare, la bellezza di esserci e la speranza di crescere.
Primo: il coraggio di cominciare. I costruttori di questa chiesa hanno iniziato l’impresa facendo un grande atto di fede, che ha portato i suoi frutti, e che però è stato possibile solo grazie a tanti altri inizi coraggiosi, di chi li ha preceduti. I missionari sono arrivati in questo Paese alla metà del XIX secolo e i primi passi del loro lavoro non sono stati facili, anzi alcuni tentativi sono falliti. Ma loro non si sono arresi: con grande fede e con zelo apostolico hanno continuato a predicare il Vangelo e a servire i fratelli, ricominciando molte volte dove non avevano avuto successo, con tanti sacrifici.
Ce lo ricordano queste vetrate – che adesso non si vedono perché è notte –, attraverso le quali la luce del sole ci sorride nei volti dei Santi e Beati: donne e uomini di ogni provenienza, legati alla storia della vostra comunità: Pietro Chanel, protomartire dell’Oceania, Giovanni Mazzucconi e Pietro To Rot, martiri della Nuova Guinea, e poi Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo II, Mary McKillop, Maria Goretti, Laura Vicuña, Zeffirino Namuncurà, Francesco di Sales, Giovanni Bosco, Maria Domenica Mazzarello. Tutti fratelli e sorelle che, in modi e tempi diversi, cominciando e ricominciando tante volte opere e cammini, hanno contribuito a portare il Vangelo tra voi, con una variopinta ricchezza di carismi, animati dallo stesso Spirito e dalla stessa carità di Cristo (cfr 1 Cor 12,4-7; 2 Cor 5,14). È grazie a loro, alle loro “partenze” e “ripartenze” – i missionari sono donne e uomini di “partenza”, e se tornano, di “ripartenza”: questa è la vita del missionario, partire e ripartire –, è grazie a loro che siamo qui e che oggi, nonostante le sfide che pure non mancano, continuiamo ad andare avanti, senza paura – non so se sempre –, sapendo che non siamo soli, che è il Signore che agisce, in noi e con noi (cfr Gal 2,20), rendendoci, come loro, strumenti della sua grazia (cfr 1 Pt 4,10). Questa è la nostra vocazione: essere strumenti.
E in proposito, anche alla luce di ciò che abbiamo sentito, vorrei raccomandarvi una via importante verso cui dirigere le vostre “partenze”: quella delle periferie di questo Paese. Penso alle persone appartenenti alle fasce più disagiate delle popolazioni urbane, come anche a quelle che vivono nelle zone più remote e abbandonate, dove a volte manca il necessario. E ancora penso a quelle emarginate e ferite, sia moralmente che fisicamente, dal pregiudizio e dalla superstizione, a volte fino a rischio della vita, come ci hanno ricordato James e Suor Lorena. A questi fratelli e sorelle la Chiesa desidera essere particolarmente vicina, perché in loro Gesù è presente in modo speciale (cfr Mt 25,31-40), e dove c’è Lui, il nostro capo, ci siamo anche noi, sue membra, appartenenti allo stesso corpo, «ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture» (Ef 4,16). E per favore, non dimenticatevi: vicinanza, vicinanza! Voi sapete che i tre atteggiamenti più belli sono la vicinanza, la compassione e la tenerezza. Se una consacrata o un consacrato, un prete, un vescovo, i diaconi non sono vicini, non sono compassionevoli e non sono teneri, non hanno lo Spirito di Gesù. Non dimenticate questo: vicinanza, compassione, tenerezza.
E questo ci porta al secondo aspetto: la bellezza di esserci. Possiamo vederla simboleggiata nelle conchiglie kina, con cui è ornato il presbiterio di questa chiesa, e che sono segno di prosperità. Esse ci ricordano che qui il tesoro più bello agli occhi del Padre siamo noi, stretti attorno a Gesù, sotto il manto di Maria, spiritualmente uniti a tutti i fratelli e le sorelle che il Signore ci ha affidato e che non possono essere qui, accesi dal desiderio che il mondo intero possa conoscere il Vangelo e condividerne con noi la forza e la luce.
James chiedeva come si fa a trasmettere ai giovani l’entusiasmo della missione. Non penso che ci siano “tecniche” per questo. Un modo collaudato, però, è proprio quello di coltivare e condividere con loro la nostra gioia di essere Chiesa (cfr Benedetto XVI, Omelia nella Messa di Inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007) casa accogliente fatta di pietre vive, scelte e preziose, poste dal Signore le une accanto alle altre e cementate dal suo amore (cfr 1 Pt 2,4-5). Così, come ci ha ricordato Grace, richiamando l’esperienza del Sinodo, stimandoci e rispettandoci a vicenda e mettendoci al servizio gli uni degli altri, possiamo mostrare a loro e a chiunque ci incontri quanto è bello seguire insieme Gesù e annunciare il suo Vangelo.
La bellezza di esserci, allora, non si sperimenta tanto in occasione dei grandi eventi e nei momenti di successo, quanto piuttosto nella fedeltà e nell’amore con cui ogni giorno ci si impegna a crescere insieme.
E così giungiamo al terzo e ultimo aspetto: la speranza di crescere. In questa Chiesa c’è un’interessante “catechesi in immagini” del passaggio del Mar Rosso, con le figure di Abramo, Isacco e Mosè: i Patriarchi resi fecondi dalla fede, che per aver creduto hanno ricevuto in dono una numerosa discendenza (cfr Gen 15,5; 26,3-5; Es 32,7-14). E questo è un segno importante, perché incoraggia anche noi, oggi, ad avere fiducia nella fecondità del nostro apostolato, continuando a gettare piccoli semi di bene nei solchi del mondo. Sembrano minuscoli, come un granello di senape, ma se ci fidiamo e non smettiamo di spargerli, per grazia di Dio germoglieranno, daranno un raccolto abbondante (cfr Mt 13,3-9) e produrranno alberi capaci di accogliere gli uccelli del cielo (cfr Mc 4,30-32). Lo dice San Paolo, quando ci ricorda che la crescita di ciò che noi seminiamo non è opera nostra, ma del Signore (cfr 1Cor 3,7), e lo insegna la Madre Chiesa, quando sottolinea che, pur attraverso i nostri sforzi, è Dio «a far sì che venga il suo regno sulla terra» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 42). Perciò noi continuiamo ad evangelizzare, pazientemente, senza lasciarci scoraggiare da difficoltà e incomprensioni, nemmeno quando queste si presentano là dove meno vorremmo incontrarle: in famiglia, ad esempio, come abbiamo sentito.
Cari fratelli e sorelle, ringraziamo insieme il Signore per come il Vangelo attecchisce e si diffonde in Papua Nuova Guinea e nelle Isole Salomone. Continuate così la vostra missione, come testimoni di coraggio, di bellezza e di speranza! E non dimenticate lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. Sempre avanti con questo stile del Signore! Vi ringrazio per quello che fate, vi benedico tutti di cuore e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me, perché ne ho bisogno, grazie!
La prima parola che oggi il Signore ci rivolge è: «Coraggio, non temete!» (Is 35,4). Il profeta Isaia lo dice a tutti coloro che sono smarriti di cuore. Egli in questo modo incoraggia il suo popolo e, pur in mezzo alle difficoltà e alle sofferenze, lo invita a levare lo sguardo in alto, verso un orizzonte di speranza e di futuro: Dio viene a salvarci, Egli verrà e, in quel giorno, «si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi» (Is 35,5).
Questa profezia si realizza in Gesù. Nel racconto di San Marco vengono messe in evidenza soprattutto due cose: la lontananza del sordomuto e la vicinanza di Gesù. La lontananza del sordomuto. Quest’uomo si trova in una zona geografica che, con il linguaggio di oggi, chiameremmo “periferia”. Il territorio della Decapoli si trova oltre il Giordano, lontano dal centro religioso che è Gerusalemme. Ma quell’uomo sordomuto vive anche un altro tipo di lontananza; egli è lontano da Dio, è lontano dagli uomini perché non ha la possibilità di comunicare: è sordo e quindi non può ascoltare gli altri, è muto e quindi non può parlare con gli altri. Quest’uomo è tagliato fuori dal mondo, è isolato, è prigioniero della sua sordità e del suo mutismo e, perciò, non può aprirsi agli altri per comunicare.
E allora possiamo leggere questa condizione di sordomuto anche in un altro senso, perché può accaderci di essere tagliati fuori dalla comunione e dell’amicizia con Dio e con i fratelli quando, più che le orecchie e la lingua, ad essere bloccato è il cuore. Ci sono una sordità interiore e un mutismo del cuore che dipendono da tutto ciò che ci chiude in noi stessi, ci chiude a Dio, ci chiude agli altri: l’egoismo, l’indifferenza, la paura di rischiare e di metterci in gioco, il risentimento, l’odio, e l’elenco potrebbe continuare. Tutto ciò ci allontana da Dio, ci allontana dai fratelli, e anche da noi stessi; e ci allontana dalla gioia di vivere.
A questa lontananza, fratelli e sorelle, Dio risponde con il contrario, con la vicinanza di Gesù. Nel suo Figlio, Dio vuole mostrare anzitutto questo: che Egli è il Dio vicino, il Dio compassionevole, che si prende cura della nostra vita, che supera tutte le distanze. E nel brano del Vangelo, infatti, vediamo Gesù che si reca in quei territori periferici, uscendo dalla Giudea per andare incontro ai pagani (cfr Mc 7,31).
Con la sua vicinanza, Gesù guarisce, guarisce il mutismo e la sordità dell’uomo: quando infatti ci sentiamo lontani, oppure scegliamo di tenerci a distanza – a distanza da Dio, a distanza dai fratelli, a distanza da chi è diverso da noi – allora ci chiudiamo, ci barrichiamo in noi stessi e finiamo per ruotare solo intorno al nostro io, sordi alla Parola di Dio e al grido del prossimo e perciò incapaci di parlare con Dio e col prossimo.
E voi, fratelli e sorelle, che abitate questa terra così lontana, forse avete l’immaginazione di essere separati, separati dal Signore, separati dagli uomini, e questo non va, no: voi siete uniti, uniti nello Spirito Santo, uniti nel Signore! E il Signore dice ad ognuno di voi: “Apriti!”. Questa è la cosa più importante: aprirci a Dio, aprirci ai fratelli, aprirci al Vangelo e farlo diventare la bussola della nostra vita.
Anche a voi oggi il Signore dice: “Coraggio, non temere, popolo papuano! Apriti! Apriti alla gioia del Vangelo, apriti all’incontro con Dio, apriti all’amore dei fratelli”. Che nessuno di noi rimanga sordo e muto dinanzi a questo invito. E in questo cammino vi accompagni il Beato Giovanni Mazzucconi: tra tanti disagi e ostilità, egli ha portato Cristo in mezzo a voi, perché nessuno restasse sordo dinanzi al gioioso Messaggio della salvezza, e a tutti si potesse sciogliere la lingua per cantare l’amore di Dio. Che sia così, oggi, anche per voi!
Cari fratelli e sorelle,
prima di concludere questa celebrazione, ci rivolgiamo alla Vergine Maria con la preghiera dell’Angelus. A lei affido il cammino della Chiesa in Papua Nuova Guinea e nelle Isole Salomone. Maria aiuto dei cristiani – Maria Helpim vi accompagni e vi protegga sempre: rafforzi l’unione delle famiglie, renda belli e coraggiosi i sogni dei giovani, sostenga e consoli gli anziani, conforti i malati e i sofferenti!
