Viaggio apostolico di papa Francesco a Budapest e in Slovacchia (12 - 15 settembre 2021)

"Chiedo a tutti di accompagnarmi con la preghiera, e affido le visite che compirò all’intercessione di tanti eroici confessori della fede, i quali testimoniarono in quei luoghi il Vangelo tra ostilità e persecuzioni". Papa Francesco è stato a Budapest, in Ungheria e in Slovacchia per un viaggio apostolico dal 12 al 15 settembre. In questo articolo si possono leggere tutti i discorsi tenuti durante il viaggio.

12 settembre - Budapest, Bratislava

Incontro con i Vescovi, Budapest
Santa Messa, Budapest
Angelus, Budapest
Incontro Ecumenico, Bratislava

13 settembre - Bratislava

Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico
Incontro con i Vescovi, Sacerdoti, Religiosi/e, Seminaristi e Catechisti
Incontro con la Comunità ebraica

14 settembre - Bratislava, Košice, Prešov

Divina Liturgia Bizantina di San Giovanni Crisostomo presieduta dal Santo Padre
Incontro con la Comunità Rom
Incontro con i giovani

15 settembre - Bratislava, Šaštin

Santa Messa


12 settembre - Budapest, Bratislava

Incontro con i Vescovi, Budapest

Sono molto contento di trovarmi qui in mezzo a voi in occasione della conclusione del 52° Congresso Eucaristico Internazionale. Sono grato a Mons. András Veres per il benvenuto che mi ha rivolto e anche per il regalo che mi ha fatto a nome di tutti voi: molto bello, molto bello! Grazie. E saluto tutti voi, ringraziandovi per l’accoglienza e per la promozione di questo evento, che ci ricorda la centralità dell’Eucaristia nella vita della Chiesa.

Desidero condividere alcuni pensieri proprio partendo dal gesto eucaristico: nel Pane e nel Vino vediamo Cristo che offre il suo Corpo e il suo Sangue per noi. La Chiesa di Ungheria, con la sua lunga storia, segnata da una incrollabile fede, da persecuzioni e dal sangue dei martiri, è associata in modo particolare al sacrificio di Cristo. Tanti fratelli e sorelle, tanti vescovi e presbiteri hanno vissuto ciò che celebravano sull’altare: sono stati macinati come chicchi di grano, perché tutti potessero essere sfamati dall’amore di Dio; sono stati torchiati come l’uva, perché il sangue di Cristo diventasse linfa di vita nuova; sono stati spezzati, ma la loro offerta d’amore è stata un seme evangelico di rinascita piantato nella storia di questo popolo.

Guardando a quella storia, storia passata, fatta di martirio e di sangue, possiamo incamminarci verso il futuro con lo stesso desiderio dei martiri: vivere la carità e testimoniare il Vangelo. Ma sempre bisogna tenere insieme, nella vita della Chiesa, queste due realtà: custodire il passato e guardare al futuro. Custodire le nostre radici religiose, custodire la storia da cui proveniamo, senza però restare con lo sguardo rivolto indietro: guardare al futuro, guardare avanti e trovare nuove vie per annunciare il Vangelo.

Conservo vivo nel cuore il ricordo delle Suore ungheresi della Società di Gesù (Englische Fräulein), le quali, a causa della persecuzione religiosa, dovettero lasciare la loro patria. Con il coraggio della loro personalità e la fedeltà alla vocazione fondarono il Collegio “Maria Ward” nella città di Plátanos, vicino alla capitale. Dalla loro fortezza, dal loro coraggio, dalla loro pazienza e dal loro amore alla patria ho imparato molto; per me sono state una testimonianza. Ricordandole oggi qui, rendo anche omaggio a tanti uomini e donne che dovettero andare in esilio e anche a quanti hanno dato la vita per la patria e per la fede.

