Viaggio apostolico di papa Francesco in Ungheria

Dal 28 al 30 aprile 2023 papa Francesco si è recato in Ungheria per un viaggio apostolico. In questo articolo potrai trovare le omelie e i discorsi che ha pronunciato durante il suo viaggio.

Venerdì 28 aprile

Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico

Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali

Sabato 29 aprile

Visita ai Bambini dell’Istituto “Beato László Batthyány-Strattmann”

Incontro con i poveri e con i rifugiati

Incontro con i giovani

Domenica 30 aprile

Santa Messa

Regina Coeli

Incontro con il Mondo universitario e della cultura

Incontro del Santo Padre con i giornalisti durante il volo di ritorno


Venerdì 28 aprile

Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico

Vi saluto cordialmente e ringrazio la Signora Presidente per l’accoglienza e anche per le sue gentili e profonde parole. La politica nasce dalla città, dalla polis, dalla passione concreta per il vivere insieme garantendo diritti e rispettando doveri. Poche città ci aiutano a riflettere su questo come Budapest, che non è solo una capitale signorile e vitale, ma un luogo centrale nella storia: testimone di svolte significative lungo i secoli, è chiamata ad essere protagonista del presente e del futuro; qui, come scrisse un vostro grande poeta, «si abbracciano le morbide onde del Danubio, che è passato, presente e futuro» (A. József, Al Danubio). Vorrei dunque condividere alcuni pensieri, prendendo spunto da Budapest in quanto città di storia, città di ponti e città di santi.

1. Città di storia. Questa capitale ha origini antiche, come testimoniano i resti di epoca celtica e romana. Il suo splendore ci riporta però alla modernità, quando fu capitale dell’Impero austro-ungarico lungo quel periodo di pace noto come belle époque, che si estese dagli anni della sua fondazione fino alla prima guerra mondiale. Sorta in tempo di pace, ha conosciuto dolorosi conflitti: non solo invasioni di tempi lontani ma, nello scorso secolo, violenze e oppressioni provocate dalle dittature nazista e comunista – come scordare il 1956? E, durante la seconda guerra mondiale, la deportazione di decine e decine di migliaia di abitanti, con la restante popolazione di origine ebraica rinchiusa nel ghetto e sottoposta a numerosi eccidi. In tale contesto ci sono stati molti giusti valorosi – penso al Nunzio Angelo Rotta, per esempio –, tanta resilienza e grande impegno nel ricostruire, così che Budapest oggi è una delle città europee con la maggior percentuale di popolazione ebraica, centro di un Paese che conosce il valore della libertà e che, dopo aver pagato un alto prezzo alle dittature, porta in sé la missione di custodire il tesoro della democrazia e il sogno della pace.

A tale riguardo, vorrei tornare sulla fondazione di Budapest, che quest’anno si celebra solennemente. Essa avvenne infatti 150 anni fa, nel 1873, dall’unione di tre città: Buda Óbuda a ovest del Danubio con Pest, situata sulla riva opposta. La nascita di questa grande capitale nel cuore del continente richiama il cammino unitario intrapreso dall’Europa, nella quale l’Ungheria trova il proprio alveo vitale. Nel dopoguerra l’Europa ha rappresentato, insieme alle Nazioni Unite, la grande speranza, nel comune obiettivo che un più stretto legame fra le Nazioni prevenisse ulteriori conflitti. Purtroppo non è stato così. Nel mondo in cui viviamo, tuttavia, la passione per la politica comunitaria e per la multilateralità sembra un bel ricordo del passato: pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra. In generale, sembra essersi disgregato negli animi l’entusiasmo di edificare una comunità delle nazioni pacifica e stabile, mentre si marcano le zone, si segnano le differenze, tornano a ruggire i nazionalismi e si esasperano giudizi e toni nei confronti degli altri. A livello internazionale pare persino che la politica abbia come effetto quello di infiammare gli animi anziché di risolvere i problemi, dimentica della maturità raggiunta dopo gli orrori della guerra e regredita a una sorta di infantilismo bellico. Ma la pace non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti: attente alle persone, ai poveri e al domani; non solo al potere, ai guadagni e alle opportunità del presente.

In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea: l’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre il proprio tempo, oltre i confini nazionali e i bisogni immediati, generando diplomazie capaci di ricucire l’unità, non di allargare gli strappi. Penso a quando De Gasperi, a una tavola rotonda cui parteciparono anche Schuman e Adenauer, disse: «È per se stessa, non per opporla ad altri, che noi preconizziamo l’Europa unita… lavoriamo per l’unità, non per la divisione» (Intervento alla Tavola rotonda d’Europa, Roma, 13 ottobre 1953). E ancora, a quanto disse Schuman: «Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche», in quanto – parole memorabili! – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano» (Dichiarazione Schuman, 9 maggio 1950). In questa fase storica i pericoli sono tanti; ma, mi chiedo, anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?

2. Budapest è città di ponti. Vista dall’alto, “la perla del Danubio” mostra la sua peculiarità proprio grazie ai ponti che ne uniscono le parti, armonizzandone la configurazione a quella del grande fiume. Quest’armonia con l’ambiente mi porta a complimentarmi per la cura ecologica che questo Paese persegue con grande impegno. Ma i ponti, che congiungono realtà diverse, suggeriscono pure di riflettere sull’importanza di un’unità che non significhi uniformità. A Budapest ciò emerge dalla notevole varietà delle circoscrizioni che la compongono, più di venti. Anche l’Europa dei ventisette, costruita per creare ponti tra le nazioni, necessita del contributo di tutti senza sminuire la singolarità di alcuno. Al riguardo un padre fondatore preconizzava: «L’Europa esisterà e nulla sarà perduto di quanto fece la gloria e la felicità di ogni nazione. È proprio in una società più vasta, in un’armonia più potente, che l’individuo può affermarsi» (Intervento cit.). C’è bisogno di questa armonia: di un insieme che non appiattisca le parti e di parti che si sentano ben integrate nell’insieme, ma conservando la propria identità. È significativo in proposito quanto afferma la Costituzione ungherese: «La libertà individuale può svilupparsi solo nella collaborazione con gli altri»; e ancora: «Riteniamo che la nostra cultura nazionale sia un ricco contributo alla multicolore unità europea».

Penso dunque a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. È questa la via nefasta delle “colonizzazioni ideologiche”, che eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà, ad esempio vantando come conquista un insensato “diritto all’aborto”, che è sempre una tragica sconfitta. Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia – abbiamo Paesi in Europa con l’età media di 46-48 anni –, perseguite con attenzione in questo Paese, dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno. Il ponte più celebre di Budapest, quello delle catene, ci aiuta a immaginare un’Europa simile, formata da tanti grandi anelli diversi, che trovano la propria saldezza nel formare insieme solidi legami. In ciò la fede cristiana è di aiuto e l’Ungheria può fare da “pontiere”, avvalendosi del suo specifico carattere ecumenico: qui diverse Confessioni convivono senza antagonismi – ricordo la riunione che ho avuto con loro un anno e mezzo fa –, collaborando rispettosamente, con spirito costruttivo. Con la mente e il cuore mi dirigo all’Abbazia di Pannonhalma, uno dei grandi monumenti spirituali di questo Paese, luogo di preghiera e ponte di fraternità.

3. E questo mi porta a considerare l’ultimo aspetto: Budapest città di santi – la Signora Presidente ha parlato di Santa Elisabetta –, come ci suggerisce anche il nuovo quadro posto in questa sala. Il pensiero non può che andare a Santo Stefano, primo re d’Ungheria, vissuto in un’epoca nella quale i cristiani in Europa erano in piena comunione; la sua statua, all’interno del Castello di Buda, sovrasta e protegge la città, mentre la Basilica dedicatagli nel cuore della Capitale è, insieme con quella di Esztergom, l’edificio religioso più imponente del Paese. Dunque la storia ungherese nasce segnata dalla santità, e non solo di un re, bensì di un’intera famiglia: sua moglie, la Beata Gisella, e il figlio sant’Emerico. Questi ricevette dal padre alcune raccomandazioni, che costituiscono una sorta di testamento per il popolo magiaro. Oggi mi hanno promesso di regalarmi il tomo, lo aspetto! Vi leggiamo parole molto attuali: «Ti raccomando di essere gentile non solo verso la tua famiglia e parentela, o con i potenti e i benestanti, o con il tuo prossimo e con i tuoi abitanti, ma anche con gli stranieri». Santo Stefano motiva tutto ciò con genuino spirito cristiano, scrivendo: «È la pratica dell’amore che conduce alla felicità suprema». E chiosa dicendo: «Sii mite per non combattere mai la verità» (Ammonimenti, X). In tal modo coniuga inseparabilmente verità e mitezza. È un grande insegnamento di fede: i valori cristiani non possono essere testimoniati attraverso rigidità e chiusure, perché la verità di Cristo comporta mitezza, comporta gentilezza, nello spirito delle Beatitudini. Si radica qui quella bontà popolare ungherese, rivelata da certe espressioni del parlare comune, come ad esempio: “jónak lenni jó” [è bene essere buoni] e “jobb adni mint kapni” [è meglio dare che ricevere].

Da ciò traspare non solo la ricchezza di una solida identità, ma la necessità di apertura agli altri, come riconosce la Costituzione quando dichiara: «Rispettiamo la libertà e la cultura degli altri popoli, ci impegniamo a collaborare con tutte le nazioni del mondo». Essa afferma ancora: «Le minoranze nazionali che vivono con noi fanno parte della comunità politica ungherese e sono parti costitutive dello Stato», e si propone l’impegno «per la cura e la protezione […] delle lingue e delle culture delle minoranze nazionali in Ungheria». È veramente evangelica questa prospettiva, che contrasta una certa tendenza, giustificata talvolta in nome delle proprie tradizioni e persino della fede, a ripiegarsi su di sé.

Il Testo costitutivo, in poche e decisive parole impregnate di spirito cristiano, asserisce inoltre: «Dichiariamo essere un obbligo l’assistenza ai bisognosi e ai poveri». Ciò richiama il prosieguo della storia di santità ungherese, raccontata dai numerosi luoghi di culto della Capitale: dal primo Re, che stabilì le fondamenta del vivere comune, si passa a una Principessa che eleva l’edificio verso una purezza ulteriore. È sant’Elisabetta, la cui testimonianza ha raggiunto ogni latitudine. Questa figlia della vostra terra morì a ventiquattro anni dopo aver rinunciato a ogni bene e aver distribuito tutto ai poveri. Si dedicò sino alla fine, nell’ospedale che aveva fatto costruire, alla cura dei malati: è una gemma splendente di Vangelo.

Distinte Autorità, vorrei ringraziarvi per la promozione delle opere caritative ed educative ispirate da tali valori e nelle quali s’impegna la compagine cattolica locale, così come per il sostegno concreto a tanti cristiani provati nel mondo, specialmente in Siria e in Libano. È feconda una proficua collaborazione tra Stato e Chiesa che, per essere tale, necessita però di ben salvaguardare le opportune distinzioni. È importante che ogni cristiano lo ricordi, tenendo come punto di riferimento il Vangelo, per aderire alle scelte libere e liberanti di Gesù e non prestarsi a una sorta di collateralismo con le logiche del potere. Fa bene, da questo punto di vista, una sana laicità, che non scada nel laicismo diffuso, il quale si mostra allergico ad ogni aspetto sacro per poi immolarsi sugli altari del profitto. Chi si professa cristiano, accompagnato dai testimoni della fede, è chiamato principalmente a testimoniare e a camminare con tutti, coltivando un umanesimo ispirato dal Vangelo e instradato su due binari fondamentali: riconoscersi figli amati del Padre e amare ciascuno come fratello.