E da questa terra così benedetta dal Creatore, vorrei insieme a voi invocare, per intercessione di Maria Santissima, il dono della pace per tutti i popoli. In particolare, lo chiedo per questa grande regione del mondo tra Asia, Oceania e Oceano Pacifico. Pace, pace per le Nazioni e anche per il creato. No al riarmo e allo sfruttamento della casa comune! Sì all’incontro tra i popoli e le culture, sì all’armonia dell’uomo con le creature!
Maria Helpim, Regina della pace, aiutaci a convertirci ai disegni di Dio, che sono disegni di pace e di giustizia per la grande famiglia umana!
In questa domenica, in cui ricorre la festa liturgica della Natività di Maria, il nostro pensiero lo rivolgiamo al Santuario di Lourdes, che purtroppo è stato colpito da un’inondazione.
Incontro con i Fedeli della Diocesi di Vanimo
Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!
Ringrazio il Vescovo per le parole che mi ha rivolto. Saluto le Autorità, i sacerdoti, le religiose e i religiosi, i missionari, i catechisti, i giovani, i fedeli – alcuni venuti da molto lontano – e voi, carissimi bambini! Grazie a Maria Joseph, Steven, Suor Jaisha Joseph, David e Maria per quello che avete condiviso. Sono contento di incontrarvi in questa terra meravigliosa, terra giovane e missionaria!
Come abbiamo sentito, dalla metà del XIX secolo la missione qui non si è mai interrotta: religiose, religiosi, catechisti e missionari laici non hanno smesso di predicare la Parola di Dio e di offrire aiuto ai fratelli, nella cura pastorale, nell’istruzione, nell’assistenza sanitaria e in molti altri ambiti, affrontando non poche difficoltà, per essere per tutti strumento “di pace e di amore”, come ha detto Suor Jaisha Joseph.
Così le chiese, le scuole, gli ospedali e i centri missionari testimoniano attorno a noi che Cristo è venuto a portare salvezza a tutti, perché ciascuno fiorisca in tutta la sua bellezza per il bene comune (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 182).
Voi qui siete “esperti” di bellezza, perché siete circondati di bellezza! Vivete in una terra magnifica, ricca di una grande varietà di piante e di uccelli, in cui si resta a bocca aperta davanti ai colori, suoni e profumi, e allo spettacolo grandioso di una natura che esplode di vita, evocando l’immagine dell’Eden!
Ma questa ricchezza il Signore ve l’affida come un segno e uno strumento, perché viviate anche voi così, uniti in armonia con Lui e con i fratelli, rispettando la casa comune e custodendovi a vicenda (cfr Messaggio per la celebrazione della V Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del creato, 1° settembre 2019).
Guardandoci attorno, vediamo quanto è dolce lo scenario della natura. Ma rientrando in noi stessi, ci accorgiamo che c’è uno spettacolo ancora più bello: quello di ciò che cresce in noi quando ci amiamo a vicenda, come hanno testimoniato David e Maria, parlando del loro cammino di sposi, nel sacramento del Matrimonio. E la nostra missione è proprio questa: diffondere ovunque, attraverso l’amore di Dio e dei fratelli, la bellezza del Vangelo di Cristo (cfr Evangelii gaudium, 120)!
Abbiamo sentito come alcuni di voi, per farlo, affrontano lunghi viaggi, per raggiungere anche le comunità più lontane, a volte lasciando la propria casa, come ci ha detto Steven. Fanno una cosa bellissima, ed è importante che non siano lasciati soli, ma che tutta la comunità li sostenga, perché possano svolgere serenamente il loro mandato, specialmente quando devono conciliare le esigenze della missione con le responsabilità della famiglia.
C’è però anche un altro modo in cui possiamo aiutarli, ed è che ciascuno di noi promuova l’annuncio missionario là dove vive (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 23): a casa, a scuola, negli ambienti di lavoro, perché dappertutto, nelle foreste, nei villaggi e nelle città, alla bellezza dei panorami corrisponda la bellezza di una comunità in cui ci si vuole bene, come Gesù ci ha insegnato quando ci ha detto: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35; cfr Mt 22,35-40).
Formeremo così, sempre più, come una grande orchestra – che piace tanto a Maria Joseph, la nostra violinista – capace, con le sue note, di ricomporre le rivalità, di vincere le divisioni – personali, familiari e tribali –; di scacciare dal cuore delle persone la paura, la superstizione e la magia; di porre fine a comportamenti distruttivi come la violenza, l’infedeltà, lo sfruttamento, l’uso di alcool e droghe: mali che imprigionano e rendono infelici tanti fratelli e sorelle, anche qui.
Ricordiamolo: l’amore è più forte di tutto questo e la sua bellezza può guarire il mondo, perché ha le sue radici in Dio (cfr Catechesi, 9 settembre 2020). Diffondiamolo, perciò, e difendiamolo, anche quando il farlo può costarci qualche incomprensione, qualche opposizione. Ce lo ha testimoniato, con le parole e con l’esempio, il Beato Pietro To Rot – sposo, padre, catechista e martire di questa terra –, che ha donato la sua vita proprio per difendere l’unità della famiglia di fronte a chi voleva minarne le fondamenta.
Cari amici, molti turisti, dopo aver visitato il vostro Paese, tornano a casa dicendo di aver visto “il paradiso”. Si riferiscono, in genere, alle attrazioni paesaggistiche e ambientali di cui hanno goduto. Noi però sappiamo che, come abbiamo detto, il tesoro più grande non è quello. Ce n’è un altro, più bello e affascinante, che si trova nei vostri cuori e che si manifesta nella carità con cui vi amate.
È questo il dono più prezioso che potete condividere e far conoscere a tutti, rendendo Papua Nuova Guinea famosa non solo per la sua varietà di flora e di fauna, per le sue spiagge incantevoli e per il suo mare limpido, ma anche e soprattutto per le persone buone che vi si incontrano; e lo dico specialmente a voi, bambini, con i vostri sorrisi contagiosi e con la vostra gioia prorompente, che sprizza in ogni direzione. Siete l’immagine più bella che chi parte da qui può portare con sé e conservare nel cuore!
Vi incoraggio, perciò, ad abbellire sempre più questa terra felice con la vostra presenza di Chiesa che ama. Vi benedico e prego per voi. E vi raccomando: anche voi pregate per me. Grazie.
Cari giovani, buongiorno! Good morning!
Vi dico una cosa: sono felice di questi giorni trascorsi nel vostro Paese, dove convivono mare, montagne e foreste tropicali; ma soprattutto un Paese giovane abitato da tanti giovani! E il volto giovane del Paese abbiamo potuto contemplarlo tutti, anche attraverso la bella rappresentazione che abbiamo visto qui. Grazie! Grazie per la vostra gioia, per come avete narrato la bellezza di Papua “dove l’oceano incontra il cielo, dove nascono i sogni e sorgono le sfide”; e soprattutto grazie perché avete lanciato a tutti un augurio importante: “affrontare il futuro con sorrisi di speranza!”. Con sorrisi di gioia.
Cari giovani, non volevo ripartire da qui senza incontrarvi, perché voi siete la speranza per il futuro.
E come si costruisce il futuro? Che senso vogliamo dare alla nostra vita? Vorrei lasciarmi interpellare da queste domande, a partire da un racconto che si trova all’inizio della Bibbia: il racconto della Torre di Babele. Lì vediamo che si scontrano due modelli, due modi opposti di vivere e di costruire la società: uno porta alla confusione e alla dispersione, l’altro porta all’armonia dell’incontro con Dio e con i fratelli. Confusione da una parte e armonia dall’altra. Questo è importante.
E io vi domando, adesso, cosa scegliete voi? Il modello della dispersione o il modello dell’armonia? Cosa scegliete voi? [rispondono: harmony!] Siete bravi! C’è una storia che racconta la Scrittura: che, dopo il diluvio universale, i discendenti di Noè si dispersero in diverse isole, ciascuno «secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie» (Gen 10,5). Senza annullare le differenze, Dio concesse loro un modo per entrare in comunicazione e per unirsi; infatti, «tutta la terra aveva un’unica lingua» (Gen 11,1). E questo significa che il Signore ci ha creati per avere un buon rapporto con gli altri. State attenti: non ci ha creato per la confusione, ma per avere un buon rapporto. E questo è molto importante.
E davanti a queste differenze di lingue, che dividono, che disperdono, ci vuole una sola lingua che ci aiuti ad essere uniti. Ma io vi domando: qual è la lingua che favorisce l’amicizia, che abbatte i muri di divisione e che ci apra la via per entrare, tutti, in un abbraccio fraterno? Qual è questa lingua? Io vorrei sentire qualcuno di voi coraggioso… Chi è capace di dirmi qual è questa lingua? Chi è il più coraggioso, alzi la mano e venga qui avanti. [Un ragazzo risponde: amore]. Siete convinti di questo? [I ragazzi rispondono: yes!] Pensate un po’. E contro l’amore, cosa c’è? L’odio. Ma c’è anche una cosa forse più brutta dell’odio: l’indifferenza verso gli altri. Avete capito che cos’è l’odio e cos’è l’indifferenza? Avete capito? [I ragazzi rispondono: sì!] Sapete che l’indifferenza è una cosa molto brutta, perché tu lasci gli altri sulla strada, non ti interessi di aiutare gli altri. L’indifferenza ha le radici dell’egoismo.
Sentite, nella vita, voi che siete giovani, dovete avere l’inquietudine del cuore di prendersi cura degli altri. Voi dovete avere l’inquietudine di fare amicizia fra voi. E voi dovete avere cura di una cosa che io vi dirò adesso, che forse sembra un po’ strana. C’è un rapporto molto importante nella vita del giovane: c’è la vicinanza ai nonni. Siete d’accordo? [I ragazzi rispondono: yes!] Adesso, tutti insieme diciamo: “Viva i nonni!” [I ragazzi rispondono: Long live grandparents!] Thank you very much. Thank you. Thank you.
Torniamo al racconto biblico dei discendenti di Noè. Ognuno parlava una diversa lingua, anche tanti dialetti. Vi domando: quanti dialetti ci sono qui? Uno? Due? Tre? Ma voi, avete una lingua comune? Pensate bene: avete una lingua comune? [I ragazzi rispondono: yes!]. La lingua del cuore! La lingua dell’amore! La lingua della vicinanza! E anche, la lingua del servizio.
Vi ringrazio della vostra presenza qui. E mi auguro che tutti voi parliate la lingua più profonda: che tutti voi siate “wantok” dell’amore!