Come Pastori siete chiamati anzitutto a ricordare questo al vostro popolo: la tradizione cristiana – come affermava Benedetto XVI – «non è una collezione di cose, di parole, come una scatola di cose morte; la Tradizione è il fiume della vita nuova che viene dalle origini, da Cristo fino a noi, e ci coinvolge nella storia di Dio con l’umanità» (Udienza generale, 3 maggio 2006). Avete scelto come tema del Congresso un versetto del Salmo 88: «Sono in te tutte le mie sorgenti». Ecco, la Chiesa proviene dalla sorgente che è Cristo ed è inviata perché il Vangelo, come un fiume d’acqua viva, infinitamente più largo e accogliente del vostro grande Danubio, raggiunga l’aridità del mondo e del cuore dell’uomo, purificandolo e dissetandolo. Il ministero episcopale, allora, non serve a ripetere una notizia del passato, ma è voce profetica della perenne attualità del Vangelo, nella vita del Popolo santo di Dio e nella storia di oggi.

Vorrei suggerirvi alcune indicazioni per portare avanti questa missione.

La prima: essere annunciatori del Vangelo. Non dimentichiamo che al centro della vita della Chiesa c’è l’incontro con Cristo. A volte, specialmente quando la società che ci circonda non sembra entusiasta della nostra proposta cristiana, la tentazione è quella di chiuderci nella difesa delle istituzioni e delle strutture. Il vostro Paese, oggi, è attraversato da grandi cambiamenti che investono in generale l’Europa intera. Dopo il lungo tempo in cui è stato impedito di professare la fede, con l’avvento della libertà ci sono sfide nuove da affrontare, in un contesto in cui cresce il secolarismo e si affievolisce la sete di Dio. Ma ricordiamoci: la sorgente d’acqua viva, che sempre scorre e disseta, è Cristo. Le strutture, le istituzioni, la presenza della Chiesa nella società servono solo a risvegliare nelle persone la sete di Dio e a portare loro l’acqua viva del Vangelo. Perciò, a voi Vescovi è richiesto anzitutto questo: non la burocratica amministrazione delle strutture, questo lo facciano altri; non la ricerca di privilegi e vantaggi. Per favore, siate servi. Servitori, non principi. Che cosa vi chiedo? La passione ardente per il Vangelo, così com’è: il Vangelo. Fedeltà e passione al Vangelo. Essere testimoni e annunciatori della Buona Notizia, diffusori di gioia, vicini ai sacerdoti – vicini ai sacerdoti – e ai religiosi con cuore paterno, esercitando l’arte dell’ascolto.

Mi permetto di uscire dal testo e di ricordarvi le quattro vicinanze del vescovo. La vicinanza a Dio è la prima. Io, come fratello, ti domando: tu preghi? O vai solo a dire il breviario? Il tuo cuore prega? Tu, prendi tempo per pregare? “Ma, è che sono tanto indaffarato…”. Ma nell’indaffaratismo di ogni giorno, metti anche quello: pregare. Secondo: vicinanza tra voi. La fratellanza episcopale, la conferenza episcopale, è una grazia. Nessuno di voi la pensa uguale all’altro: questa è ricchezza. Cercate però di mettere nell’unità dell’episcopato anche le differenze e non cercate la strada delle cordate. Tutti fratelli. Tu la pensi diversamente da me, ma sei fratello. Discutiamo? Discutiamo. Gridiamo? Gridiamo. Ma come fratelli, questo non si tocca: l’unità della Conferenza episcopale. È una grazia: dobbiamo chiederla. È custodire il popolo di Dio nell’unità dei vescovi. La terza vicinanza è quella che ho citato: vicinanza ai sacerdoti. Il “prossimo più prossimo” del vescovo è il prete. Io vi dico una cosa che mi addolora tanto. Ho trovato, in alcune diocesi, sia nella mia patria, quando stavo lì, nella diocesi precedente, sia adesso che sono a Roma, preti che si lamentano, difficili: ma si lamentano perché hanno voglia, hanno necessità di parlare con il vescovo. Così dicono. E tante volte ho sentito questo: “Ho chiamato e la segretaria ha detto che è troppo indaffarato, che ha guardato e mi ha detto: ‘entro tre settimane può darsi, vi darà un appuntamento di un quarto d’ora’”. E il prete dice: “no, grazie, così non voglio”, oppure: “sì”. Ma non va. Il prete sente lontano il vescovo, non lo sente padre. Vi do un consiglio, da fratello: quando voi tornerete in vescovado dopo una missione, dopo una visita a una parrocchia, stanchi, e vedrete la chiamata di un prete, chiamatelo: lo stesso giorno o al massimo il giorno seguente: non oltre. La vicinanza. E quel prete, se viene chiamato subito, saprà che ha un padre. Questo è molto importante. Vicinanza ai preti, e ciò significa anche ai religiosi. “Eh, ma sa, questo prete è difficile…”. Ma, dimmi, quale padre non ha un figlio difficile? Tutti. I figli si amano come sono, non come io vorrei che fossero. E poi, la quarta vicinanza: vicinanza al santo popolo fedele di Dio. Per favore, non dimenticatevi del vostro popolo, da dove il Signore vi ha preso. “Io ti ho preso da dietro il gregge”: non dimenticarti del gregge dal quale sei stato tolto. Paolo, che cosa raccomandava a Timoteo? “Ricorda tua mamma e tua nonna, il tuo popolo”. L’autore della Lettera agli Ebrei diceva: “Ricordati di coloro che ti hanno iniziato alla fede”. Quanti umili catechisti, quante nonne ci sono dietro. Il cuore stia vicino al popolo. È brutto quando il cuore di un vescovo si allontana dal popolo. Le quattro vicinanze. Fate un esame di coscienza su come vanno: credo bene, ma mi piace ribadirle. Vicinanza a Dio, vicinanza tra voi – “vedo alcuni con una peculiarità speciale storica, liturgica, e altri così differenti: vicinanza alla loro liturgia, alla loro storia, senza voglia di prenderli, latinizzarli: no, per favore, no. Vicinanza tra voi, vicinanza con i sacerdoti e vicinanza al santo popolo fedele di Dio. Per essere vescovo oggi – sempre, ma sottolineo, oggi – bisogna esercitare l’arte dell’ascolto. E non è facile. Non abbiate paura di dare spazio alla Parola di Dio e di coinvolgere i laici: saranno i canali attraverso i quali il fiume della fede irrigherà nuovamente l’Ungheria.