In tal senso Santo Stefano lasciava al figlio straordinarie parole di fraternità, dicendo che «adorna il paese» chi vi giunge con lingue e costumi diversi. Infatti – scriveva – «un paese che ha una sola lingua e un solo costume è debole e cadente. Per questo ti raccomando di accogliere benevolmente i forestieri e di tenerli in onore, così che preferiscano stare piuttosto da te che non altrove» (Ammonimenti, VI). È un tema, quello dell’accoglienza, che desta tanti dibattiti ai nostri giorni ed è sicuramente complesso. Tuttavia per chi è cristiano l’atteggiamento di fondo non può essere diverso da quello che santo Stefano ha trasmesso, dopo averlo appreso da Gesù, il quale si è identificato nello straniero da accogliere (cfr Mt 25,35). È pensando a Cristo presente in tanti fratelli e sorelle disperati che fuggono da conflitti, povertà e cambiamenti climatici, che occorre far fronte al problema senza scuse e indugi. È tema da affrontare insieme, comunitariamente, anche perché, nel contesto in cui viviamo, le conseguenze prima o poi si ripercuoteranno su tutti. Perciò è urgente, come Europa, lavorare a vie sicure e legali, a meccanismi condivisi di fronte a una sfida epocale che non si potrà arginare respingendo, ma va accolta per preparare un futuro che, se non sarà insieme, non sarà. Ciò chiama in prima linea chi segue Gesù e vuole imitare l’esempio dei testimoni del Vangelo.

Non è possibile citare tutti i grandi confessori della fede della Pannonia Sacra, ma vorrei almeno menzionare san Ladislao e santa Margherita, e fare riferimento a certe maestose figure del secolo scorso, come il Card. József Mindszenty, i Beati Vescovi martiri Vilmos Apor e Zoltán Meszlényi, il Beato László Batthyány-Strattmann. Sono, insieme a tanti giusti di vari credo, padri e madri della vostra Patria. A loro vorrei affidare l’avvenire di questo Paese, a me tanto caro. E mentre vi ringrazio per aver ascoltato quanto avevo in animo di condividere – vi ringrazio per la vostra pazienza –, assicuro la mia vicinanza e la mia preghiera per tutti gli ungheresi, e lo faccio con un pensiero speciale per quelli che vivono al di fuori della Patria e per quanti ho incontrato nella vita e mi hanno fatto tanto bene. Penso alla comunità religiosa ungherese che ho assistito a Buenos Aires. Isten, áldd meg a magyart! [Dio, benedici gli ungheresi!]

Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali

Sono felice di essere nuovamente qui dopo aver condiviso con voi il 52° Congresso Eucaristico Internazionale. È stato un momento di grande grazia e sono certo che i suoi frutti spirituali vi stanno accompagnando. Ringrazio Mons. Veres per il saluto che mi ha rivolto e per aver raccolto il desiderio dei cattolici di Ungheria con le seguenti parole: «In questo mondo che sta cambiando vogliamo testimoniare che Cristo è il nostro futuro». Cristo. Non “il futuro è Cristo”, no: Cristo è il nostro futuro. Non cambiare le cose. È una delle esigenze più importanti per noi: interpretare i cambiamenti e le trasformazioni della nostra epoca, cercando di affrontare al meglio le sfide pastorali. Con Cristo e in Cristo. Niente fuori dal Signore, niente lontano dal Signore.

Ma ciò è possibile guardando a Cristo come nostro futuro: Egli è «l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente» (Ap 1,8), il principio e la fine, il fondamento e la meta ultima della storia dell’umanità. Contemplando in questo tempo pasquale la sua gloria, di Lui che è «il Primo e l’Ultimo» (Ap 1,17), possiamo guardare alle tempeste che a volte si abbattono sul nostro mondo, ai cambiamenti rapidi e continui della società e alla stessa crisi di fede dell’Occidente con uno sguardo che non cede alla rassegnazione e che non perde di vista la centralità della Pasqua: Cristo risorto, centro della storia, è il futuro. La nostra vita, per quanto segnata dalla fragilità, è saldamente posta nelle sue mani. Se dimentichiamo questo, anche noi, pastori e laici, cercheremo mezzi e strumenti umani per difenderci dal mondo, chiudendoci nelle nostre oasi religiose, comode e tranquille; oppure, al contrario, ci adegueremo ai venti cangianti della mondanità e, allora, il nostro cristianesimo perderà vigore e smetteremo di essere sale della terra. Tornare a Cristo, che è il futuro, per non cadere nei venti cangianti della mondanità, che è il peggio che può accadere alla Chiesa: una Chiesa mondana.

Queste sono, perciò, le due interpretazioni – vorrei dire le due tentazioni – da cui sempre dobbiamo guardarci come Chiesa: una lettura catastrofista della storia presente, che si nutre del disfattismo di chi ripete che tutto è perduto, che non ci sono più i valori di una volta, che non si sa dove andremo a finire. È bello che il Rev. Sándor abbia manifestato la sua gratitudine a Dio che lo ha “liberato dal disfattismo”! E cosa ha fatto della sua vita, una grande cattedrale? No, una piccola chiesa d’emergenza, di campagna. Ma l’ha fatta, non si è lasciato vincere. Grazie, fratello! E poi l’altro rischio, quello della lettura ingenua del proprio tempo, che invece si fonda sulla comodità del conformismo e ci fa credere che in fondo vada tutto bene, che il mondo ormai è cambiato e bisogna adeguarsi – senza discernimento; è brutto questo. Ecco, contro il disfattismo catastrofico e il conformismo mondano il Vangelo ci dona occhi nuovi, ci dona la grazia del discernimento per entrare nel nostro tempo con un atteggiamento accogliente, ma anche con uno spirito di profezia. Quindi, con accoglienza aperta alla profezia. Non mi piace usare l’aggettivo “profetico”, si usa troppo. Sostantivo: profezia. Stiamo vivendo una crisi dei sostantivi e andiamo tanto, tanto spesso agli aggettivi. No: profezia. Spirito, atteggiamento accogliente, aperto e con profezia nel cuore.

A tale proposito, vorrei soffermarmi brevemente su una bella immagine usata da Gesù: quella della pianta di fico (cfr Mc 13,28-29). Ce la offre nel contesto del Tempio di Gerusalemme. A chi stava ad ammirare le sue belle pietre e viveva così una sorta di conformismo mondano, riponendo la sicurezza nello spazio sacro e nella sua solenne imponenza, Gesù dice che non bisogna assolutizzare niente su questa terra, perché tutto è precario e non resterà pietra su pietra – stiamo leggendo in questi giorni nell’Ufficio divino il Libro dell’Apocalisse, dove ci fa vedere che non resterà pietra su pietra – ma, allo stesso tempo, il Signore non vuole indurre allo scoraggiamento o alla paura. E perciò aggiunge: quando tutto passerà, quando crolleranno i templi umani, accadranno cose terribili e ci saranno violente persecuzioni, allora «vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (v. 26). Ed è qui che invita a guardare l’albero di fico: «Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte» (vv. 28-29). Siamo dunque chiamati ad accogliere come una pianta feconda il tempo che viviamo, con i suoi cambiamenti e le sue sfide, perché proprio attraverso tutto ciò – dice il Vangelo – il Signore si avvicina. E intanto siamo chiamati a coltivare questa nostra stagione, a leggerla, a seminarvi il Vangelo, a potare i rami secchi del male, a portare frutto. Siamo chiamati a un’accoglienza con profezia.

Accoglienza con profezia: si tratta di imparare a riconoscere i segni della presenza di Dio nella realtà, anche laddove essa non appare esplicitamente segnata dallo spirito cristiano e ci viene incontro con il suo carattere di sfida o di interrogativo. E, al contempo, si tratta di interpretare tutto alla luce del Vangelo senza farsi mondanizzare – state attenti! –, ma come annunciatori e testimoni della profezia cristiana. State attenti al processo di mondanizzazione. Cadere nella mondanità forse è il peggio che può accadere a una comunità cristiana. Vediamo che anche in questo Paese, dove la tradizione di fede rimane ben radicata, si assiste alla diffusione del secolarismo e a quanto lo accompagna, il che spesso rischia di minacciare l’integrità e la bellezza della famiglia, di esporre i giovani a modelli di vita improntati al materialismo e all’edonismo, di polarizzare il dibattito su tematiche e sfide nuove. E allora la tentazione può essere quella di irrigidirsi, di chiudersi e di assumere un atteggiamento da “combattenti”. Ma tali realtà possono rappresentare delle opportunità per noi cristiani, perché stimolano la fede e l’approfondimento di alcuni temi, invitano a chiederci in che modo queste sfide possano entrare in dialogo con il Vangelo, a cercare vie, strumenti e linguaggi nuovi. In questo senso, Benedetto XVI ha affermato che le diverse epoche di secolarizzazione vengono in aiuto alla Chiesa perché «hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore. Le secolarizzazioni infatti […] significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità» (Incontro con i cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, Freiburg im Breisgau, 25 settembre 2011). Davanti a qualsiasi sorta di secolarizzazione c’è una sfida e un invito a purificare la Chiesa da ogni sorta di mondanità. Torniamo su questa parola, che è il peggio: cadere nella mondanità è il peggio che ci può accadere. È un paganesimo soft, è un paganesimo che non ti toglie la pace, perché? perché è buono? No, perché tu sei anestetizzato.

L’impegno ad entrare in dialogo con le situazioni di oggi chiede alla Comunità cristiana di essere presente e testimoniante, di saper ascoltare le domande e le sfide senza paura o rigidità. E questo non è facile nella situazione attuale, perché non mancano anche all’interno delle fatiche. In particolare, vorrei sottolineare il sovraccarico di lavoro per i sacerdoti. Da un lato, infatti, le esigenze della vita parrocchiale e pastorale sono numerose ma, dall’altro, le vocazioni calano e i preti sono pochi, spesso avanti negli anni e con qualche segno di stanchezza. Questa è una condizione comune a molte realtà europee, rispetto alla quale è importante che tutti – pastori e laici – si sentano corresponsabili: anzitutto nella preghiera, perché le risposte vengono dal Signore e non dal mondo, dal tabernacolo e non dal computer. E poi nella passione per la pastorale vocazionale, cercando i modi per offrire con entusiasmo ai giovani il fascino della sequela di Gesù anche nella speciale consacrazione.