Cari giovani, sono contento del vostro entusiasmo e sono contento di tutto quello che fate, quello che pensate. Ma mi domando – state attenti alla domanda! – un giovane, può sbagliare? [I ragazzi rispondono: yes!]. E una persona adulta, può sbagliare? [I ragazzi rispondono: yes!]. E un vecchio come me, può sbagliare? [I ragazzi rispondono: yes!]. Tutti possiamo sbagliare. Tutti. Ma l’importante è rendersi conto dello sbaglio. Questo è importante. Noi non siamo superman. Noi possiamo sbagliare. E questo ci dà anche una certezza: che dobbiamo sempre correggerci. Nella vita tutti possiamo cadere, tutti. Ma c’è una canzone molto bella, mi piacerebbe che voi l’imparaste, è una canzone che cantano i giovani quando stanno salendo sulle Alpi, sulle montagne. La canzone dice così: “Nell’arte di salire, quello che importante non è non cadere, ma non rimanere caduto”. Avete capito questo? [I ragazzi rispondono: yes!] Nella vita tutti possiamo cadere, tutti! È importante non cadere? È importante non cadere? Vi domando. [I ragazzi rispondono: no!] Sì, ma cosa è più importante? [I ragazzi rispondono: get back up!] Non rimanere caduti. E se tu vedi un amico, un compagno, un’amica, una compagna della vostra età che è caduto, che è caduta, cosa devi fare? Ridere di quello? [I ragazzi rispondono: no!] Tu devi guardarlo e aiutarlo a rialzarsi. Pensate che noi soltanto in una situazione della vita possiamo guardare l’altro dall’alto in basso: per aiutarlo a sollevarsi. Per aiutarlo a sollevarsi. Siete d’accordo o non siete d’accordo? [I ragazzi rispondono: yes!] Se uno di voi è caduto, è un po’ giù nella vita morale, se è caduto, tu, voi, dovete dargli una botta, così? [I ragazzi rispondono: no!] Bravi, bravi.
Adesso ripetiamo insieme, per finire. Nella vita l’importante non è non cadere, ma non rimanere caduto. Ripetete. Thank you very much.
Cari giovani, vi ringrazio della vostra gioia, della vostra presenza, delle vostre illusioni. I pray for you. I pray for you. And you don’t forget to pray for me, because the job is not easy. Thank you very much for your presence. Thank you very much for your hope.
And now, all together, pray. Pray for all us.
[Recita del Padre Nostro in inglese]
Thank you very much. But, I forgot: se uno cade, deve rimanere caduto? [I giovani rispondono: no!] Bravi. E se noi vediamo un amico, un’amica, un compagno, una compagna, che cade, dobbiamo lasciarlo lì o dargli una botta? [I giovani rispondono: no!] Cosa dobbiamo fare? [I ragazzi rispondono: get back up!]
Thank you very much. God bless you. Pray for me, don’t forget.
TIMOR-LESTE
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Signor Presidente,
Signor Primo Ministro,
distinti Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
Signor Cardinale, fratelli Vescovi,
Rappresentanti della società civile,
Signore e Signori!
Vi ringrazio per la gentile e gioiosa accoglienza in questa bella terra di Timor-Leste; e sono grato al Presidente, Signor José Ramos-Horta, per le cortesi espressioni che mi ha appena rivolto.
Qui Asia e Oceania si sfiorano e, in un certo senso, incontrano l’Europa, lontana geograficamente, eppure vicina per il ruolo che essa ha avuto a queste latitudini negli ultimi cinque secoli – non mi riferisco ai pirati olandesi! –. Dal Portogallo, infatti, nel XVI secolo giunsero i primi missionari domenicani che portarono il Cattolicesimo e la lingua portoghese; e quest’ultima insieme alla lingua tetum sono oggi i due idiomi ufficiali dello Stato.
Il Cristianesimo, nato in Asia, è arrivato a queste estreme propaggini del continente tramite missionari europei, testimoniando la propria vocazione universale e la capacità di armonizzarsi con le più diverse culture, le quali, incontrandosi con il Vangelo, trovano una nuova sintesi più alta e profonda. Il cristianesimo si incultura, assume le culture e i diversi riti orientali, dei diversi popoli. Infatti una delle dimensioni importanti del cristianesimo è l’inculturazione della fede. Ed esso, a sua volta, evangelizza la cultura. Questo binomio è importante per la vita cristiana: inculturazione della fede ed evangelizzazione della cultura. Non è una fede ideologica, è una fede radicata nella cultura.
Questa terra, ornata di montagne, foreste e pianure, circondata da un mare meraviglioso, per quello che ho potuto vedere, ricca di tante cose, di tanti frutti e legname…Con tutto ciò, questa terra ha attraversato nel recente passato una fase dolorosa. Ha conosciuto le convulsioni e le violenze, che spesso si registrano quando un popolo si affaccia alla piena indipendenza e la sua ricerca di autonomia viene negata o contrastata.
Dal 28 novembre 1975 al 20 maggio 2002, cioè dall’indipendenza dichiarata a quella definitivamente restaurata, Timor-Leste ha vissuto gli anni della sua passione e della sua più grande prova. Ha sofferto. Il Paese ha saputo però risorgere, ritrovando un cammino di pace e di apertura a una nuova fase, che vuol’essere di sviluppo, di miglioramento delle condizioni di vita, di valorizzazione a tutti i livelli dello splendore incontaminato di questo territorio e delle sue risorse naturali e umane.
Rendiamo grazie a Dio perché, nell’attraversare un periodo tanto drammatico della vostra storia, voi non avete perso la speranza, e per il fatto che, dopo giorni oscuri e difficili, è finalmente sorta un’alba di pace e di libertà.
Nel conseguimento di queste importanti mete è stato di grande aiuto il vostro radicamento nella fede, come San Giovanni Paolo II mise in rilievo nella sua visita al vostro Paese. Egli, nell’omelia a Tasi-Tolu, ricordò che i cattolici di Timor-Leste hanno «una tradizione in cui la vita familiare, la cultura e i costumi sociali sono profondamente radicati nel Vangelo»; una tradizione «ricca degli insegnamenti e dello spirito delle Beatitudini», di «umile fiducia in Dio, di perdono e misericordia e, quando necessario, di paziente sofferenza nella tribolazione» (12 ottobre 1989). E traducendo questo nell’oggi, io direi che voi siete un popolo che ha sofferto, ma saggio nella sofferenza.
A questo proposito, desidero in particolare ricordare e lodare il vostro impegno assiduo per giungere a una piena riconciliazione con i fratelli dell’Indonesia, atteggiamento che ha trovato la sua fonte prima e più pura negli insegnamenti del Vangelo. Avete mantenuto salda la speranza anche nell’afflizione e, grazie all’indole del vostro popolo e alla vostra fede, avete trasformato il dolore in gioia! Voglia il Cielo che pure in altre situazioni di conflitto, in diverse parti del mondo, prevalga il desiderio della pace. Infatti l’unità è superiore al conflitto, sempre; la pace dell’unità è superiore al conflitto. E per questo si richiede anche una certa purificazione della memoria, per guarire le ferite, combattere l’odio con la riconciliazione, lo scontro con la collaborazione. È bello parlare della “politica della mano tesa”, è molto saggia, non è sciocca, no, perché quando la mano tesa si vede tradita sa lottare, sa portare avanti le cose.
È motivo di grato encomio anche il fatto che, nel ventesimo anniversario dell’indipendenza del Paese, avete recepito come documento nazionale la Dichiarazione sulla Fratellanza umana – ne sono grato, Signor Presidente – da me firmata insieme al Grande Imam di Al-Azhar il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi. E lo avete fatto affinché – come auspica la Dichiarazione stessa – essa possa venire adottata e inclusa nei programmi scolastici, e ciò è fondamentale.
Nel medesimo tempo, vi esorto a proseguire con rinnovata fiducia nella sapiente costruzione e nel consolidamento delle istituzioni della vostra Repubblica, in modo che i cittadini si sentano effettivamente rappresentati ed esse siano pienamente idonee a servire il Popolo di Timor-Leste.
Ora davanti a voi si è aperto un nuovo orizzonte, sgombro da nuvole nere, ma con nuove sfide da affrontare e nuovi problemi da risolvere. Per questo voglio dirvi: la fede, che vi ha illuminato e sostenuto nel passato, continui a ispirare il vostro presente e il vostro futuro. «Que a vossa fé seja a vossa cultura!»; cioè, che ispiri i criteri, i progetti, le scelte secondo il Vangelo.
Tra le molte questioni attuali, penso al fenomeno dell’emigrazione, che è sempre indice di una insufficiente o inadeguata valorizzazione delle risorse; come pure della difficoltà di offrire a tutti un lavoro che produca un equo profitto e garantisca alle famiglie un reddito corrispondente alle loro esigenze di base. E non sempre è un fenomeno esterno. Ad esempio, in Italia c’è l’emigrazione del sud verso il nord e abbiamo tutta una regione del sud che si sta spopolando.
Penso alla povertà presente in tante zone rurali, e alla conseguente necessità di un’azione corale di ampio respiro che coinvolga molteplici forze e distinte responsabilità, civili, religiose e sociali, per porvi rimedio e per offrire valide alternative all’emigrazione.
E penso infine a quelle che possono essere considerate delle piaghe sociali, come l’eccessivo uso di alcolici tra i giovani. Per favore, abbiate cura di questo! Date ideali ai giovani, perché escano da queste trappole! E anche il fenomeno del costituirsi in bande, le quali, forti della loro conoscenza delle arti marziali, invece di usarla al servizio degli indifesi, la usano come occasione per mettere in mostra l’effimero e dannoso potere della violenza. E non dimentichiamo tanti bambini e adolescenti offesi nella loro dignità – questo fenomeno sta emergendo in tutto il mondo –: tutti siamo chiamati ad agire con responsabilità per prevenire ogni tipo di abuso e garantire una crescita serena ai nostri ragazzi.
Per la soluzione di questi problemi, come pure per una gestione ottimale delle risorse naturali del Paese – in primo luogo delle riserve petrolifere e del gas, che potrebbero offrire inedite possibilità di sviluppo – è indispensabile preparare adeguatamente, con una formazione appropriata, coloro che saranno chiamati ad essere la classe dirigente del Paese in un non lontano futuro. Mi è piaciuto quello che mi ha detto il Signor Presidente riguardo all’educazione qui. Essi potranno così avere a disposizione tutti gli strumenti indispensabili a delineare una progettualità di ampio respiro, nell’esclusivo interesse del bene comune.
La Chiesa offre come base di tale processo formativo la sua dottrina sociale. Essa costituisce un pilastro indispensabile, su cui costruire specifiche conoscenze e al quale sempre occorre appoggiarsi, per verificare se tali ulteriori acquisizioni siano andate veramente a favore dello sviluppo integrale o non risultino invece di ostacolo, producendo squilibri inaccettabili e una quota elevata di scartati, lasciati ai margini. La dottrina sociale della Chiesa non è un’ideologia, è basata sulla fraternità. È una dottrina che deve favorire, che favorisce lo sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri.
Tuttavia, se i problemi non mancano – come è per ogni popolo e per ogni epoca –, vi invito ad essere fiduciosi e a mantenere uno sguardo pieno di speranza verso l’avvenire. E c’è una cosa che vorrei dirvi, che non sta nel discorso, perché la porto dentro. Questo è un Paese bello, ma che cos’è la cosa più bella che ha questo Paese? Il popolo. Abbiate cura del popolo, amate il vostro popolo, fate cresce il popolo! Questo popolo è meraviglioso, è meraviglioso. In queste poche ora dal mio arrivo si vede come un popolo si esprime, e il vostro popolo si esprime con dignità e con gioia. È un popolo gioioso.