È bello quanto ci ha raccontato suor Krisztina… Ma è stata una vocazione difficile la sua! Perché per diventare domenicana è stata aiutata prima da un sacerdote francescano, poi dai gesuiti con gli esercizi… e alla fine è diventata domenicana. Brava! Un bel percorso hai fatto tu! È bello quello che lei ci ha raccontato circa il “discutere con Gesù” sul perché chiamasse proprio lei – voleva che chiamasse le sorelle, non lei –; c’è bisogno di chi ascolta e aiuta a discutere bene con il Signore! E, più in generale, c’è bisogno di avviare una riflessione ecclesiale – sinodale, da fare tutti insieme – per aggiornare la vita pastorale, senza accontentarsi di ripetere il passato e senza paura di riconfigurare la parrocchia sul territorio, ma ponendo come priorità l’evangelizzazione e avviando un’attiva collaborazione tra preti, catechisti, operatori pastorali, insegnanti. Siete già in cammino su questa strada: per favore, non fermatevi. Cercate le vie possibili per collaborare con gioia alla causa del Vangelo e portare avanti insieme, ciascuno col proprio carisma, la pastorale come annuncio, annuncio kerigmatico, cioè quello che muove le coscienze. È bello in tal senso quanto ci ha detto Dorina sul bisogno di raggiungere il prossimo attraverso la narrazione, la comunicazione, toccando la vita quotidiana. E qui mi fermo un po’ per sottolineare il lavoro bello dei catechisti, questo antiquum ministerium. Ci sono posti nel mondo – pensiamo all’Africa, per esempio – dove l’evangelizzazione la portano avanti i catechisti. I catechisti sono colonne della Chiesa! Grazie per quello che fate. E ringrazio i diaconi e i catechisti, che hanno un ruolo decisivo nel trasmettere la fede alle giovani generazioni, e quanti, insegnanti e formatori, sono impegnati con generosità nel campo educativo: grazie, grazie tante!

Permettetemi poi di dirvi che una buona pastorale è possibile se siamo capaci di vivere quell’amore che il Signore ci ha comandato e che è dono del suo Spirito. Se siamo distanti o divisi, se ci irrigidiamo nelle posizioni e nei gruppi, non portiamo frutto; pensiamo a noi stessi, alle nostre idee e alle nostre teologie. È triste quando ci si divide perché, anziché fare gioco di squadra, si fa il gioco del nemico: il diavolo è quello che divide, ed è un artista nel fare questo, è la sua specialità. E noi vediamo i Vescovi scollegati tra loro, i preti in tensione col Vescovo, quelli anziani in conflitto con i più giovani, i diocesani con i religiosi, i presbiteri con i laici, i latini con i greci; ci si polarizza su questioni che riguardano la vita della Chiesa, ma pure su aspetti politici e sociali, arroccandosi su posizioni ideologiche. Non lasciate entrare le ideologie! La vita di fede, l’atto di fede non può essere ridotto a ideologia: questo è del diavolo. No, per favore: il primo lavoro pastorale è la testimonianza della comunione, perché Dio è comunione ed è presente dove c’è carità fraterna. Superiamo le divisioni umane per lavorare insieme nella vigna del Signore! Immergiamoci nello spirito del Vangelo, radichiamoci nella preghiera, specialmente nell’adorazione e nell’ascolto della Parola di Dio, coltiviamo la formazione permanente, la fraternità, la vicinanza e l’attenzione agli altri. Un grande tesoro ci è stato messo nelle mani, non sprechiamolo inseguendo realtà secondarie rispetto al Vangelo!

E qui mi permetto di dirvi: state attenti al chiacchiericcio, il chiacchiericcio tra i vescovi, tra i preti, tra le suore, tra i laici… Il chiacchiericcio distrugge. Sembra una cosa tanto bella, il chiacchiericcio, una caramella di zucchero, è bello chiacchierare degli altri. Si cade spesso in questo. State attenti, perché è la strada della distruzione. Se un consacrato o un laico che vive sul serio, riuscisse a non sparlare mai di un altro, questo è un santo, una santa. Andate su questa strada: niente chiacchiericcio. “Eh, Padre, è difficile, perché a volte uno scivola: quel commento, quell’altro…”. C’è un bel rimedio contro il chiacchiericcio: la preghiera, per esempio; ma c’è un altro bel rimedio: mordersi la lingua. Sai? Ti mordi la lingua e niente chiacchiericcio. D’accordo?

E un’altra cosa vorrei dire ai preti, per offrire al Popolo santo di Dio il volto del Padre e creare uno spirito di famiglia: cerchiamo di non essere rigidi, ma di avere sguardi e approcci misericordiosi e compassionevoli. Su questo voglio sottolineare una cosa: qual è lo stile di Dio. Il primo stile di Dio è l’atteggiamento di vicinanza. Lui stesso lo disse nel Deuteronomio: “Dimmi, quale popolo ha i suoi dèi vicini a sé come tu hai vicino me?”. Dio, l’atteggiamento di Dio è vicinanza, con compassione e tenerezza. Vicinanza, compassione e tenerezza: questo è lo stile di Dio. Andiamo su questo stile. Io, sono vicino alla gente, aiuto la gente, sono compassionevole o condanno tutti? Sono tenero, soave? Per questo, niente rigidità, ma vicinanza, compassione e tenerezza. A questo proposito mi hanno colpito le parole di don József, che ha riportato alla memoria la dedizione e il ministero di suo fratello, il Beato János Brenner, barbaramente ucciso a soli 26 anni. Quanti testimoni e confessori della fede ha avuto questo popolo durante i totalitarismi dello scorso secolo! Avete sofferto tanto! Il Beato János ha vissuto sulla sua pelle tante sofferenze e sarebbe stato facile per lui serbare rancore, chiudersi, irrigidirsi. Invece è stato buon pastore. Ciò è richiesto a noi tutti, in particolare ai sacerdoti: uno sguardo misericordioso, un cuore compassionevole, che perdona sempre, che perdona sempre, che perdona sempre, che aiuta a ricominciare, che accoglie e non giudica e non caccia via, e che incoraggia e non critica, serve e non chiacchiera.

Questo atteggiamento ci allena all’accoglienza, un’accoglienza che è profezia: cioè a trasmettere la consolazione del Signore nelle situazioni di dolore e di povertà del mondo, stando vicini ai cristiani perseguitati, ai migranti che cercano ospitalità, alle persone di altre etnie, a chiunque si trovi nel bisogno. Avete in tal senso grandi esempi di santità, come San Martino. Il suo gesto di dividere il mantello con il povero è molto più che un’opera di carità: è l’immagine di Chiesa verso cui tendere, è ciò che la Chiesa di Ungheria può portare come profezia nel cuore dell’Europa: misericordia, prossimità. Ma vorrei ricordare ancora Santo Stefano, la cui reliquia è qui accanto a me: egli, che per primo affidò la nazione alla Madre di Dio, che fu intrepido evangelizzatore e fondatore di monasteri e abbazie, sapeva bene anche ascoltare e dialogare con tutti e occuparsi dei poveri: abbassò per loro le tasse e andava a fare l’elemosina travestendosi per non essere riconosciuto. Questa è la Chiesa che dobbiamo sognare: una Chiesa capace di ascolto vicendevole, di dialogo, di attenzione ai più deboli; una Chiesa accogliente verso tutti, una Chiesa coraggiosa nel portare a ciascuno la profezia del Vangelo.

Fratelli e sorelle carissimi, Cristo è il nostro futuro, perché è Lui a guidare la storia, Lui è il Signore della storia. Ne erano fermamente convinti i vostri Confessori della fede: tanti Vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi martirizzati durante la persecuzione ateista; essi testimoniano la fede granitica degli ungheresi. E questa non è esagerazione, io sono convinto: voi avete fede granitica, e ringraziamo Dio di questo. Desidero far memoria del Cardinale Mindszenty, il quale credeva nella potenza della preghiera, al punto che ancora oggi, quasi come un detto popolare, qui si ripete: «Se ci saranno un milione di ungheresi in preghiera, non avrò paura del futuro». Siate accoglienti, siate accoglienti, siate testimoni della profezia del Vangelo, ma soprattutto siate donne e uomini di preghiera, perché la storia e il futuro dipendono da questo. Io vi ringrazio per la vostra fede e per la vostra fedeltà, per tutto il bene che siete e che fate. E non posso dimenticare la testimonianza coraggiosa e paziente delle Suore ungheresi della Società di Gesù, che incontrai in Argentina dopo che avevano lasciato l’Ungheria durante la persecuzione religiosa. Erano donne di testimonianza quelle, erano brave! Con la testimonianza mi hanno fatto tanto bene. Prego per voi, perché sull’esempio dei vostri grandi testimoni di fede non siate mai colti dalla stanchezza interiore, che ci porta alla mediocrità, e andiate avanti con gioia. E vi chiedo di continuare a pregare per me.


Sabato 29 aprile

Visita ai Bambini dell’Istituto “Beato László Batthyány-Strattmann”

Grazie tante a tutti voi per l’accoglienza e la tenerezza. Grazie per i vostri canti, per i gesti, per i vostri occhi. Grazie, Signor Direttore, perché Lei ha voluto cominciare quest’atto con la preghiera di San Francesco, che è un programma di vita. Perché sempre il Santo chiede la grazia che dove non c’è qualcosa che io possa fare qualcosa, quando manca qualcosa io posso fare qualcosa. In un cammino dalla realtà come è, portare avanti, far camminare la realtà. E questo è Vangelo puro. Gesù è venuto a prendere la realtà com’era e portarla avanti. Sarebbe stato più facile prendere le idee, le ideologie e portarle avanti senza tenere conto della realtà. Questo è il cammino evangelico, questo è il cammino di Gesù. E questo è quello che Lei Signor Direttore ha voluto esprimere con la preghiera di San Francesco. Grazie. E grazie a tutti voi!


Incontro con i poveri e con i rifugiati

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono felice di essere qui in mezzo a voi. Grazie, Mons. Antal, per le sue parole di benvenuto e grazie per aver ricordato il generoso servizio che la Chiesa ungherese svolge per e con i poveri. I poveri e i bisognosi – non dimentichiamolo mai – sono al cuore del Vangelo: Gesù, infatti, è venuto, «a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). Essi, allora, ci indicano una sfida appassionante, perché la fede che professiamo non sia prigioniera di un culto distante dalla vita e non diventi preda di una sorta di “egoismo spirituale”, cioè di una spiritualità che mi costruisco a misura della mia tranquillità interiore e della mia soddisfazione. Vera fede, invece, è quella che scomoda, che rischia, che fa uscire incontro ai poveri e rende capaci di parlare con la vita il linguaggio della carità. Come afferma San Paolo, possiamo parlare tante lingue, possedere sapienza e ricchezze, ma se non abbiamo la carità non abbiamo niente e non siamo niente (cfr 1 Cor 13,1-13).

Il linguaggio della carità. È stata la lingua parlata da Santa Elisabetta, verso la quale questo popolo nutre grande devozione e affetto. Arrivando stamani, ho visto nella piazza la sua statua, con il basamento che la raffigura mentre riceve il cordone dell’ordine francescano e, contemporaneamente, dona l’acqua per dissetare un povero. È una bella immagine della fede: chi “si lega a Dio”, come fece San Francesco d’Assisi a cui Elisabetta si è ispirata, si apre alla carità verso il povero, perché «se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).Santa Elisabetta, figlia di re, era cresciuta nell’agiatezza di una vita di corte, in un ambiente lussuoso e privilegiato; eppure, toccata e trasformata dall’incontro con Cristo, ben presto sentì un rigetto verso le ricchezze e le vanità del mondo, avvertendo il desiderio di spogliarsene e di prendersi cura di chi era nel bisogno. Così, non solo spese i suoi averi, ma anche la sua vita a favore degli ultimi, dei lebbrosi, dei malati fino a curarli personalmente e a portarli sulle proprie spalle. Ecco il linguaggio della carità.

Ce ne ha parlato anche Brigitta, che ringrazio per la sua testimonianza. Tante privazioni, tanta sofferenza, tanto duro lavoro per cercare di andare avanti e di non far mancare il pane ai suoi figli e, nel momento più drammatico, il Signore le è venuto incontro per soccorrerla. Ma – l’abbiamo ascoltato dalle sue stesse parole – come è intervenuto il Signore? Egli, che ascolta il grido di chi è povero, «rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati» e «rialza chi è caduto» (Sal 146,7-8), non arriva quasi mai risolvendo dall’alto i nostri problemi, ma si fa vicino con l’abbraccio della sua tenerezza ispirando la compassione di fratelli che se ne accorgono e non restano indifferenti. Brigitta ce l’ha detto: ha potuto sperimentare la vicinanza del Signore grazie alla Chiesa greco-cattolica, a tante persone che si sono prodigate per aiutarla, incoraggiarla, trovarle un lavoro e sostenerla nei bisogni materiali e nel cammino della fede. Questa è la testimonianza che ci è richiesta: la compassione verso tutti, specialmente verso coloro che sono segnati dalla povertà, dalla malattia e dal dolore. Compassione che vuol dire “patire con”. Abbiamo bisogno di una Chiesa che parli fluentemente il linguaggio della carità, idioma universale che tutti ascoltano e comprendono, anche i più lontani, anche coloro che non credono.

E a questo proposito esprimo la mia gratitudine alla Chiesa ungherese per l’impegno profuso nella carità, un impegno capillare: avete creato una rete che collega tanti operatori pastorali, tanti volontari, le Caritas parrocchiali e diocesane, ma anche gruppi di preghiera, comunità di credenti, organizzazioni appartenenti ad altre Confessioni ma unite in quella comunione ecumenica che sgorga proprio dalla carità. E grazie per come avete accolto – non solo con generosità ma pure con entusiasmo – tanti profughi provenienti dall’Ucraina. Ho ascoltato con commozione la testimonianza di Oleg e della sua famiglia; il vostro “viaggio verso il futuro” – un futuro diverso, lontano dagli orrori della guerra – è iniziato in realtà con un “viaggio nella memoria”, perché Oleg ha ricordato la calorosa accoglienza ricevuta in Ungheria anni fa, quando venne a lavorare come cuoco. La memoria di quella esperienza lo ha incoraggiato a partire con la sua famiglia e a venire qui a Budapest, dove ha trovato generosa ospitalità. Il ricordo dell’amore ricevuto riaccende la speranza, incoraggia a intraprendere nuovi percorsi di vita. Anche nel dolore e nella sofferenza, infatti, si ritrova il coraggio di andare avanti quando si è ricevuto il balsamo dell’amore: e questa è la forza che aiuta a credere che non è tutto perduto e che un futuro diverso è possibile. L’amore che Gesù ci dona e che ci comanda di vivere contribuisce allora a estirpare dalla società, dalle città e dai luoghi in cui viviamo, i mali dell’indifferenza – è una peste l’indifferenza! – e dell’egoismo, e riaccende la speranza di un’umanità nuova, più giusta e fraterna, dove tutti possano sentirsi a casa.

Tante persone, purtroppo, anche qui, sono letteralmente senza casa: molte sorelle e fratelli segnati dalla fragilità – soli, con vari disagi fisici e mentali, distrutti dal veleno della droga, usciti di prigione o abbandonati perché anziani – sono colpiti da gravi forme di povertà materiale, culturale e spirituale, e non hanno un tetto e una casa da abitare. Zoltàn e sua moglie Anna ci hanno offerto la loro testimonianza su questa grande piaga: grazie per le vostre parole. E grazie per aver accolto quella mozione dello Spirito Santo che vi ha portato, con coraggio e generosità, a costruire un centro per accogliere persone senza fissa dimora. Mi ha colpito sentire che, insieme ai bisogni materiali, prestate attenzione alla storia e alla dignità ferita delle persone, prendendovi cura della loro solitudine, della loro fatica di sentirsi amate e benvenute al mondo. Anna ci ha detto che «è Gesù, la Parola vivente, che guarisce i loro cuori e le loro relazioni, perché la persona si ricostruisce dall’interno»; rinasce, cioè, quando sperimenta che agli occhi di Dio è amata e benedetta. Questo vale per tutta la Chiesa: non basta dare il pane che sfama lo stomaco, c’è bisogno di nutrire il cuore delle persone! La carità non è una semplice assistenza materiale e sociale, ma si preoccupa della persona intera e desidera rimetterla in piedi con l’amore di Gesù: un amore che aiuta a riacquistare bellezza e dignità.

Fare la carità significa avere il coraggio di guardare negli occhi. Tu non puoi aiutare un altro guardando da un’altra parte. Per fare la carità ci vuole il coraggio di toccare: tu non puoi buttare l’elemosina a distanza senza toccare. Toccare e guardare. E così tu toccando e guardando incominci un cammino, un cammino con quella persona bisognosa, che ti farà capire quanto bisognoso, quanto bisognosa sei tu dello sguardo e della mano del Signore.

Fratelli e sorelle, vi incoraggio a parlare sempre il linguaggio della carità. La statua in questa piazza raffigura il miracolo più famoso di santa Elisabetta: si racconta che il Signore una volta trasformò in rose il pane che portava ai bisognosi. È così anche per voi: quando vi impegnate a portare il pane agli affamati, il Signore fa fiorire la gioia e profuma la vostra esistenza con l’amore che donate. Fratelli e sorelle, vi auguro di portare sempre il profumo della carità nella Chiesa e nel vostro Paese. E vi chiedo, per favore, di continuare a pregare per me.


Incontro con i giovani

Dicsértessék a Jézus Krisztus! [Sia lodato Gesù Cristo!]

Cari fratelli e sorelle, vorrei dirvi köszönöm! [grazie!] Grazie per la danza, grazie per il canto, per le vostre testimonianze coraggiose, e grazie a ciascuno per essere qui: sono felice di stare con voi! Grazie.

Mons. Ferenc ci ha detto che la gioventù è tempo di grandi domande e di grandi risposte. È vero, ed è importante che ci sia qualcuno che provochi e ascolti le vostre domande, e che non vi dia risposte facili, risposte preconfezionate, ma vi aiuti a sfidare senza paura l’avventura della vita in cerca di risposte grandi. Le risposte preconfezionate non servono, non fanno felici. Così, infatti, faceva Gesù. Bertalan, hai detto che Gesù non è un personaggio di un libro di fiabe o il supereroe di un fumetto, ed è vero: Cristo è Dio in carne e ossa, è il Dio vivo che si fa vicino a noi; è l’Amico, il migliore degli amici, è il Fratello, il migliore dei fratelli, ed è molto bravo nel porre domande. Nel Vangelo, infatti, Lui, che è il Maestro, prima di dare risposte, fa domande. Penso a quando si trova davanti quella donna adultera contro cui tutti puntavano il dito. Gesù interviene, quelli che la accusavano se ne vanno e Lui rimane solo con lei. Allora con delicatezza le chiede: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?» (Gv 8,10). Lei risponde: «Nessuno, Signore!» (v. 11). E così, mentre lo dice, capisce che Dio non vuole condannare, ma perdonare. Mettete questo nella testa: Dio non vuole condannare, ma perdonare. Dio perdona sempre. Come si dice in ungherese “Dio perdona sempre”? [il traduttore lo dice in ungherese e il Papa lo fa ripetere ai giovani] Non dimenticatevi! Lui è pronto a rialzarci ad ogni nostra caduta! Con Lui perciò non dobbiamo mai avere paura di camminare e andare avanti nella vita. Pensiamo anche a Maria Maddalena, che al mattino di Pasqua fu la prima a vedere Gesù risorto – e aveva una storia quella donna!, ma è stata la prima a vederlo. Lei era in lacrime accanto alla tomba vuota e Gesù le domanda: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Gv 20,15). E così, toccata sul vivo, Maria di Magdala apre il cuore, gli racconta le sue angosce, rivela i suoi desideri e il suo amore: “Dov’è il Signore?”.

E guardiamo al primo incontro di Gesù con quelli che diventeranno i suoi discepoli. Due di loro, indirizzati da Giovanni Battista, gli vanno dietro. Il Signore si volta e fa un’unica domanda: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). Anch’io faccio una domanda, e ognuno risponda nel cuore, in silenzio. La mia domanda è: “Che cosa cercate? Che cosa cercate nella vita? Che cosa cerchi nel tuo cuore?”. In silenzio, ognuno risponde dentro di sé. Che cosa cerco io? Gesù non fa tanta predica, no, fa strada, fa la strada insieme a ognuno di noi; Gesù cammina vicino a ognuno di noi. Non vuole che i suoi discepoli siano scolari che ripetono una lezione, ma che siano giovani liberi e camminino, compagni di strada di un Dio che ascolta, che ascolta i loro bisogni ed è attento ai loro sogni. Poi, dopo parecchio tempo, due giovani discepoli scivolano malamente – i discepoli di Gesù sono scivolati tanto! – e fanno a Gesù una richiesta sbagliata, cioè di poter stare alla sua destra e alla sua sinistra quando Lui diventerà Re –volevano arrampicarsi, questi! Ma è interessante vedere che Gesù non li rimprovera per aver osato, non dice loro: “Come vi permettete, smettete di sognare queste cose!”. No, Gesù non abbatte i loro sogni, ma li corregge sul modo di realizzarli; accetta il loro desiderio di arrivare in alto – è buono questo – ma insiste su una cosa, da ricordare bene: non si diventa grandi scavalcando gli altri, ma abbassandosi verso gli altri; non a discapito degli altri, ma servendo gli altri (cfr Mc 10,35-45). [chiede al traduttore di ripetere l’ultima frase in ungherese] Avete capito? Vedete, amici, Gesù è felice che raggiungiamo grandi traguardi, non ci vuole pigri e poltroni, non ci vuole zitti e timidi, ci vuole vivi, attivi, protagonisti, protagonisti della storia. E non svaluta mai le nostre aspettative ma, al contrario, alza l’asticella dei nostri desideri. Gesù sarebbe d’accordo con un vostro proverbio, che spero di pronunciare bene: Aki mer az nyer [Chi osa vince].