Siete un popolo giovane, non per la vostra cultura e per l’insediamento su questa terra, che sono invece molto antichi, ma per il fatto che circa il 65% della popolazione di Timor-Leste è al di sotto dei 30 anni di età. Penso a due Paesi europei, dove l’età media è di 46 e 48 anni. E da voi, il 65% ha meno di 30 anni; possiamo pensare che l’età media sarà intorno ai 30 anni, un po’ meno. Questa è una ricchezza. Questo dato ci dice che il primo ambito su cui investire è per voi l’educazione. Sono contento di ciò che ho appreso dal Presidente e che state facendo. Andate avanti. Credo che ci sono già diverse Università, magari anche troppe, e in più varie scuole secondarie, cosa che forse vent’anni fa non c’era. Questo è un ritmo di crescita molto grande. Investite sull’educazione, sull’educazione nella famiglia e nella scuola. Un’educazione che metta al centro i bambini e i ragazzi e promuova la loro dignità. Sono rimasto contento vedendo i bambini sorridere, con quei denti bianchi! Era pieno di ragazzi da tutte le parti. L’entusiasmo, la freschezza, la proiezione verso l’avvenire, il coraggio, l’intraprendenza tipici dei giovani, uniti all’esperienza e alla saggezza degli anziani, formano una miscela provvidenziale di conoscenze e di slanci generosi verso il domani. E qui mi permetto di dare un consiglio: mettete insieme i bambini con i nonni! L’incontro dei bambini e dei nonni provoca saggezza. Pensateci. Insieme, questo entusiasmo giovanile e questa saggezza sono una grande risorsa e non permettono la passività né, tantomeno, il pessimismo.
La Chiesa Cattolica, la sua dottrina sociale, le sue istituzioni per l’assistenza e la carità ai bisognosi, quelle educative e quelle sanitarie sono al servizio di tutti e sono anch’esse una preziosa risorsa, che consente di guardare al futuro con occhi pieni di speranza. Merita apprezzamento, al riguardo, il fatto che l’impegno della Chiesa a favore del bene comune possa avvalersi della collaborazione e del sostegno dello Stato, nel quadro delle cordiali relazioni sviluppate tra la Chiesa e la Repubblica Democratica di Timor-Leste, recepite dall’Accordo tra le Parti entrato in vigore il 3 marzo 2016. Relazioni eccellenti.
Timor-Leste, che ha saputo far fronte a momenti di grande tribolazione con paziente determinazione ed eroismo, oggi vive come Paese pacifico e democratico, che si impegna nella costruzione di una società che è fraterna, sviluppando relazioni pacifiche con i vicini nell’ambito della comunità internazionale. Guardando al vostro recente passato e a quanto è stato finora compiuto, c’è motivo di essere fiduciosi che la vostra Nazione saprà ugualmente affrontare con intelligenza e chiarezza e creatività. le difficoltà e i problemi odierni. Abbiate fiducia nella saggezza del popolo. Il popolo ha la sua saggezza, abbiate fiducia in questa saggezza.
Affido Timor-Leste e tutto il suo popolo alla protezione dell’Immacolata Concezione, celeste Patrona invocata con il titolo di Virgem de Aitara. Ella vi accompagni e vi aiuti sempre nella missione di costruire un Paese libero, democratico, solidale e gioioso, dove nessuno si senta escluso ed ognuno possa vivere in pace e dignità. Deus abençoe Timor-Leste!Maromak haraik bênção ba Timor-Lorosa’e!
Visita ai Bambini con disabilità della Scuola “Irmãs Alma”
C’è una cosa che sempre mi fa pensare: quando Gesù parla del giudizio finale, dice ad alcuni: “Venite con me”, ma non dice: “Venite con me perché siete stati battezzati, perché siete stati cresimati, perché vi siete sposati in chiesa, perché non avete detto menzogne, perché non avete rubato”. No. “Venite con me perché vi siete presi cura di me”. Vi siete presi cura di me. E Gesù dice: “Venite con me perché vi siete presi cura di me quando avevo fame e mi avete dato da mangiare, quando avevo sete e mi avete dato da bere, quando ero malato e mi avete visitato”, e così via. Questo lo chiamo il sacramento dei poveri. Un amore che incoraggia, che costruisce e che rafforza.
E questo è ciò che si trova qui: amore. Senza amore questo non si capisce. E così comprendiamo l’amore di Gesù che ha dato la sua vita per noi. Non possiamo capire l’amore di Gesù se non ci mettiamo a praticare l’amore. Condividere la vita con le persone che hanno più bisogno è un programma, un vostro programma, è un programma di ogni cristiano. Voglio ringraziarvi per quello che fate; e voglio ringraziare anche le bambine e i bambini, i ragazzi e le ragazze che ci danno la testimonianza di lasciarsi curare. Perché loro insegnano a noi come dobbiamo lasciarci curare da Dio. Lasciarci curare da Dio e non da tante idee, o progetti, o capricci. Lasciarci curare da Dio. E loro sono i nostri maestri. Grazie a voi per questo!
Sto vedendo questo [bambino], come si chiama? Silvano. Portalo qui. E cosa ci insegna Silvano, cosa ci insegna? Ci insegna a prenderci cura. Prendendoci cura di lui, impariamo a prenderci cura. E se guardiamo il suo viso, è calmo, paziente, dorme in pace. E così come lui si lascia curare, anche noi dobbiamo imparare a lasciarci curare. Lasciarsi curare da Dio, che ci ama tanto; lasciarsi curare dalla Madonna, che è nostra Madre.
E adesso recitiamo alla Madonna un’Ave Maria e vi do la benedizione.
[dopo la preghiera e la benedizione]
E non dimenticatevi, non dimenticatevi che dobbiamo imparare a lasciarci curare, tutti, come loro si lasciano curare. Grazie!
[Scambio di doni]
Questo è il regalo che lascio a questa casa. Guardate bene: San Giuseppe si prende cura della Madonna, la Madonna si prende cura di Gesù. Il più importante è Colui che si lascia curare di più: Gesù. Si lascia curare da Maria e da Giuseppe.
Cari fratelli Vescovi,
cari sacerdoti e diaconi, religiose, religiosi e seminaristi,
cari catechisti, fratelli e sorelle, buongiorno!
Molti tra i più giovani – seminaristi, religiose, giovani – sono rimasti fuori. E adesso, quando ho visto il Vescovo, gli ho detto che deve ingrandire la cattedrale, perché è una grazia avere tante vocazioni! Ringraziamo il Signore, e ringraziamo anche i missionari che sono venuti prima di noi. Quando vediamo quest’uomo [Florentino de Jesús Martins, di 89 anni, al quale il Papa ha detto che “gareggiava con l’apostolo Paolo”], che è stato catechista per tutta la vita, possiamo capire la grazia della missione affidata. Ringraziamo il Signore per questa benedizione a questa Chiesa.
Sono felice di trovarmi in mezzo a voi, nel contesto di un viaggio che mi vede pellegrino nelle terre d’Oriente. Ringrazio Mons. Norberto de Amaral per le parole che mi ha rivolto, ricordando che Timor Est è un Paese “ai confini del mondo”. Anch’io vengo dai confini del mondo, ma voi più di me! E mi piace dire: proprio perché è ai confini del mondo sta al centro del Vangelo! Questo è un paradosso che dobbiamo imparare: nel Vangelo, i confini sono il centro e una Chiesa che non è capace di andare ai confini e che si nasconde nel centro è una Chiesa molto malata. Invece, quando una Chiesa guarda fuori, manda missionari, si mette su quei confini che sono il centro, il centro della Chiesa. Grazie perché state ai confini. Perché sappiamo bene che nel cuore di Cristo le periferie dell’esistenza sono il centro: il Vangelo è popolato da persone, figure e storie che sono ai margini, ai confini, ma vengono convocate da Gesù e diventano protagoniste della speranza che Egli è venuto a portarci.
Gioisco con voi e per voi, perché siete i discepoli del Signore in questa terra. Pensando alle vostre fatiche e alle sfide che siete chiamati ad affrontare, mi è ritornato in mente un brano del Vangelo di Giovanni, molto suggestivo, che ci racconta una scena di tenerezza e di intimità accaduta nella casa degli amici di Gesù, Lazzaro, Marta e Maria (cfr Gv 12,1-11). A un certo punto, durante la cena, Maria «prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo» (v. 12,3).
Maria unge i piedi di Gesù e quel profumo si diffonde nella casa. Vorrei soffermarmi con voi proprio su questo: il profumo, il profumo di Cristo, il profumo del suo Vangelo, è un dono che voi avete, un dono che vi è stato dato gratuitamente, ma che dovete custodire e che tutti insieme siamo chiamati a diffondere. Custodire il profumo, questo dono del Vangelo che il Signore ha dato a questa terra di Timor Est, e diffondere il profumo.
Prima cosa: custodire il profumo. Abbiamo sempre bisogno di tornare all’origine, all’origine del dono ricevuto, del nostro essere cristiani, sacerdoti, religiosi o catechisti. Noi abbiamo accolto la vita stessa di Dio per mezzo di Gesù, suo figlio, che è morto per noi e ci ha donato lo Spirito Santo. Siamo stati unti, siamo unti con Olio di letizia e l’apostolo Paolo scrive: «Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo» (2 Cor 2,15).
Care sorelle, cari fratelli, voi siete il profumo di Cristo! E questo simbolo a voi non è estraneo: qui a Timor, infatti, cresce in abbondanza il legno di sandalo, con la sua fragranza molto apprezzata e ricercata anche presso altri popoli e Nazioni. La Bibbia stessa ne loda il valore, quando racconta che la regina di Saba fece visita al re Salomone offrendogli in dono il legno di sandalo (cfr 1 Re 10,12). Non so se la regina di Saba, prima di andare da Salomone, fece scalo a Timor Est, forse, e prese il sandalo da qui!
Sorelle, fratelli, voi siete il profumo di Cristo, un profumo molto più prezioso dei profumi francesi! Voi siete il profumo di Cristo, voi siete il profumo del Vangelo in questo Paese. Come un albero di sandalo, sempreverde, sempre forte, che cresce e produce frutti, anche voi siete discepoli missionari profumati di Spirito Santo per inebriare la vita del santo popolo fedele di Dio.
Tuttavia, non dimentichiamo una cosa: il profumo ricevuto dal Signore va custodito, va curato con molta attenzione, come Maria di Betania la aveva messo da parte, lo aveva serbato, proprio per Gesù. Allo stesso modo noi dobbiamo custodire l’amore, custodire l’amore. Non dimenticate questa frase: dobbiamo custodire l’amore, con cui il Signore ha profumato la nostra vita, perché non si dissolva e non perda il suo aroma. E questo cosa significa? Significa essere consapevoli del dono ricevuto – tutto quello che abbiamo è un dono, essere consapevoli di questo –, ricordarci che il profumo non serve per noi ma per ungere i piedi di Cristo, annunciando il Vangelo, servendo i poveri, significa vigilare su stessi perché la mediocrità e la tiepidezza spirituale sono sempre in agguato. E mi viene in mente una cosa che diceva il cardinale De Lubac sulla mediocrità e sulla mondanità: “La cosa peggiore che può succedere alle donne e agli uomini di Chiesa è cadere nella mondanità, nella mondanità spirituale”. State attenti, conservate questo profumo che ci dà tanta vita.