Voi potete domandarmi: come si fa ad essere vincitori nella vita? Ci sono due passaggi fondamentali, come nello sport: primo, puntare in alto; secondo, allenarsi. Puntare in alto. Dimmi, hai un talento? Di sicuro ce l’hai, tutti l’abbiamo! Non metterlo da parte pensando che per essere felice basti il minimo indispensabile: un titolo di studio, un lavoro per guadagnare, divertirsi un po’… No, metti in gioco quello che hai! Hai una buona qualità? Investi su quella, senza paura, vai avanti! Senti nel cuore che hai una capacità che può far bene a tanti? Senti che è bello amare il Signore, creare una famiglia numerosa, aiutare chi è bisognoso? Vai avanti, non pensare che siano desideri irrealizzabili, ma investi sui grandi traguardi della vita! Questo è il primo, puntare in alto. E il secondo: allenarsi. Come? In dialogo con Gesù, che è il miglior allenatore possibile. Lui ti ascolta, Lui ti motiva, Lui crede in te, sai?, Gesù crede in te!, sa tirar fuori il meglio di te. E sempre invita a fare squadra: mai da soli ma con gli altri: questo è molto importante. Se tu vuoi maturare e crescere nella vita, vai avanti facendo squadra nella comunità, vivendo esperienze comuni. Penso, ad esempio, alle Giornate Mondiali della Gioventù, e colgo l’occasione per invitarvi alla prossima, che sarà in Portogallo, a Lisbona, all’inizio di agosto. Oggi invece c’è la grande tentazione di accontentarsi di un cellulare e di qualche amico – poca cosa, per favore! Ma, anche se questo è ciò che fanno tanti, anche se fosse quello che ti va di fare, non fa bene. Tu non puoi chiuderti in un gruppettino di amici e dialogare soltanto con il cellulare: questa è una cosa – permettetemi la parola – un po’ stupida.

C’è poi un elemento importante per allenarsi e tu, Krisztina, ce lo hai ricordato dicendo che tra mille corse, tanta frenesia e velocità, c’è una cosa essenziale che manca oggi ai giovani, e pure agli adulti. Hai detto: «Non ci concediamo tempo per il silenzio nel rumore, perché abbiamo paura della solitudine e poi ogni giorno finiamo per essere stanchi». Lo hai detto tu, Krisztina: grazie. Vorrei dirvi: in questo non abbiate paura di andare controcorrente, di trovare un tempo di silenzio ogni giorno per fermarvi e pregare. Oggi tutto vi dice che bisogna essere veloci, efficienti, praticamente perfetti, come delle macchine! Ma, cari, noi non siamo macchine! E poi ci accorgiamo che spesso finiamo la benzina e non sappiamo cosa fare. Fa tanto bene sapersi fermare per fare il pieno, per ricaricare le batterie. Ma attenzione: non per immergersi nelle proprie malinconie o rimuginare sulle proprie tristezze, non per pensare a chi mi ha fatto questo o quello, facendo teorie su come si comportano gli altri; no, questo non fa bene! Questo è un veleno, questo non si fa.

Il silenzio è il terreno su cui coltivare relazioni benefiche, perché permette di affidare a Gesù ciò che viviamo, di portargli volti e nomi, di gettare in Lui gli affanni, di passare in rassegna gli amici e dire una preghiera per loro. Il silenzio ci dà la possibilità di leggere una pagina di Vangelo che parla alla nostra vita, di adorare Dio ritrovando così la pace nel cuore. Il silenzio permette di prendere in mano un libro che non sei costretto a leggere, ma che ti aiuta a leggere l’animo umano, di osservare la natura per non stare solo a contatto con cose fatte dagli uomini e scoprire la bellezza che ci circonda. Ma il silenzio non è per incollarsi ai cellulari e ai social; no, per favore: la vita è reale, non virtuale, non avviene su uno schermo, la vita avviene nel mondo! Per favore, non virtualizzare la vita! Lo ripeto: non virtualizzare la vita, che è concreta. Capito?

Il silenzio, dunque, è la porta della preghiera e la preghiera è la porta dell’amore. Dóra, vorrei ringraziarti perché hai parlato della fede come di una storia d’amore – è bello questo, è la tua esperienza –, dove ogni giorno affronti le difficoltà dell’adolescenza, ma sai che c’è Qualcuno con te, Qualcuno per te, e che quel Qualcuno, Gesù, non ha paura di superare con te ogni ostacolo che incontri. La preghiera aiuta a fare questo, perché è dialogo con Gesù, così come la Messa è incontro con Lui, e la Confessione è l’abbraccio che si riceve da Lui. Mi viene in mente il vostro grandissimo musicista Ferenc Liszt. Durante la pulitura del suo pianoforte furono trovati dei grani del rosario che forse, rompendosi, erano caduti dentro lo strumento. È un indizio che ci fa pensare come, prima di un componimento o di un’esecuzione, magari anche dopo un momento di divertimento al pianoforte, fosse abituale per lui pregare: parlava al Signore, parlava alla Madonna di ciò che amava e metteva la sua arte e i suoi talenti nella preghiera. Pregare non è noioso! Siamo noi a renderlo noioso. Pregare è un incontro, un incontro con il Signore: è bello questo. E quando pregate, non abbiate paura di portare a Gesù tutto quello che passa nel vostro mondo interiore: gli affetti, i timori, i problemi, le aspettative, i ricordi, le speranze, tutto, anche i peccati. Lui capisce tutto. La preghiera è dialogo di vita, la preghiera è vita. Bertalan, oggi non hai avuto vergogna di raccontare a tutti l’ansia che a volte ti paralizza e le fatiche nell’avvicinarti alla fede. Che bello quando si ha il coraggio del vero, che non è mostrare di non aver mai paura, ma aprirsi e condividere le proprie fragilità con il Signore e con gli altri, senza nascondere, senza camuffare, senza indossare maschere. Grazie per la tua testimonianza, Bertalan, grazie! Il Signore, come racconta a ogni pagina il Vangelo, non fa grandi cose con persone straordinarie, ma con persone vere, limitate come noi. Invece, chi si basa sulle proprie capacità e vive di apparenze per sembrare a posto, tiene lontano Dio dal cuore perché si occupa di sé stesso soltanto. Gesù con le sue domande, con il suo amore, con il suo Spirito, ci scava dentro per fare di noi persone vere. E oggi c’è tanto bisogno di persone vere! Vi dico una cosa: sai qual è il pericolo oggi? Di essere una persona finta. Per favore, mai persona finta, sempre persona vera, con la propria verità! “Eh, Padre, io mi vergogno perché la mia realtà non è buona, sa, Padre, io ho delle mie cose dentro…”. Guarda avanti, al Signore, abbi coraggio! Il Signore ci vuole così come siamo, come siamo adesso, ci vuole bene così. Coraggio e avanti! Non spaventatevi delle vostre miserie.

E a questo proposito, ci ha colpito quanto hai detto tu, Tódor, a partire dal tuo nome, che porti in onore del beato Teodoro, un grande confessore della fede che richiama a non vivere di mezze misure. Hai voluto “far suonare la sveglia”, dicendo che lo zelo per la missione è anestetizzato dal nostro vivere nella sicurezza e nell’agio, mentre a non molti chilometri da qui la guerra e la sofferenza sono all’ordine del giorno. Ecco allora l’invito: prendere in mano la vita per aiutare il mondo a vivere in pace. Lasciamoci scomodare da questo, chiediamoci, ciascuno di noi: io che cosa faccio per gli altri, che cosa faccio per la società, che cosa faccio per la Chiesa, che cosa faccio per i miei nemici? Vivo pensando al mio bene o mi metto in gioco per qualcuno, senza calcolare i miei interessi? Per favore, interroghiamoci sulla nostra gratuità, sulla nostra capacità di amare, amare secondo Gesù, cioè di amare e servire.

Cari amici, c’è un’ultima cosa che vorrei condividere con voi, una pagina di Vangelo che riassume quanto ci siamo detti. Un anno e mezzo fa ero qui per il Congresso Eucaristico; nel Vangelo di Giovanni, al capitolo 6, c’è una bella pagina eucaristica che ha al centro un giovane. Racconta di un ragazzo che era nella folla ad ascoltare Gesù. Probabilmente sapeva che l’incontro sarebbe andato per le lunghe ed era stato previdente: aveva portato con sé il pranzo – voi avete portato un panino? Ma Gesù sente compassione per la folla – erano più di 5.000 – e la vuole sfamare; allora, nel suo stile, fa domande ai discepoli per sbloccare le loro energie. Chiede a uno di loro come fare e arriva una risposta “da ragioniere”: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo» (Gv 6,7). Come a dire: matematicamente impossibile. Un altro, nel frattempo, vede quel ragazzo e fa una constatazione, ma ancora una volta pessimistica: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v. 9). Invece a Gesù quei cinque pani e due pesci bastano, bastano e avanzano per compiere il famoso miracolo della moltiplicazione dei pani. Ognuno di noi, le piccole cose che abbiamo, anche i nostri peccati, a Gesù bastano. E noi cosa dobbiamo fare? Lasciarle nelle mani di Gesù: ecco, questo basta.

Però il Vangelo non racconta un particolare, che lascia alla nostra immaginazione: come avranno fatto i discepoli a convincere quel giovane a dare tutto ciò che aveva? Forse gli avranno chiesto di mettere a disposizione il suo pranzo e lui si sarà guardato attorno, vedendo migliaia di persone. E forse, come loro, avrà risposto dicendo: “Non basta, perché chiedete a me e non ve ne occupate voi, che siete i discepoli di Gesù? Chi sono io?”. Allora, magari, gli avranno detto che era Gesù stesso a chiederne. E Lui fa una cosa straordinaria: si fida. Quel ragazzo, che aveva il pranzo per sé, si fida, dà tutto, non tiene nulla per sé. Era venuto per ricevere da Gesù e si trova a dare a Gesù. Ma così avviene il miracolo. Nasce dalla condivisione: la moltiplicazione operata da Gesù comincia dalla condivisione di quel giovane con Lui e per gli altri. Il poco di quel ragazzo nelle mani di Gesù diventa molto. Ecco dove porta la fede: alla libertà di dare, all’entusiasmo del dono, al vincere le paure, a mettersi in gioco! Amici, ciascuno di voi è prezioso per Gesù, e anche per me! Ricordati che nessuno può prendere il tuo posto nella storia del mondo, nella storia della Chiesa, nessuno può prendere il tuo posto, nessuno può fare quello che solo tu puoi fare. Aiutiamoci allora a credere che siamo amati e preziosi, che siamo fatti per cose grandi. Preghiamo per questo e incoraggiamoci in questo! E ricordatevi anche di fare del bene a me con la vostra preghiera. Köszönöm! [grazie!]


Domenica 30 aprile

Santa Messa

Le ultime parole che Gesù pronuncia, nel Vangelo che abbiamo ascoltato, riassumono il senso della sua missione: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Questo fa un bravo pastore: dona la vita per le sue pecore. Così Gesù, come un pastore che va in cerca del suo gregge, è venuto a cercarci mentre eravamo perduti; come un pastore, è venuto a strapparci dalla morte; come un pastore, che conosce una per una le sue pecore e le ama con infinita tenerezza, ci ha fatti entrare nell’ovile del Padre, facendoci diventare suoi figli.

Contempliamo allora l’immagine del buon Pastore, e soffermiamoci su due azioni che, secondo il Vangelo, Egli compie per le sue pecore: dapprima le chiama, poi le conduce fuori.

1. Anzitutto, «chiama le sue pecore» (v. 3). All’inizio della nostra storia di salvezza non ci siamo noi con i nostri meriti, le nostre capacità, le nostre strutture; all’origine c’è la chiamata di Dio, il suo desiderio di raggiungerci, la sua sollecitudine verso ciascuno di noi, l’abbondanza della sua misericordia che vuole salvarci dal peccato e dalla morte, per donarci la vita in abbondanza e la gioia senza fine. Gesù è venuto come buon Pastore dell’umanità per chiamarci e riportarci a casa. Allora noi, facendo memoria grata, possiamo ricordare il suo amore per noi, per noi che eravamo lontani da Lui. Sì, mentre «noi tutti eravamo sperduti come un gregge» e «ognuno di noi seguiva la sua strada» (Is 53,6), Lui si è addossato le nostre iniquità e si è caricato delle nostre colpe, riportandoci nel cuore del Padre. Così abbiamo ascoltato dall’apostolo Pietro nella seconda Lettura: «Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (1 Pt 2,25). E, ancora oggi, in ogni situazione della vita, in ciò che portiamo nel cuore, nei nostri smarrimenti, nelle nostre paure, nel senso di sconfitta che a volte ci assale, nella prigione della tristezza che rischia di ingabbiarci, Egli ci chiama. Viene come buon Pastore e ci chiama per nome, per dirci quanto siamo preziosi ai suoi occhi, per curare le nostre ferite e prendere su di sé le nostre debolezze, per raccoglierci in unità nel suo ovile e renderci familiari con il Padre e tra di noi.

Fratelli e sorelle, mentre siamo qui questa mattina, sentiamo la gioia di essere popolo santo di Dio: tutti noi nasciamo dalla sua chiamata; è Lui che ci ha convocati e per questo siamo suo popolo, suo gregge, sua Chiesa. Ci ha radunati qui affinché, pur essendo tra noi diversi e appartenendo a comunità differenti, la grandezza del suo amore ci riunisca tutti in un unico abbraccio. È bello trovarci insieme: i Vescovi e i sacerdoti, i religiosi e i fedeli laici; ed è bello condividere questa gioia insieme alle Delegazioni ecumeniche, ai capi della Comunità ebraica, ai rappresentanti delle Istituzioni civili e del Corpo diplomatico. Questa è cattolicità: tutti noi, chiamati per nome dal buon Pastore, siamo chiamati ad accogliere e diffondere il suo amore, a rendere il suo ovile inclusivo e mai escludente. E, perciò, siamo tutti chiamati a coltivare relazioni di fraternità e di collaborazione, senza dividerci tra noi, senza considerare la nostra comunità come un ambiente riservato, senza farci prendere dalla preoccupazione di difendere ciascuno il proprio spazio, ma aprendoci all’amore vicendevole.

2. Dopo aver chiamato le pecore, il Pastore «le conduce fuori» (Gv 10,3). Prima le ha fatte entrare nell’ovile chiamandole, ora le spinge fuori. Prima veniamo radunati nella famiglia di Dio per essere costituiti suo popolo, poi però siamo inviati nel mondo affinché, con coraggio e senza paura, diventiamo annunciatori della Buona Notizia, testimoni dell’Amore che ci ha rigenerati. Questo movimento – entrare e uscire – possiamo coglierlo da un’altra immagine che Gesù usa: quella della porta. Egli dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (v. 9). Riascoltiamo bene questo: entrerà e uscirà. Da una parte, Gesù è la porta che si è spalancata per farci entrare nella comunione del Padre e sperimentare la sua misericordia; ma, come tutti sanno, una porta aperta serve, oltre che per entrare, anche per uscire dal luogo in cui ci si trova. E allora, dopo averci ricondotti nell’abbraccio di Dio e nell’ovile della Chiesa, Gesù è la porta che ci fa uscire verso il mondo: Egli ci spinge ad andare incontro ai fratelli. E ricordiamolo bene: tutti, nessuno escluso, siamo chiamati a questo, a uscire dalle nostre comodità e ad avere il coraggio di raggiungere ogni periferia che ha bisogno della luce del Vangelo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Fratelli e sorelle, essere “in uscita” significa per ciascuno di noi diventare, come Gesù, una porta aperta. È triste e fa male vedere porte chiuse: le porte chiuse del nostro egoismo verso chi ci cammina accanto ogni giorno; le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi “non è in regola”, chiuse verso chi anela al perdono di Dio. Fratelli e sorelle, per favore, per favore: apriamo le porte! Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno, una porta che permette a tutti di entrare a sperimentare la bellezza dell’amore e del perdono del Signore.

Ripeto questo soprattutto a me stesso, ai fratelli Vescovi e sacerdoti: a noi pastori. Perché il pastore, dice Gesù, non è un brigante o un ladro (cfr Gv 10,8); non approfitta, cioè, del suo ruolo, non opprime il gregge che gli è affidato, non “ruba” lo spazio ai fratelli laici, non esercita un’autorità rigida. Fratelli, incoraggiamoci ad essere porte sempre più aperte: “facilitatori” della grazia di Dio, esperti di vicinanza, disposti a offrire la vita, così come Gesù Cristo, nostro Signore e nostro tutto, ci insegna a braccia aperte dalla cattedra della croce e ci mostra ogni volta sull’altare, Pane vivo spezzato per noi. Lo dico anche ai fratelli e alle sorelle laici, ai catechisti, agli operatori pastorali, a chi ha responsabilità politiche e sociali, a coloro che semplicemente portano avanti la loro vita quotidiana, talvolta con fatica: siate porte aperte! Lasciamo entrare nel cuore il Signore della vita, la sua Parola che consola e guarisce, per poi uscire fuori ed essere noi stessi porte aperte nella società. Essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri, per aiutare l’Ungheria a crescere nella fraternità, via della pace.

Carissimi, Gesù buon Pastore ci chiama per nome e si prende cura di noi con infinita tenerezza. Egli è la porta e chi entra attraverso di Lui ha la vita eterna: Egli dunque è il nostro futuro, un futuro di «vita in abbondanza» (Gv 10,10). Perciò, non scoraggiamoci mai, non lasciamoci mai rubare la gioia e la pace che Lui ci ha donato, non chiudiamoci nei problemi o nell’apatia. Lasciamoci accompagnare dal nostro Pastore: con Lui la nostra vita, le nostre famiglie, le nostre comunità cristiane e l’Ungheria tutta risplendano di vita nuova!


Regina Coeli

Ringrazio il Cardinale Erdő per le sue parole. Saluto la Signora Presidente, il Primo Ministro e le Autorità presenti. Ormai prossimo a rientrare a Roma, desidero esprimere riconoscenza a loro, ai fratelli Vescovi, ai sacerdoti, alle consacrate e ai consacrati e a tutto l’amato popolo ungherese per l’accoglienza e per l’affetto che ho provato in questi giorni. Ed esprimo gratitudine a chi è giunto qui da lontano e a chi ha tanto, e tanto bene, lavorato per questa visita. A tutti dico: köszönöm, Isten fizesse! [grazie, Dio vi ricompensi!] Un ricordo speciale per gli ammalati e per gli anziani, per chi non ha potuto essere qui, per chi si sente solo e per chi ha smarrito la fede in Dio e la speranza nella vita. Vi sono vicino, prego per voi e vi benedico.

Saluto i Diplomatici e i fratelli e le sorelle di altre confessioni cristiane. Grazie per la vostra presenza e grazie perché in questo Paese confessioni e religioni diverse si incontrano e si sostengono a vicenda. Il Cardinale Erdő ha detto che qui si vive «al confine orientale della cristianità occidentale da mille anni». È bello che i confini non rappresentino frontiere che separano, ma zone di contatto; e che i credenti in Cristo mettano al primo posto la carità che unisce e non le differenze storiche, culturali e religiose che dividono. Ci accomuna il Vangelo ed è tornando lì, alle sorgenti, che il cammino tra i cristiani proseguirà secondo la volontà di Gesù, Buon Pastore che ci vuole uniti in un solo gregge.

Ci rivolgiamo ora alla Madonna. A lei, Magna Domina Hungarorum, che invocate come Regina e Patrona, affido tutti gli ungheresi. E da questa grande città e da questo nobile Paese vorrei riporre nel suo cuore la fede e il futuro dell’intero Continente europeo, a cui ho pensato in questi giorni, e in modo particolare la causa della pace. Santa Vergine, guarda ai popoli che più soffrono. Guarda soprattutto al vicino martoriato popolo ucraino e al popolo russo, a te consacrati. Tu sei la Regina della pace, infondi nei cuori degli uomini e dei responsabili delle Nazioni il desiderio di costruire la pace, di dare alle giovani generazioni un futuro di speranza, non di guerra; un avvenire pieno di culle, non di tombe; un mondo di fratelli, non di muri.

Noi guardiamo a te, Santa Madre di Dio: dopo la risurrezione di Gesù hai accompagnato i primi passi della comunità cristiana, rendendola perseverante e concorde nella preghiera (cfr At 1,14). Così hai tenuto insieme i credenti, custodendo l’unità con il tuo esempio docile e servizievole. Ti preghiamo per la Chiesa in Europa, perché ritrovi la forza della preghiera, perché riscopra in te l’umiltà e l’obbedienza, l’ardore della testimonianza e la bellezza dell’annuncio. A te affidiamo questa Chiesa e questo Paese. Tu, che hai esultato per il tuo Figlio risorto, riempi i nostri cuori della sua gioia. Cari fratelli e sorelle, questo vi auguro, di diffondere la gioia di Cristo: Isten éltessen! [Auguri!]. Grato per questi giorni, vi porto nel cuore e vi chiedo di pregare per me. Isten áld meg a magyart! [Dio benedica gli ungheresi!]


Incontro con il Mondo universitario e della cultura

Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!

Saluto ciascuno di voi e ringrazio per le belle parole che sono state dette e sulle quali mi soffermerò tra poco. Questo è l’ultimo incontro della mia visita in Ungheria e, con il cuore grato, mi piace pensare al corso del Danubio, che collega questo Paese a molti altri, unendone, oltre alla geografia, anche la storia. La cultura, in un certo senso, è come un grande fiume: collega e percorre varie regioni della vita e della storia mettendole in relazione, permette di navigare nel mondo e di abbracciare Paesi e terre lontane, disseta la mente, irriga l’anima, fa crescere la società. La stessa parola cultura deriva dal verbo coltivare: il sapere comporta una semina quotidiana che, immergendosi nei solchi della realtà, porta frutto.

Cent’anni fa Romano Guardini, grande intellettuale e uomo di fede, proprio mentre si trovava immerso in un paesaggio reso unico dalla bellezza delle acque, ebbe una feconda intuizione culturale. Scrisse: «In questi giorni ho più che mai compreso che vi sono due forme di conoscenza […], l’una conduce ad immergersi nell’oggetto e nel suo contesto, per cui l’uomo che vuol conoscere cerca di vivere in lui; l’altra, al contrario, raduna le cose, le decompone, le ordina in caselle, ne acquista padronanza e possesso, le domina» (Lettere dal Lago di Como. La tecnica e l’uomo, Brescia 2022, 55). Distingue tra una conoscenza umile e relazionale, la quale è come “un regnare che si ottiene per mezzo del servire; un creare secondo la natura, che non oltrepassa i limiti stabiliti” (cfr p. 57), e un’altra modalità di sapere, che «non osserva, ma analizza […] non s’immerge più nell’oggetto, lo afferra» (p. 56).