E aggiungo un’altra cosa: noi guardiamo con gratitudine alla storia che ci ha preceduto, al seme della fede gettato qui dai missionari. Questi tre che ci hanno parlato: la religiosa che tutta la sua vita consacrata l’ha vissuta qui; questo sacerdote che ha saputo accompagnare il suo popolo nei momenti difficili della dominazione straniera; e questo diacono al quale non si è bloccata la lingua per annunciare il Vangelo e per battezzare. Pensiamo a questi tre esempi che sono rappresentativi della storia della nostra Chiesa, e amiamo la nostra storia. È il seme gettato qui. [Lo sono anche] le scuole per la formazione degli operatori pastorali e tanto altro. Ma questo può bastare? In realtà, sempre dobbiamo alimentare la fiamma della fede. Pertanto vorrei dirvi: non trascurate di approfondire la dottrina del Vangelo, non trascurate di maturare nella formazione spirituale, catechetica e teologica; perché tutto questo serve ad annunciare il Vangelo in questa vostra cultura e, nello stesso tempo, a purificarla da forme arcaiche e talvolta superstiziose. La predicazione della fede deve inculturarsi nella vostra cultura, e la vostra cultura dev’essere evangelizzata. E questo vale per tutti i popoli, non solo per voi. Se una Chiesa non è capace di inculturare la fede, non è capace di esprimere la fede nei valori propri di quella terra, sarà una Chiesa eticista e senza fecondità. Ci sono tante cose belle nella vostra cultura, penso specialmente alla fede nella risurrezione e nella presenza delle anime dei defunti; però tutto questo va sempre purificato alla luce del Vangelo, alla luce della dottrina della Chiesa. Impegnatevi, per favore, in questo, perché «ogni cultura e ogni gruppo hanno bisogno di essere purificati e di maturare».
E veniamo al secondo punto: diffondere il profumo. La Chiesa esiste per evangelizzare, e noi siamo chiamati a portare agli altri il dolce profumo della vita, la vita nuova del Vangelo. Maria di Betania non usa il nardo prezioso per abbellire sé stessa, ma per ungere i piedi di Gesù, e così sparge l’aroma in tutta la casa. Anzi, il Vangelo di Marco specifica che Maria, per ungere Gesù, rompe il vasetto di alabastro che contiene l’unguento profumato (cfr 14,3). L’evangelizzazione avviene quando abbiamo il coraggio di “rompere” il vaso che contiene il profumo, rompere il “guscio” che spesso ci chiude in noi stessi e uscire da una religiosità pigra, comoda, vissuta soltanto per un bisogno personale. E mi è piaciuta molto l’espressione che ha usato Rosa quando ha detto: “una Chiesa in movimento, una Chiesa che non sta ferma, che non ruota attorno a sé stessa, ma è bruciata dalla passione di portare la gioia del Vangelo a tutti”.
Anche il vostro Paese, radicato in una lunga storia cristiana, ha bisogno oggi di un rinnovato slancio nell’evangelizzazione, perché a tutti arrivi il profumo del Vangelo: un profumo di riconciliazione e di pace dopo gli anni sofferti della guerra; un profumo di compassione, che aiuti i poveri a rialzarsi e susciti l’impegno per risollevare le sorti economiche e sociali del Paese; un profumo di giustizia contro la corruzione. State attenti! Tante volte la corruzione può entrare nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie. E, in particolare, il profumo del Vangelo bisogna diffonderlo contro tutto ciò che umilia, ciò che deturpa e addirittura distrugge la vita umana, contro quelle piaghe che generano vuoto interiore e sofferenza come l’alcolismo, la violenza, la mancanza di rispetto per la donna. Il Vangelo di Gesù ha la forza di trasformare queste realtà oscure e di generare una società nuova. Il messaggio che voi religiose offrite di fronte al fenomeno della mancanza di rispetto per le donne è che le donne sono la parte più importante della Chiesa, perché si occupano dei più bisognosi: li curano, li accompagnano. Ho appena fatto visita a quella bella casa d’accoglienza per i più poveri e i più bisognosi [Scuola “Irmãs Alma” per bambini con disabilità]. Sorelle, siate madri del popolo di Dio; sappiate “partorire” comunità, siate madri. È questo che voglio da voi.
Care sorelle, cari fratelli, c’è bisogno di questo sussulto di Vangelo; e oggi, perciò, c’è bisogno di religiose, religiosi, sacerdoti, di catechisti appassionati, catechisti preparati e creativi. Serve creatività nella missione. E ringrazio per la sua testimonianza come catechista il Sig. Florentino, edificante, ha dedicato gran parte della sua vita a questo bellissimo ministero. E ai sacerdoti, in particolare, vorrei dire: ho appreso che il popolo si rivolge a voi con tanto affetto chiamandovi “Amu”, che qui è il titolo più importante, significa “signore”. Però, questo non deve farvi sentire superiori al popolo: voi venite dal popolo, siete nati da madri del popolo, siete cresciuti con il popolo. Non dimenticate la cultura del popolo che avete ricevuto. Non siete superiori. Non deve neanche indurvi nella tentazione della superbia e del potere. E sapete come incomincia la tentazione del potere? Avete capito, vero? Mia nonna mi diceva: “Il diavolo entra sempre dalle tasche” [in italiano]; da qui entra il diavolo, entra sempre dalle tasche. Per favore, non pensate al vostro ministero come a un prestigio sociale. No, il ministero è un servizio. E se qualcuno di voi non si sente servitore del popolo, vada a chiedere consiglio a un sacerdote saggio affinché lo aiuti ad avere questa dimensione tanto importante. Ricordiamoci questo: col profumo si ungono i piedi di Cristo, che sono i piedi dei nostri fratelli nella fede, a partire dai più poveri. I più privilegiati sono i più poveri, e con questo profumo dobbiamo prenderci cura di loro. È eloquente il gesto che qui i fedeli compiono quando incontrano voi sacerdoti: prendono la vostra mano consacrata e la avvicinano alla fronte come segno di benedizione. È bello cogliere in questo segno l’affetto del Popolo santo di Dio, perché il prete è strumento di benedizione: mai, mai il sacerdote deve approfittare del ruolo, sempre deve benedire, consolare, essere ministro di compassione e segno della misericordia di Dio. E forse il segno di tutto questo è il sacerdote povero. Amate la povertà come la vostra sposa.
Cari fratelli, un diplomatico portoghese del 1500, Tomé Pires, ha scritto così: «I mercanti malesi dicono che Dio creò Timor per il legno di sandalo» (The Summa Oriental, Londra 1944, 204). Noi, però, sappiamo che c’è anche un altro profumo: il profumo di Cristo, il profumo del Vangelo, che arricchisce la vita e la riempie di gioia.
Voi, sacerdoti, diaconi, religiose: non scoraggiatevi! Come ci ha ricordato Padre Sancho nella sua toccante testimonianza: «Dio sa come prendersi cura di coloro che ha chiamato e inviato nella sua missione». Nei momenti di grande difficoltà, pensate a questo: Lui ci accompagna. Lasciamoci accompagnare dal Signore con spirito di povertà e con spirito di servizio. Vi benedico di cuore. E vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me. Ma pregate a favore, non contro! Grazie.
E vorrei finire con un grazie, un grande ringraziamento per i vostri anziani, sacerdoti anziani che hanno speso la loro vita qui; religiose anziane che sono qui, che sono straordinarie, che hanno speso la vita. Loro sono il nostro modello. Grazie!
«Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Is 9,5).
Queste sono le parole con cui il profeta Isaia si rivolge, nella prima Lettura, agli abitanti di Gerusalemme, in un momento prospero per la città, caratterizzato però, purtroppo, anche da una grande decadenza morale.
C’è tanta ricchezza, ma il benessere acceca i potenti, li illude di bastare a sé stessi, di non aver bisogno del Signore, e la loro presunzione li porta a essere egoisti e ingiusti. Per questo, anche se ci sono tanti beni, i poveri sono abbandonati e soffrono la fame, l’infedeltà dilaga e la pratica religiosa si riduce sempre più a pura formalità. La facciata ingannevole di un mondo a prima vista perfetto nasconde così una realtà molto più oscura, molto più dura e crudele, in cui c’è tanto bisogno di conversione, di misericordia e di guarigione.
Per questo il profeta annuncia ai suoi concittadini un orizzonte nuovo, che Dio aprirà davanti a loro: un futuro di speranza, un futuro di gioia, dove la sopraffazione e la guerra saranno bandite per sempre (cfr Is 9,1-4). Farà sorgere per loro una grande luce (cfr v. 1) che li libererà dalle tenebre del peccato da cui sono oppressi, e lo farà non con la potenza di eserciti, di armi o ricchezze, ma attraverso il dono di un figlio (cfr vv. 5-6).
Fermiamoci a riflettere su questa immagine: Dio fa splendere la sua luce che salva attraverso il dono di un figlio.
In ogni luogo la nascita di un figlio è un momento luminoso, un momento di gioia e di festa, e a volte suscita anche in noi desideri buoni, di rinnovarci nel bene, di ritornare alla purezza e alla semplicità. Di fronte ad un neonato, anche il cuore più duro si riscalda e si riempie di tenerezza. La fragilità di un bambino porta sempre un messaggio così forte da toccare anche gli animi più induriti, portando con sé movimenti e propositi di armonia e di serenità. È meraviglioso, fratelli e sorelle, quello che succede alla nascita di un bambino!
La vicinanza di Dio è attraverso un bambino. Dio si fa bambino. E non solo per stupirci e commuoverci, ma anche per aprirci all’amore del Padre e lasciarcene plasmare, perché possa guarire le nostre ferite, ricomporre i nostri dissensi, rimettere ordine nella nostra esistenza.
A Timor Est è bello, perchè ci sono tanti bambini: siete un Paese giovane in cui in ogni angolo si sente pulsare, esplodere la vita. E questo è un regalo, un dono grande: la presenza di tanta gioventù e di tanti bambini, infatti, rinnova costantemente la nostra energia e la nostra vita. Ma ancora di più è un segno, perché fare spazio ai bambini, ai piccoli, accoglierli, prendersi cura di loro, e farci anche noi piccoli davanti a Dio e gli uni di fronte agli altri, sono proprio gli atteggiamenti che ci aprono all’azione del Signore. Facendoci bambini permettiamo l’azione di Dio in noi.
Oggi veneriamo la Madonna come Regina, cioè la madre di un Re, Gesù, che ha voluto nascere piccolo, farsi nostro fratello, chiedendo il “sì” di una giovane umile e fragile (cfr Lc 1,38).
Maria questo lo ha capito, al punto che ha scelto di rimanere piccola per tutta la vita, di farsi sempre più piccola, servendo, pregando, scomparendo per far posto a Gesù, anche quando questo le è costato molto.
Perciò, cari fratelli, care sorelle, non abbiamo paura di farci piccoli davanti a Dio e gli uni di fronte agli altri, non abbiamo paura di perdere la nostra vita, di donare il nostro tempo, di rivedere i nostri programmi e ridimensionare quando necessario anche i nostri progetti, non per sminuirli, ma per renderli ancora più belli attraverso il dono di noi stessi e l’accoglienza degli altri.