Ed ecco che in questo secondo modo di conoscere «le energie e le sostanze sono fatte convergere ad un unico fine: la macchina» (p. 58), e «così si sviluppa una tecnica dell’assoggettamento dell’essere vivente» (pp. 59-60). Guardini non demonizza la tecnica, la quale permette di vivere meglio, di comunicare e avere molti vantaggi, ma avverte il rischio che essa diventi regolatrice, se non dominatrice, della vita. In tal senso vedeva un grande pericolo: «L’uomo perde tutti i legami interiori che gli procurano un senso organico della misura e delle forme di espressione in armonia con la natura» e, «mentre nel suo essere interiore egli è divenuto senza contorni, senza misura, senza direzione, egli stabilisce arbitrariamente i suoi fini e costringe le forze della natura, da lui dominate, ad attuarli» (p. 60). E lasciava ai posteri una domanda inquietante: «Cosa ne sarà della vita se essa finirà sotto questo giogo? [...] Cosa accadrà […] quando ci troveremo davanti al prevalere degli imperativi della tecnica? La vita, ormai, è inquadrata in un sistema di macchine. […] In un tale sistema, la vita può rimanere vivente?» (p. 61).

La vita può rimanere vivente? È una questione che, specialmente in questo luogo, dove si approfondiscono l’informatica e le “scienze bioniche”, è bene porsi. Infatti, quanto intravisto da Guardini appare evidente ai nostri giorni: pensiamo alla crisi ecologica, con la natura che sta semplicemente reagendo all’uso strumentale che ne abbiamo fatto. Pensiamo alla mancanza di limiti, alla logica del “si può fare dunque è lecito”. Pensiamo anche alla volontà di mettere al centro di tutto non la persona e le sue relazioni, ma l’individuo centrato sui propri bisogni, avido di guadagnare e vorace di afferrare la realtà. E pensiamo di conseguenza all’erosione dei legami comunitari, per cui la solitudine e la paura, da condizioni esistenziali, paiono tramutarsi in condizioni sociali. Quanti individui isolati, molto “social” e poco sociali, ricorrono, come in un circolo vizioso, alle consolazioni della tecnica come a riempitivi del vuoto che avvertono, correndo in modo ancora più frenetico mentre, succubi di un capitalismo selvaggio, sentono come più dolorose le proprie debolezze, in una società dove la velocità esteriore va di pari passo con la fragilità interiore. Questo è il dramma. Dicendo ciò non voglio ingenerare pessimismo – sarebbe contrario alla fede che ho la gioia di professare –, ma riflettere su questa “tracotanza di essere e di avere”, che già agli albori della cultura europea Omero vedeva come minacciosa e che il paradigma tecnocratico esaspera, con un certo uso degli algoritmi che può rappresentare un ulteriore rischio di destabilizzazione dell’umano.

In un romanzo che ho più volte citato, Il padrone del mondo, di Robert Benson, si osserva «che complessità meccanica non è sinonimo di vera grandezza e che nell’esteriorità più fastosa si nasconde più sottile l’insidia» (Verona 2014, 24-25). In questo libro, in un certo senso “profetico”, scritto più di un secolo fa, viene descritto un futuro dominato dalla tecnica e nel quale tutto, in nome del progresso, viene uniformato: ovunque si predica un nuovo “umanitarismo” che annulla le differenze, azzerando le vite dei popoli e abolendo le religioni. Abolendo le differenze, tutte. Ideologie opposte convergono in una omologazione che colonizza ideologicamente. Questo è il dramma, la colonizzazione ideologica; l’uomo, a contatto con le macchine, si appiattisce sempre di più, mentre il vivere comune diventa triste e rarefatto. In quel mondo progredito ma cupo, descritto da Benson, dove tutti sembrano insensibili e anestetizzati, pare ovvio scartare i malati e applicare l’eutanasia, così come abolire le lingue e le culture nazionali per raggiungere la pace universale, che in realtà si trasforma in una persecuzione fondata sull’imposizione del consenso, tanto da far affermare a un protagonista che «il mondo sembra in balia di una vitalità perversa, che corrompe e confonde ogni cosa» (p. 145).

Mi sono protratto in questa disamina a tinte fosche perché proprio in tale contesto meglio risplendono i ruoli della cultura e dell’università. L’università è infatti, come indica il nome stesso, il luogo dove il pensiero nasce, cresce e matura aperto e sinfonico; non monocorde, non chiuso: aperto e sinfonico. È il “tempio” dove la conoscenza è chiamata a liberarsi dai confini angusti dell’avere e del possedere per diventare cultura, cioè, “coltivazione” dell’uomo e delle sue relazioni fondanti: con il trascendente, con la società, con la storia, con il creato. Afferma in proposito il Concilio Vaticano II: «La cultura deve mirare alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana. Perciò è necessario coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale» (Cost. past. Gaudium et spes, 59). Già nei tempi antichi si diceva che l’inizio del filosofare è l’ammirazione, la capacità di ammirazione. In questa prospettiva ho molto apprezzato le vostre parole. Le sue, Monsignor Rettore, quando ha detto che «in ogni vero scienziato c’è qualcosa dello scriba, del sacerdote, del profeta e del mistico»; e ancora che «con l’aiuto della scienza non vogliamo solo capire, vogliamo anche fare la cosa giusta, cioè costruire una civiltà umana e solidale, una cultura e un ambiente sostenibili. È con il cuore umile che possiamo salire non solo sul monte del Signore, ma anche sul monte della scienza».

È vero: i grandi intellettuali, infatti, sono umili. Il mistero della vita, d’altronde, si svela a chi sa entrare nelle piccole cose. È bello in proposito quanto ci ha detto Dorottya: «Scoprendo sempre più piccoli dettagli ci immergiamo nella complessità dell’opera di Dio». Così intesa, la cultura davvero rappresenta la salvaguardia dell’umano. Immerge nella contemplazione e plasma persone che non sono in balia delle mode del momento, ma ben radicate nella realtà delle cose. E che, umili discepole del sapere, sentono di dover essere aperte e comunicative, mai rigide e combattive. Chi ama la cultura, infatti, non si sente mai arrivato e a posto, ma porta in sé una sana inquietudine. Ricerca, interroga, rischia, esplora; sa uscire dalle proprie certezze per avventurarsi con umiltà nel mistero della vita, che si sposa con l’inquietudine, non con l’abitudine; che si apre alle altre culture e avverte il bisogno di condividere il sapere. Questo è lo spirito dell’università, e vi ringrazio perché lo vivete così; come ci ha detto il Professor Major, il quale ha raccontato la bellezza di cooperare con altre realtà educative, attraverso programmi di ricerca condivisi e anche accogliendo studenti provenienti da altre regioni del mondo, come il Medio Oriente, in particolare dalla martoriata Siria. È aprendosi agli altri che si conosce meglio sé stessi. L’apertura, aprirsi agli altri è come uno specchio: mi fa conoscere meglio me stesso.

La cultura ci accompagna a conoscere noi stessi. Lo ricorda il pensiero classico, che non deve mai tramontare. Vengono alla mente le celebri parole dell’oracolo di Delfi: «Conosci te stesso». È una delle due frasi-guida che vorrei lasciarvi in conclusione. Ma che cosa significa conosci te stesso? Vuol dire saper riconoscere i propri limiti e, di conseguenza, arginare la propria presunzione di autosufficienza. Ci fa bene, perché è anzitutto riconoscendoci creature che diventiamo creativi, immergendoci nel mondo anziché dominandolo. E mentre il pensiero tecnocratico insegue un progresso che non ammette limiti, l’uomo reale è fatto anche di fragilità, ed è spesso proprio lì che comprende di essere dipendente da Dio e connesso con gli altri e con il creato. La frase dell’oracolo di Delfi invita dunque a una conoscenza che, partendo dall’umiltà, partendo dal limite, partendo dall’umiltà del limite scopre le proprie meravigliose potenzialità, che vanno ben oltre quelle della tecnica. Conoscere sé stessi, in altre parole, chiede di tenere insieme, in una dialettica virtuosa, la fragilità e la grandezza dell’uomo. Dallo stupore di questo contrasto sorge la cultura: mai appagata e sempre in ricerca, inquieta e comunitaria, disciplinata nella sua finitezza e aperta all’assoluto. Vi auguro di coltivare questa appassionante scoperta della verità!

La seconda frase-guida si riferisce proprio alla verità. È una frase di Gesù Cristo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). L’Ungheria ha visto il susseguirsi di ideologie che si imponevano come verità, ma non davano libertà. E anche oggi il rischio non è scomparso: penso al passaggio dal comunismo al consumismo. Ad accomunare entrambi gli “ismi” c’è una falsa idea di libertà; quella del comunismo era una “libertà” costretta, limitata da fuori, decisa da qualcun altro; quella del consumismo è una “libertà” libertina, edonista, appiattita su di sé, che rende schiavi dei consumi e delle cose. E quanto è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo! Da una libertà frenata a una libertà senza freni. Gesù invece offre una via d’uscita, dicendo che è vero ciò che libera, quello che libera l’uomo dalle sue dipendenze e dalle sue chiusure. La chiave per accedere a questa verità è un conoscere mai slegato dall’amore, relazionale, umile e aperto, concreto e comunitario, coraggioso e costruttivo. È questo che le Università sono chiamate a coltivare e la fede ad alimentare. Auguro dunque a questa e ad ogni Università di essere un centro di universalità e di libertà, un cantiere fecondo di umanesimo, un laboratorio di speranza. Vi benedico di cuore e vi ringrazio per quanto fate. Grazie tante!


Incontro del Santo Padre con i giornalisti durante il volo di ritorno

Matteo Bruni:

Buon pomeriggio, Santità, grazie per le Sue parole in questi giorni nei tanti incontri con diverse parti della società ungherese, un po’ in continuità con gli incontri avuti nel settembre 2021; e grazie anche per questa occasione di continuare a parlare del viaggio con Lei. Grazie molte.

Papa Francesco:

Buonasera e grazie a voi per il vostro lavoro, la vostra compagnia. Sono stati tre giorni intensi ma buoni. Adesso voi avete la parola.

Matteo Bruni:

Allora, la prima domanda viene da un giornalista ungherese, Antal Hubai della televisione ungherese:

Antal Hubai – RTL KLUB:

Buongiorno, sappiamo che Lei, Santo Padre ha avuto diverse esperienze personali con gli ungheresi nel corso della sua vita. È cambiata, e se sì come, la Sua visione dopo gli incontri vissuti ora in Ungheria?

Papa Francesco:

Sì, davvero io ho avuto esperienze nel ’60 quando studiavo in Cile, tanti gesuiti ungheresi, hanno dovuto andare lì perché sono stati cacciati via dall’Ungheria. Poi sono rimasto molto amico delle suore ungheresi di Maria Ward, che avevano una scuola a 20 km da Buenos Aires. Io le visitavo due volte al mese e facevo un po’ da cappellano straordinario. Poi anche con una associazione dei laici ungheresi di Buenos Aires che lavoravano nella collegialità ungherese, li conoscevo abbastanza. Non capivo l’idioma, ma due parole le ho capite: gulasch e tokaj! È stata una bella esperienza e mi ha colpito tanto il dolore di essere rifugiati, di non poter tornare a casa; e le suore di Maria Ward che sono rimaste lì erano nascoste in appartamenti perché il regime non le portasse via. Poi ho saputo più da vicino tutta la vicenda per convincere il buon Cardinale Mindszenty di arrivare a Roma. E ho conosciuto anche l'entusiasmo del ’56 e poi la delusione dopo. Più o meno questo.