Tutto questo è simboleggiato molto bene da due bellissimi monili tradizionali di questa terra: il Kaibauk e il Belak. Tutti e due sono di metallo prezioso. Vuol dire che sono importanti!
Il primo simboleggia le corna del bufalo e la luce del sole e si mette in alto, a ornamento della fronte, come pure sulla sommità delle abitazioni. Esso parla di forza, di energia e di calore, e può rappresentare la potenza di Dio, che dona la vita. Ma non solo: posto a livello del capo, infatti, e in cima alle case, ci ricorda che, con la luce della Parola del Signore e con la forza della sua grazia, anche noi possiamo cooperare con le nostre scelte e azioni al grande disegno della redenzione.
Il secondo, poi, il Belak, che si mette sul petto, è complementare al primo. Ricorda il chiarore delicato della luna che riflette umilmente, nella notte, la luce del sole, avvolgendo ogni cosa di una fluorescenza leggera. Parla di pace, di fertilità, di dolcezza, e simboleggia la tenerezza della madre, che coi riflessi delicati del suo amore rende ciò che tocca luminoso della stessa luce che riceve da Dio.
Kaibauk e Belak, forza e tenerezza di Padre e di Madre: così Il Signore manifesta la sua regalità, fatta carità e misericordia.
E allora chiediamo insieme, in questa Eucaristia, ciascuno di noi, come donne e uomini, come Chiesa, come società, di saper riflettere nel mondo la luce forte, la luce tenera del Dio dell’amore, di quel Dio che, come abbiamo pregato nel Salmo responsoriale, «solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi […]» (Sal 113,7-8).
* * *
Cari fratelli e sorelle,
ho pensato molto: qual è la cosa migliore che ha Timor? Il sandalo? La pesca? Non è questa la cosa migliore. La cosa migliore è il suo popolo. Non posso dimenticare la gente ai lati della strada, con i bambini. Quanti bambini avete! Il popolo, che la cosa migliore che ha è il sorriso dei suoi bambini. E un popolo che insegna a sorridere ai bambini è un popolo che ha un futuro.
Ma state attenti! Perché mi hanno detto che in alcune spiagge vengono i coccodrilli; i coccodrilli vengono nuotando e hanno il morso più forte di quanto possiamo tenere a bada. State attenti! State attenti a quei coccodrilli che vogliono cambiarvi la cultura, che vogliono cambiarvi la storia. Restate fedeli. E non avvicinatevi a quei coccodrilli perché mordono, e mordono molto.
Vi auguro la pace. Vi auguro di continuare ad avere molti figli: che il sorriso di questo popolo siano i suoi bambini! Prendetevi cura dei vostri bambini; ma prendetevi cura anche dei vostri anziani, che sono la memoria di questa terra.
Grazie, tante grazie per la vostra carità, per la vostra fede. Andate avanti con speranza!
E ora chiediamo al Signore di benedirci tutti, e poi canteremo un canto alla Vergine Maria.
Dadeer di’ak! (Buongiorno!)
Prima di tutto faccio una domanda, vediamo chi sa rispondere: cosa fanno i giovani? Cosa fanno i giovani? Tu [indica una ragazza].
[la ragazza] “Annunciare Cristo”.
Molto bene. Cos’altro fanno i giovani? Quale altra cosa?
[un altro giovane] “Proclamare la Parola di Dio”.
Benissimo. Che altro fanno i giovani?
[un altro giovane] “Amarsi gli uni gli altri”.
Amare, e i giovani hanno una grande capacità di amare. Che altro fanno i giovani?
[un altro giovane] “Dobbiamo coltivare la pace nel nostro Paese”.
Questo non scordatelo mai! Molto bene, molto bene. Ma c’è una cosa che fanno sempre i giovani, i giovani di diverse nazionalità, i giovani di diverse religioni. Sapete cosa fanno sempre i giovani? I giovani fanno chiasso, i giovani fanno confusione. Siete d’accordo? Siete d’accordo su questo? [rispondono: “Sì!]
Vi ringrazio per i saluti, le testimonianze e le domande. Vi ringrazio per i balli. Perché sapete che ballare è esprimere un sentimento con tutto il corpo. Conoscete qualche giovane che non sa ballare? La vita viene con la danza. E voi siete un Paese di gente giovane.
C’è una cosa che dicevo stamattina a un vescovo: non dimenticherò mai i vostri sorrisi. Non smettete di sorridere! E voi giovani siete la maggioranza della popolazione di questa terra, e la vostra presenza riempie di vita questa terra, la riempie di speranza e la riempie di futuro. Non perdete l’entusiasmo della fede! Immaginate un giovane senza fede, con una faccia triste. Ma voi sapete cos’è che butta giù un giovane? I vizi. State attenti. Perché arrivano quelli che si definiscono venditori di felicità. E ti vendono la droga, ti vendono tante cose che ti danno felicità per mezz’ora e basta. Lo sapete meglio di me, vero? Voi conoscete questa situazione meglio di me. La conoscete o no?... Non “sento”... [“Sì”] Bene, molto bene, grazie.
Vi auguro di andare avanti con la gioia della gioventù. Ma non dimenticatevi una cosa: voi siete gli eredi di coloro che vi hanno preceduto nella fondazione di questa Nazione. Pertanto, non perdete la memoria! La memoria di quelli che vi hanno preceduto e che con tanto sacrificio hanno costruito questa Nazione.
E ci sono due cose che mi hanno toccato il cuore mentre camminavo per le strade. Mi hanno davvero toccato il cuore. La gioventù di questo Paese e il sorriso. Siete un popolo che sa sorridere! Continuate così! Non dimenticatelo.
Un giovane deve sognare. “E come si fa, Padre, per sognare?”. Si beve alcol? [“No!”] No! Se fai questo, avrai degli incubi! Vi invito a sognare, a sognare cose grandi. Un giovane che non sogna è un pensionato della vita. E qualcuno di questi giovani, di voi, è un pensionato? [“No!”] I giovani devono fare confusione, per mostrare la vita che hanno. Ma un giovane è nel mezzo del cammino della vita, è a metà, nel mezzo della strada della vita. Tra i ragazzi e i grandi. E sapete qual è una delle più belle ricchezze di una società? Lo sapete? Gli anziani, i nonni! Voi giovani, e l’altra punta sono gli anziani. Ma sono i nonni, sono gli anziani che danno la saggezza ai giovani. Voi rispettate gli anziani? [“Sì!] Gli anziani precedono sempre noi giovani nella storia, non è vero? Gli anziani sono un tesoro: i due tesori di un popolo sono i bambini e gli anziani. Capito? Vediamo, ripetetelo voi. Quali sono i due più grandi tesori di un popolo? [“I bambini e gli anziani”] I bambini e gli anziani. Ecco perché una società che ha tanti bambini come la vostra deve prendersi cura di loro. E una che ha tanti anziani che sono la memoria deve rispettarli e prendersene cura.
Vi racconto una storia. C’era una famiglia, il papà, la mamma, i bambini e il nonno molto anziano stavano mangiando insieme. E il nonno, poverino molto anziano, quando mangiava si sporcava e rovesciava il cibo. Allora il papà decise di mettere un tavolo in cucina, in modo che il nonno mangiasse lì da solo. E spiegò alla famiglia che così, visto che il nonno non c’era, avrebbero potuto invitare gente senza essere in imbarazzo per il nonno. Pensate a questo. Passano alcuni giorni e il papà arriva e trova il figlio di cinque anni che sta giocando con dei legni. Il papà gli chiede: “Cosa stai facendo con quel legno?” – “Sto facendo un tavolo” – “Perché?” – “Per te, quando sarai vecchio e dovrai mangiare da solo”.
I due più grandi tesori di una società sono i bambini e i nonni. Insieme: quali sono i due tesori più grandi della società? [“I bambini e i nonni”] Prendetevi cura dei bambini e dei nonni, d’accordo? E ora facciamo un grande applauso ai nostri nonni!
Voi, in questo Paese così sorridente, avete una storia meravigliosa, di eroismo, di fede, di martirio e, soprattutto, di perdono e di riconciliazione. Vi faccio una domanda: chi è la persona, in tutta la storia, che è stata capace di perdonare e voler riconciliare? Pensateci bene, chi è questa persona? Chi è? [“Gesù!”] Gesù! Gesù nostro fratello che ama tutti noi, giusto? E questa riconciliazione mi porta a raccomandare a voi giovani tre cose: libertà, impegno, fraternità.
Nella lingua tetum c’è un detto: “ukun rasik-an”, cioè essere in grado di governare sé stessi. Un giovane, una giovane che non è in grado di governarsi, che non è in grado di vivere “ukun rasik-an”, che cos’è? Cosa dite? Uno che dipende dagli altri. Molto bene. E un uomo, una donna, un giovane, un ragazzo che non governa sé stesso è schiavo, è dipendente, non è libero. E di cosa può essere schiavo un giovane? Vediamo, qualcuno risponda… Di che cosa? Del peccato, del telefonino – dopo vi racconto qualcosa sul telefonino – , un’altra cosa… Di cosa può essere schiavo? Essere schiavo del proprio desiderio, credersi onnipotente. Di cos’altro può essere schiavo un giovane? [qualcuno risponde] Certo, dell’arroganza: un giovane sempre così è un giovane arrogante. Invece, un giovane impegnato, un giovane che lavora, com’è? Ditemi, com’è un giovane che lavora? [qualcuno risponde] Bene, uno che ama la semplicità. E poi? Che ha responsabilità. Un giovane che ama la compagnia dei fratelli, delle sorelle, che ha responsabilità, è un giovane che ama il suo Paese. Questo è molto importante.
E c’è un’altra cosa che [hanno detto] Rogéria, Cecilia ed Efranio riferendosi all’importanza di prendersi cura della casa comune e di coltivare l’unità della famiglia. Un giovane deve capire che essere libero non significa fare ciò che si vuole, ma che un giovane è responsabile. E una delle responsabilità è imparare a prendersi cura della casa comune. E per questo il giovane deve impegnarsi. Un proverbio orientale dice: i tempi difficili creano uomini forti. Guardate i vostri genitori, i vostri nonni, che hanno dovuto affrontare tempi difficili per dare la libertà al Paese. Ecco perché dovete imparare a gestire i momenti difficili.
Un’ultima cosa prima di andare via. È un valore che dovete imparare: la fraternità. Essere fratelli, non essere nemici. I vostri anziani, i vostri genitori e nonni, magari con idee diverse, ma erano fratelli. Ed è bene che i giovani abbiano idee diverse? [“Sì”] E questo perché? Per litigare con gli altri? O per rispettarci? [rispondono] Io credo che tu pensi questo: se io sono di questa religione e tu sei di quest’altra religione, ci scontreremo. Non è così, bisogna rispettarsi. Ripetiamo questa parola: rispettarsi.
E una domanda: l’odio è un buon atteggiamento? [“No!”] L’amore e il servizio, questo è l’atteggiamento giusto. Adesso ripetiamo tutti insieme: odio no, amore e servizio sì. [ripetono] Ancora una volta, non ho sentito bene. [ripetono] E se un giovane, una giovane, litiga con un altro, cosa deve fare?... Non sento, cos’hanno detto? Ripetiamolo tutti insieme: amore e riconciliazione!… [ripetono] Amore e riconciliazione.
C’è una cosa che non so se succede in questo Paese, ma in altri Paesi sì: il bullismo. C’è bullismo qui? Il bullismo è un atteggiamento che si approfitta del più debole. Perché è brutto, perché è grasso, perché cammina male… Ma è sempre un atteggiamento brutto perché usa la debolezza degli altri. Ma qui, a Timor Leste, c’è bullismo? Per favore, d’ora in poi niente bullismo!
Cari giovani, siate eredi della storia tanto bella che vi ha preceduto! E portatela avanti. Abbiate coraggio, abbiate coraggio per portare avanti le cose. E se litigate, riconciliatevi. Vi ringrazio per tutto quello che fate per la patria, per il popolo di Dio. E ricordiamo quello che ci ha detto Ilham, che ha parlato poco fa: che dobbiamo amarci al di là di tutte le differenze etniche o religiose. Avete capito questo? [“Sì!”] Riconciliazione, convivenza con tutte le differenze. È importante. Siamo d’accordo? [“Sì!”]
E prima di finire devo darvi un consiglio: fate chiasso, fate confusione! Il mio secondo consiglio: rispettate e ascoltate gli anziani, d’accordo? Il primo consiglio qual era? [rispondono] Bene. E il secondo consiglio? [rispondono]
Dio vi benedica tanto. Grazie per questa presenza! Grazie per il canto e il ballo, molto bello. E com’era? Scusate, mi dimentico io. Quali erano i due consigli? Il primo? Il secondo? Fate chiasso, fate confusione e rispettate gli anziani. Che Dio vi conservi questa gioia. Che Dio vi custodisca sempre!
SINGAPORE
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Signor Presidente,
distinte Autorità,
illustri rappresentanti della società civile,
Membri del Corpo Diplomatico!
Ringrazio il Signor Presidente per le cortesi parole di benvenuto che mi ha gentilmente rivolto e che rinnovano in me la riconoscenza per la sua recente visita in Vaticano. A tutte le Autorità sono grato per la cordiale accoglienza in questa vostra città-Stato, crocevia commerciale di primaria importanza e luogo di incontro tra diversi popoli.
Chi arriva qui per la prima volta non può non essere impressionato dalla selva di modernissimi grattacieli che sembrano sorgere dal mare. Essi sono una chiara testimonianza dell’ingegno umano, della dinamicità della società di Singapore e dell’acume dello spirito imprenditoriale, che qui hanno trovato un terreno fertile per esprimersi.
Quella di Singapore è una storia di crescita e resilienza. Da umili origini, questa Nazione ha raggiunto un alto livello di sviluppo, dimostrando che esso è frutto di decisioni razionali e non del caso: è il risultato di un costante impegno nel portare a termine progetti e iniziative ben ponderate e in sintonia con le caratteristiche specifiche del luogo. Proprio in questi giorni ricorre il centounesimo anniversario della nascita di Lee Kuan Yew, primo Primo Ministro della Repubblica di Singapore, che dal 1959 al 1990 mantenne tale incarico e diede un forte impulso alla rapida crescita e trasformazione del Paese.
È importante inoltre che Singapore non solo abbia prosperato economicamente, ma che si sia sforzata di costruire una società nella quale la giustizia sociale e il bene comune sono tenuti in grande considerazione. Penso in particolare alla vostra dedizione nel migliorare le condizioni di vita dei cittadini attraverso politiche abitative pubbliche, un’istruzione di alta qualità e un sistema sanitario efficiente. Auspico che questi sforzi continuino fino a coinvolgere pienamente tutti gli abitanti di Singapore.
E a questo proposito, vorrei segnalare il rischio che un certo pragmatismo e una certa esaltazione del merito comportano, vale a dire la conseguenza non intenzionale di legittimare l’esclusione di coloro che si trovano ai margini dei benefici del progresso.
Su questo fronte riconosco e lodo le varie politiche e iniziative messe in atto per sostenere i più deboli, e auspico che venga prestata particolare attenzione ai poveri, agli anziani – le cui fatiche hanno gettato le fondamenta per la Singapore che conosciamo oggi – e anche per tutelare la dignità dei lavoratori migranti, che molto contribuiscono alla costruzione della società e ai quali occorre garantire un salario equo.
Le sofisticate tecnologie dell’era digitale e i rapidi sviluppi nell’uso dell’intelligenza artificiale non possono farci dimenticare che è essenziale coltivare relazioni umane reali e concrete, e che queste tecnologie si possono valorizzare proprio per avvicinarsi gli uni agli altri, promuovendo comprensione e solidarietà, e non per isolarsi pericolosamente in una realtà fittizia e impalpabile.
Singapore è un mosaico di etnie, culture e religioni che convivono in armonia, e questa parola è molto importante: l’armonia. Il raggiungimento e la conservazione di questa positiva inclusività sono favoriti dall’imparzialità dei poteri pubblici, impegnati in un dialogo costruttivo con tutti, rendendo possibile che ognuno apporti il suo peculiare contributo al bene comune e non consentendo all’estremismo e all’intolleranza di acquisire forza e di mettere in pericolo la pace sociale. Il rispetto reciproco, la collaborazione, il dialogo e la libertà di professare il proprio credo nella lealtà alla legge comune sono condizioni determinanti del successo e della stabilità ottenuti da Singapore, requisiti per uno sviluppo non conflittuale e caotico, ma equilibrato e sostenibile.
La Chiesa Cattolica a Singapore, fin dall’inizio della sua presenza, ha cercato di offrire il proprio apporto peculiare al cammino di questa Nazione, soprattutto nei settori dell’istruzione e della sanità, avvalendosi dello spirito di sacrificio e di dedizione dei missionari e dei fedeli. Sempre animata dal Vangelo di Gesù Cristo, la comunità cattolica è anche in prima linea nelle opere di carità, contribuendo in modo significativo agli sforzi umanitari e gestendo a questo fine diverse istituzioni sanitarie e molte organizzazioni umanitarie, tra cui la Caritas che tutti conosciamo.
La Chiesa inoltre – secondo le indicazioni della Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II sulle relazioni con le religioni non cristiane – ha costantemente promosso il dialogo interreligioso e la collaborazione tra diverse comunità di fede, con spirito di apertura e rispetto reciproco, fondamentali per la costruzione di una società che sia giusta e pacifica.
Questa mia visita, giunge a quarantatré anni da quando furono stabilite le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Singapore. Essa si propone di confermare nella fede i cattolici ed esortarli a proseguire con gioia e dedizione la collaborazione con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, per la costruzione di una società civile sana e coesa, per il bene comune e per una testimonianza cristallina della propria fede.
Singapore ha anche un ruolo specifico da giocare nell’ordine internazionale – questo non lo dimentichiamo – minacciato oggi da conflitti e guerre sanguinose, e mi rallegro che abbia meritoriamente promosso il multilateralismo e un ordine basato su regole da tutti condivise. Vi incoraggio a continuare a lavorare per l’unità e la fraternità del genere umano, a beneficio del bene comune di tutti, di tutti i popoli e di tutte le Nazioni, con una comprensione non escludente né ristretta degli interessi nazionali.
E mi sia consentito ricordare anche il ruolo della famiglia, il primo luogo in cui ognuno impara a relazionarsi con gli altri, ad essere amato e ad amare. Nelle condizioni sociali attuali, le fondamenta su cui si basano le famiglie sono messe in discussione e rischiano di venire indebolite. Occorre che esse vengano poste nella condizione di trasmettere i valori che danno senso e forma alla vita e di insegnare ai giovani a formare relazioni solide e sane. Sono perciò da lodare gli sforzi compiuti per promuovere, proteggere e sostenere l’unità familiare attraverso il lavoro di varie istituzioni.
Non possiamo nascondere che oggi viviamo in una crisi ambientale, e non dobbiamo sottovalutare l’impatto che una piccola Nazione come Singapore può avere in essa. La vostra posizione unica vi offre accesso a capitali, tecnologie e talenti, risorse che possono guidare l’innovazione per prendersi cura della salute della nostra casa comune.
Il vostro impegno per uno sviluppo sostenibile e per la salvaguardia del creato è un esempio da seguire, e la ricerca di soluzioni innovative per affrontare le sfide ambientali può incoraggiare altri Paesi a fare lo stesso. Singapore è un brillante esempio di ciò che l’umanità può realizzare lavorando insieme in armonia, con senso di responsabilità e con spirito di inclusività e fraternità. Questo è come un riassunto del vostro atteggiamento: lavorare insieme, in armonia, con senso di responsabilità e con spirito di fraternità e inclusività. Vi incoraggio a continuare su questa strada, confidando nella promessa di Dio e nel suo amore paterno per tutti.
Signor Presidente, Signore e Signori, Dio vi aiuti a rispondere ai bisogni e alle attese della vostra gente, e vi incoraggi a sperimentare che, con chi rimane umile e grato, Lui può compiere grandi cose per il bene di tutti.
Dio benedica Singapore!
«La conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica» (1Cor 8,1). San Paolo rivolge queste parole ai fratelli e alle sorelle della comunità cristiana di Corinto: una comunità ricca di molti carismi (cfr 1Cor 1,4-5), a cui l’Apostolo spesso raccomanda, nelle sue lettere, di coltivare la comunione nella carità.
Noi le ascoltiamo mentre ringraziamo insieme il Signore per la Chiesa di Singapore, pure ricca di doni, vivace, in crescita e in dialogo costruttivo con le varie altre Confessioni e Religioni con cui condivide questa terra meravigliosa.
Proprio per questo, vorrei commentare le stesse parole prendendo spunto dalla bellezza di questa città, e dalle grandi e ardite architetture che contribuiscono a renderla così famosa e affascinante, cominciando dall’impressionante complesso del National Stadium in cui ci troviamo. E vorrei farlo ricordando che, in ultima analisi, anche all’origine di queste imponenti costruzioni, come di ogni altra impresa che lasci un segno positivo in questo mondo, non ci sono, come molti pensano, prima di tutto i soldi, né la tecnica e nemmeno l’ingegneria – tutti mezzi utili, molto utili –, ma c’è l’amore: “l’amore che edifica”, appunto.
Forse qualcuno potrebbe pensare che questa sia un’affermazione ingenua, ma se riflettiamo bene non è così. Non c’è opera buona, infatti, dietro cui non ci siano delle persone magari geniali, forti, ricche, creative, ma pur sempre donne e uomini fragili, come noi, per i quali senza l’amore non c’è vita, né slancio, né motivo per agire, né forza per costruire.
Cari fratelli e sorelle, se qualcosa di buono c’è e rimane in questo mondo, è solo perché, in infinite e varie circostanze, l’amore ha prevalso sull’odio, la solidarietà sull’indifferenza, la generosità sull’egoismo. Senza questo, anche qui nessuno avrebbe potuto far crescere una metropoli così grande, gli architetti non avrebbero progettato, gli operai non avrebbero lavorato e nulla si sarebbe potuto realizzare.