Matteo Bruni:

… se è cambiata la Sua opinione sugli ungheresi dopo questi due brevi viaggi …

Papa Francesco:

No, non è cambiata. Forse si è arricchita, arricchita nel senso che gli ungheresi che ho conosciuto hanno una grande cultura, una grande cultura; anche quelli che non erano di una classe sociale alta, anche i semplici avevano una cultura di base molto elevata. Parlavano normalmente il tedesco o l’inglese, perché l’ungherese non si parla fuori dall’Ungheria… Soltanto in paradiso si parla perché dicono che ci vuole un’eternità per impararla, la lingua ungherese! Non è cambiata, al contrario: ho visto lo stile che conoscevo.

Matteo Bruni:

La seconda domanda è di Eliana Ruggiero dell’Agi.

Eliana Ruggiero – AGI

Santo Padre, Lei ha lanciato un appello ad aprire – a ri-aprire – le porte del nostro egoismo ai poveri, ai migranti, a chi non è in regola. Nel Suo incontro con il Premier ungherese Orbán, gli ha chiesto di riaprire le frontiere della rotta balcanica che lui ha chiuso? Poi, nei giorni scorsi ha incontrato anche il Metropolita Hilarion: Hilarion e lo stesso Orbán possono diventare canali di apertura verso Mosca per accelerare un processo di pace per l’Ucraina, o rendere possibile un incontro tra Lei e il Presidente Putin? Grazie.

Papa Francesco:

Credo che la pace si faccia sempre aprendo canali, mai si può fare una pace con la chiusura. Invito tutti ad aprire rapporti, canali di amicizia. Questo non è facile. Lo stesso discorso che ho fatto in genere, l’ho fatto con Orbán e l’ho fatto un po’ dappertutto.

Sulle migrazioni: credo che sia un problema che l’Europa deve prendere in mano, perché sono cinque i Paesi che soffrono di più: Cipro, Grecia, Malta, Italia, Spagna, perché sono i Paesi mediterranei e sbarca lì la maggioranza. E se l’Europa non si fa carico di questo, di una distribuzione equa dei migranti, il problema sarà di questi Paesi soltanto. Credo che l’Europa debba far sentire che è “Unione Europea” anche davanti a questo.

C’è un altro problema che è collegato alla migrazione, ed è l’indice di natalità. Ci sono Paesi come l’Italia e la Spagna dove si fanno pochi figli. L’anno scorso ho parlato su questo in un incontro di famiglie e ultimamente ho visto che anche il Governo [italiano] e altri Governi ne parlano. L’età media in Italia è di 46 anni, per la Spagna è più alta ancora e ci sono piccoli villaggi deserti. Un programma migratorio, ma ben portato avanti sul modello che alcuni Paesi hanno seguito con la migrazione – penso per esempio alla Svezia al tempo delle dittature latinoamericane –, può aiutare anche questi Paesi che hanno una bassa percentuale di nascite.

Poi, alla fine, Hilarion. Hilarion è una persona che rispetto tanto, e abbiamo sempre avuto un bel rapporto. E lui ha avuto la cortesia di venire a trovarmi, poi è stato alla Messa, e l’ho visto anche qui, all’aeroporto. Hilarion è una persona intelligente con la quale si può parlare, e questi rapporti è necessario mantenerli, perché se parliamo di ecumenismo e poi diciamo “questo mi piace, questo non mi piace”… Dobbiamo avere la mano tesa con tutti, e anche ricevere la mano altrui. Con il patriarca Kirill ho parlato una sola volta dal momento che è iniziata la guerra, 40 minuti per zoom, poi tramite Antony, che è al posto di Hilarion, adesso, e che viene a trovarmi: è un vescovo che è stato parroco a Roma e conosce bene l’ambiente, e sempre tramite lui sono in collegamento con Kirill. È in sospeso l’incontro che noi dovevamo avere a Gerusalemme a luglio o giugno dell’anno scorso, ma per la guerra si è sospeso: quello si dovrà fare. E poi, con i russi ho un rapporto buono con l’Ambasciatore che adesso lascia, Ambasciatore da sette anni in Vaticano, è un uomo grande, un uomo comme il faut. Una persona seria, colta, molto equilibrato. Il rapporto con i russi principalmente è con questo Ambasciatore. Non so se ho detto tutto...

Eliana Ruggiero:

Se potevano in qualche modo Hilarion e anche Orbán accelerare il processo di pace in Ucraina e anche rendere possibile un incontro tra Lei e Putin, se possono fare – tra virgolette – da intermediari?

Papa Francesco:

Lei può immaginare che in questo incontro non abbiamo parlato solo di Cappuccetto Rosso, abbiamo parlato di tutte queste cose. Si parla di questo perché a tutti interessa la strada della pace. Io sono disposto, sono disposto a fare tutto quello che si deve fare. Anche adesso è in corso una missione, ma ancora non è pubblica, vediamo... Quando sarà pubblica ne parlerò.

Matteo Bruni:

La terza domanda è di Aura Maria Vistas Miguel, che è qui alla Sua sinistra.

Aura Maria Vistas Miguel - Rádio Renascença – Portogallo:

Santità, la prossima tappa è Lisbona, quindi due cose. Come si sente di salute? Perché siamo stati colti di sorpresa quando Lei è andato in ospedale, c’è chi ha detto che Lei è svenuto, allora sente energia per andare a trovare migliaia di giovani in quei giorni in agosto a Lisbona? E alla GMG le piacerebbe invitare un giovane ucraino e un giovane russo come segno di pace anche per le nuove generazioni?

Papa Francesco:

Prima di tutto la salute. Quello che ho avuto è stato un malore forte alla fine dell’Udienza del mercoledì. Non mi sono sentito di pranzare, mi sono coricato un po’. Non ho perso i sensi, ma c’era febbre alta, e alle tre del pomeriggio il medico subito mi ha portato in ospedale: una polmonite acuta e forte, nella parte bassa dei polmoni. Grazie a Dio lo posso raccontare, perché l’organismo, il corpo, ha risposto bene al trattamento. Grazie a Dio. Questo è quello che ho avuto.

Poi Lisbona: il giorno prima della partenza ho parlato con Mons. Américo [Américo Aguiar, Vescovo Ausiliare di Lisbona e presidente della Fondazione GMG 2023] che è venuto a vedere un po’ come stanno le cose… Sì ci andrò, ci andrò, e spero di farcela. Voi vedete che non è lo stesso di due anni fa, ma con il bastone… Adesso meglio, per il momento non è cancellato il viaggio. Poi c’è il viaggio a Marsiglia, poi c’è il viaggio in Mongolia, e poi c’è un ultimo non ricordo dove… Ancora il programma mi fa muovere, vediamo!

Aura Maria Vistas Miguel:

E l’incontro con i due giovani magari di Russia e Ucraina?

Papa Francesco:

Américo ha qualcosa in mente, lui sta preparando qualcosa mi ha detto… La sta ben preparando.

Matteo Bruni:

La quarta domanda è di Nicole Winfield, Santità, e poi vediamo se con i tempi riusciamo…

Nicole Winfield – Associated Press:

Santo Padre, volevo chiederLe una cosa un po’ diversa. Recentemente Lei ha fatto un gesto ecumenico molto forte, ha donato alla Grecia i tre frammenti delle sculture del Partenone, da parte dei Musei Vaticani. Questo gesto ha avuto anche un’eco fuori dal mondo ortodosso, perché molti musei dell’occidente stanno discutendo proprio la restituzione degli oggetti acquisiti durante il periodo coloniale, come un atto di giustizia nei confronti di queste persone. Volevo chiederLe se Lei fosse disponibile ad altri gesti di restituzione. Penso per esempio ai popoli e ai gruppi indigeni del Canada che hanno fatto la richiesta del ritorno di oggetti delle collezioni vaticane come parte del processo di riparazione per i danni subiti nel periodo coloniale.

Papa Francesco:

Questo, prima di tutto, è il settimo comandamento: se tu hai rubato, devi restituire! Ma c’è tutta una storia. A volte le guerre e le colonizzazioni portano a prendere queste decisioni di prendere le cose buone dell’altro. Questo è stato un gesto giusto, si doveva fare: il Partenone, dare qualcosa. E se domani vengono gli egiziani a chiedere l’obelisco, cosa faremo? Lì si deve fare un discernimento, in ogni caso. E poi la restituzione delle cose indigene: è in corso questo, con il Canada, almeno eravamo d’accordo di farlo. Adesso domanderò come va. Ma l’esperienza avuta con gli aborigeni del Canada è stata molto fruttuosa. Anche negli Stati Uniti i gesuiti stanno facendo qualcosa, con quel gruppo di indigeni dentro gli Stati Uniti, il Padre Generale mi ha raccontato l’altro giorno… Ma torniamo alla restituzione. Nella misura in cui si può restituire, che è un gesto necessario, è meglio farlo. A volte non si può, non c’è possibilità politica o possibilità reale, concreta. Ma nella misura in cui si può restituire, si faccia, per favore, questo fa bene a tutti. Per non abituarsi a mettere la mano in tasca degli altri!

Matteo Bruni:

Allora, facciamo ancora un’ultima domanda: Eva Fernández di Radio Cope, che è qui…

Eva Fernández di Radio Cope:

Il Primo Ministro ucraino ha chiesto il suo aiuto per riportare i bambini portati forzosamente in Russia, pensa che potrà aiutarlo? Grazie.

Papa Francesco

Penso di sì, perché la Santa Sede ha fatto da intermediario in alcune delle situazioni di scambio di prigionieri, e tramite l’Ambasciata è andata bene. Penso che può andare bene anche questa. È importante, almeno la Santa Sede è disposta a farlo perché è giusto, è una cosa giusta e dobbiamo aiutare, aiutare a che questo non sia un casus belli, ma un caso umano. È un problema di umanità prima che un problema di un bottino di guerra o di “trasloco” di guerra. Tutti i gesti umani aiutano, invece i gesti di crudeltà non aiutano. Dobbiamo fare tutto quello che è umanamente possibile.

Penso anche, e voglio dirlo, alle donne che vengono nei nostri Paesi: Italia, Spagna, Polonia, Ungheria, tante donne che vengono con i bambini, e i mariti o sono morti o stanno combattendo nella guerra. È vero, c’è entusiasmo e in questo momento sono aiutate; ma non bisogna perdere l’entusiasmo di fare questo, perché, quando cade l’entusiasmo, queste donne rimangono senza protezione, con il pericolo di cadere nelle mani degli avvoltoi che girano sempre cercando... Stiamo attenti a non perdere questa attenzione di aiuto che abbiamo per i rifugiati. E questo farlo tutti. Grazie.

Grazie a voi! Buona cena! Ma non so se è cena o una cosa per ingannare lo stomaco. Grazie tante del vostro lavoro.


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