Allora ciò che noi vediamo è un segno, e dietro ciascuna delle opere che ci stanno di fronte ci sono tante storie d’amore da scoprire: di uomini e donne uniti gli uni agli altri in una comunità, di cittadini dediti al loro Paese, di madri e padri solleciti per le loro famiglie, di professionisti e lavoratori di ogni genere e grado, onestamente impegnati nei loro diversi ruoli e mansioni. E ci fa bene imparare a leggerle, queste storie, scritte sulle facciate delle nostre case e sui tracciati delle nostre strade, e tramandarne la memoria, per ricordarci che nulla di duraturo nasce e cresce senza l’amore.
A volte succede che la grandezza e l’imponenza dei nostri progetti possono farcelo dimenticare, illudendoci di potere, da soli, essere gli autori di noi stessi, della nostra ricchezza, del nostro benessere, della nostra felicità, ma alla fine la vita ci riporta sempre ad un’unica realtà: senza amore non siamo nulla.
La fede, poi, ci conferma e ci illumina ancora di più circa questa certezza, perché ci dice che alla radice della nostra capacità di amare e di essere amati c’è Dio stesso, che con cuore di Padre ci ha desiderati e portati all’esistenza in modo totalmente gratuito (cfr 1Cor 8,6) e che in modo altrettanto gratuito ci ha redenti e liberati dal peccato e dalla morte, con la morte e risurrezione del suo Figlio Unigenito. È in Lui, in Gesù, che ha origine e compimento tutto ciò che siamo e che possiamo diventare.
Così nel nostro amore vediamo un riflesso dell’amore di Dio, come diceva San Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in questa terra (cfr S. Giovanni Paolo II, Omelia della Santa Messa nello Stadio Nazionale di Singapore, 20 novembre 1986), aggiungendo una frase importante, e cioè che «per questo l’amore è caratterizzato da un profondo rispetto per tutti gli uomini, a prescindere dalla loro razza, dal loro credo o da qualunque cosa li renda diversi da noi» (ivi).
Fratelli e sorelle, questa è una parola importante per noi perché, al di là dello stupore che proviamo davanti alle opere fatte dall’uomo, ci ricorda che c’è una meraviglia ancora più grande, da abbracciare con ancora maggiore ammirazione e rispetto: e cioè i fratelli e le sorelle che incontriamo ogni giorno sul nostro cammino, senza preferenze e senza differenze, come ben testimoniano la società e la Chiesa singaporiane, etnicamente così varie e al tempo stesso così unite e solidali!
L’edificio più bello, il tesoro più prezioso, l’investimento più redditizio agli occhi di Dio, qual è? Siamo noi, siamo tutti noi: figli amati dello stesso Padre (cfr Lc 6,36), chiamati a nostra volta a diffondere amore. Ce ne parlano in vari modi le letture di questa Santa Messa, che da diversi punti di vista descrivono la stessa realtà: la carità, che è delicata nel rispettare la vulnerabilità di chi è debole (cfr 1Cor 8,13), provvidente nel conoscere e accompagnare chi è incerto nel cammino della vita (cfr Sal 138), magnanima, benevola, nel perdonare oltre ogni calcolo e ogni misura (cfr Lc 6,27-38).
L’amore che Dio ci dimostra, e che ci invita a praticare a nostra volta, è così: “risponde generosamente alle necessità dei poveri, è contrassegnato dalla pietà per coloro che soffrono, pronto a offrire ospitalità, fedele nei tempi difficili, sempre disposto a perdonare, a sperare», perdonare e sperare, al punto di «ricambiare una bestemmia con una benedizione è il fulcro del Vangelo” (cfr S. Giovanni Paolo II, Omelia della Santa Messa nello Stadio Nazionale di Singapore, 20 novembre 1986).
Lo possiamo vedere in tante figure di santi: uomini e donne conquistati dal Dio della misericordia, al punto da divenirne riflesso, eco, immagine vivente. E io ne vorrei, in conclusione, ricordare due.
La prima è Maria, del cui Nome Santissimo oggi celebriamo la memoria. A quante persone hanno dato e danno speranza il suo sostegno e la sua presenza, su quante labbra è apparso e appare il suo Nome in momenti di gioia e anche di dolore! E questo perché in Lei, in Maria, noi vediamo l’amore del Padre manifestarsi in uno dei modi più belli e totali: quello della tenerezza – non dimentichiamo la tenerezza! – la tenerezza di una mamma, che tutto comprende, che tutto perdona e che non ci abbandona mai. Per questo ci rivolgiamo a Lei!
Il secondo è un santo caro a questa terra, che qui ha trovato ospitalità tante volte durante i suoi viaggi missionari. Parlo di San Francesco Saverio, accolto in questa terra in molte occasioni, l’ultima il 21 luglio 1552.
Di lui ci è rimasta una bellissima lettera indirizzata a Sant’Ignazio e ai primi compagni, in cui manifesta il suo desiderio di andare in tutte le università del suo tempo a «gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità», perché si sentano spinti a farsi missionari per amore dei fratelli, «dicendo dal profondo del loro cuore: “Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?”» (Lettera da Cochín, gennaio 1544).
Potremmo anche noi fare nostre queste parole, sull’esempio suo e di Maria: “Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?”, perché ci accompagnino non solo in questi giorni, ma sempre, come impegno costante ad ascoltare e a rispondere prontamente agli inviti all’amore e alla giustizia, che anche oggi continuano a venirci dall’infinita carità di Dio.
Incontro Interreligioso con i giovani
Grazie! Grazie per le vostre parole.
Tre parole che avete detto mi hanno colpito: “critici da salotto”, “zona di comfort” e “tecnologia” come dovere di usarla e anche rischio di usarla. Questo è il discorso che avevo preparato ma adesso andiamo [spontaneamente]
La gioventù è coraggiosa e alla gioventù piace andare verso la verità. Fare cammino, fare creatività. E la gioventù deve stare attenta a non cadere in quello che tu hai detto, i “critici da salotto”, parole parole... Un giovane dev’essere critico. Un giovane che non critica non va bene. Ma dev’essere costruttivo nella critica, perché c’è una critica distruttiva, che fa tante critiche ma non fa una strada nuova. Io domando a tutti i giovani, ad ognuno: tu sei critico? Hai il coraggio di criticare e anche il coraggio di lasciarti criticare dagli altri? Perché, se tu critichi, l’altro critica te. Questo è il dialogo sincero tra i giovani.
I giovani devono avere il coraggio di costruire, di andare avanti e uscire dalle zone “confortevoli”. Un giovane che sceglie di passare sempre la sua vita in modo “confortevole” è un giovane che ingrassa! Ma non ingrassa la pancia, ingrassa la mente! Per questo dico ai giovani: “Rischiate, uscite! Non abbiate paura!”. La paura è un atteggiamento dittatoriale che ti rende paralitico, ti procura una paralisi. È vero che tante volte i giovani sbagliano, tante, e sarebbe bello che ognuno di noi, che ognuno di voi, giovani, pensaste: quante volte ho sbagliato? Ho sbagliato perché ho incominciato a camminare e ho fatto degli errori nel cammino. E questo è normale, l’importante è rendersi conto di aver sbagliato. Faccio una domanda, vediamo chi mi risponde di voi. Cosa è peggio? Sbagliare perché faccio un cammino o non sbagliare perché rimango chiuso in casa? Tutti, la seconda! Un giovane che non rischia, che ha paura di sbagliare, è un vecchio! Capito? Voi avete parlato dei media, oggi ci sono tante capacità, tante possibilità di usare i media, il telefonino, la televisione. Io vi domando: è buono usare i media o non è buono? Pensiamo: un giovane che non usa i media, com’è quel giovane? Chiuso. Un giovane che vive totalmente schiavo dei media com’è quel giovane? È un giovane disperso. Tutti i giovani devono usare i media ma usare i media perché ci aiutino ad andare avanti, non perché ci rendano schiavi. Understood? Siete d’accordo o no?
Una delle cose che più mi ha colpito di voi giovani, di voi qui, è la capacità del dialogo interreligioso. E questo è molto importante, perché se voi incominciate a litigare: “La mia religione è più importante della tua…”, “La mia è quella vera, la tua non è vera…”. Dove porta tutto questo? Dove? Qualcuno risponda, dove? [qualcuno risponde: “La distruzione”]. È così. Tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio. Sono – faccio un paragone – come diverse lingue, diversi idiomi, per arrivare lì. Ma Dio è Dio per tutti. E poiché Dio è Dio per tutti, noi siamo tutti figli di Dio. “Ma il mio Dio è più importante del tuo!”. È vero questo? C’è un solo Dio e le nostre religioni sono lingue, cammini per arrivare a Dio. Qualcuno sikh, qualcuno musulmano, qualcuno indù, qualcuno cristiano, ma sono diversi cammini. Understood? Ma per il dialogo interreligioso fra i giovani ci vuole coraggio. Perché l’età giovanile è l’età del coraggio, ma tu puoi avere questo coraggio per fare cose che non ti aiuteranno. Invece puoi avere coraggio per andare avanti e per il dialogo.
Una cosa che aiuta tanto è il rispetto, il dialogo. Io vi dirò una cosa. Non so se succede qui, in questa città, ma in altre città succede. Fra i giovani c’è una cosa brutta: bullying. Io domando a voi: chi è il più coraggioso o la più coraggiosa per dirmi cosa pensa del bullying? [alcuni giovani rispondono] Mi è piaciuto, ognuno ha dato una definizione con un aspetto diverso del bullying. Ma sempre, sia il bullying verbale sia il bullying fisico, sempre è un’aggressione. Sempre. E pensate, nelle scuole o nei gruppi giovanili o di bambini, il bullying lo fanno con coloro che sono più deboli. Per esempio, con un bambino o una bambina disabile. E noi abbiamo visto qui questo bel ballo con bambini disabili! Ognuno di noi ha le proprie abilità e le proprie disabilità. Tutti abbiamo abilità? [rispondono: “Yes!”] E tutti abbiamo qualche disabilità? [rispondono: “Yes!”] Anche il Papa? Yes, all, all! E come noi abbiamo le nostre disabilità, dobbiamo rispettare le disabilità degli altri. You agree? E questo è importante; perché dico questo? Perché superare queste cose aiuta in quello che voi fate, il dialogo interreligioso. Perché il dialogo interreligioso si costruisce con il rispetto degli altri. E questo è molto importante.
Qualche domanda? No? Io voglio ringraziare e ripetere quello che Raaj ci ha detto: fare tutto il possibile per mantenere un atteggiamento coraggioso e promuovere uno spazio in cui i giovani possono entrare e dialogare. Perché il vostro dialogo è un dialogo che genera un cammino, che fa strada. E se voi dialogate da giovani, dialogherete anche da grandi, da adulti, dialogherete come cittadini, come politici. E vorrei dirvi una cosa sulla storia: ogni dittatura nella storia, la prima cosa che fa è tagliare il dialogo.
Vi ringrazio di queste domande e sono contento di incontrare i giovani, incontrare questi coraggiosi, quasi “sfacciati”, sono bravi! Auguro che tutti voi giovani andiate avanti con speranza e non andiate indietro! Rischiate! Altrimenti cresce la pancia! God bless you and pray for me, I do for you.
E adesso, in silenzio, preghiamo gli uni per gli altri. In silenzio.
Che Dio benedica tutti noi. E quando passerà un po’ di tempo e voi non sarete più giovani, sarete grandi e sarete anche nonni, insegnate tutte queste cose ai bambini. God bless you and pray for me, don’t forget! But pray for, not against!
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