Una seconda indicazione: essere testimoni di fraternità. Il vostro Paese è luogo in cui convivono da tempo persone provenienti da altri popoli. Varie etnie, minoranze, confessioni religiose e migranti hanno trasformato anche questo Paese in un ambiente multiculturale. Questa realtà è nuova e, almeno in un primo momento, spaventa. La diversità fa sempre un po’ paura perché mette a rischio le sicurezze acquisite e provoca la stabilità raggiunta. Tuttavia, è una grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Davanti alle diversità culturali, etniche, politiche e religiose, possiamo avere due atteggiamenti: chiuderci in una rigida difesa della nostra cosiddetta identità oppure aprirci all’incontro con l’altro e coltivare insieme il sogno di una società fraterna. Mi piace qui ricordare che proprio in questa Capitale europea, nel 2017, vi siete incontrati con i rappresentanti di altre Conferenze Episcopali dell’Europa centro-orientale e avete ribadito che l’appartenenza alla propria identità non deve mai diventare motivo di ostilità e di disprezzo degli altri, bensì un aiuto per dialogare con culture diverse. Dialogare, senza negoziare la propria appartenenza.

Sopra il grande fiume che attraversa questa città si staglia l’imponente Ponte delle Catene: sostituì un fragile ponte di legno e servì a unire Buda e Pest. Se vogliamo che il fiume del Vangelo raggiunga la vita delle persone, facendo germogliare anche qui in Ungheria una società più fraterna e solidale, abbiamo bisogno che la Chiesa costruisca nuovi ponti di dialogo. Come Vescovi, vi chiedo di mostrare sempre, insieme ai sacerdoti e ai collaboratori pastorali, il volto vero della Chiesa: è madre. È madre! Un volto accogliente verso tutti, anche verso chi proviene da fuori, un volto fraterno, aperto al dialogo. Siate Pastori che hanno a cuore la fraternità. Non padroni del gregge, ma padri e fratelli. Lo stile della fraternità, che vi chiedo di coltivare con i sacerdoti e con tutto il Popolo di Dio, diventi un segno luminoso per l’Ungheria. Così, prenderà forma una Chiesa in cui specialmente i laici, in ogni ambito della loro vita quotidiana, familiare, sociale e professionale, diventeranno lievito di fraternità evangelica. La Chiesa ungherese sia costruttrice di ponti e promotrice di dialogo!

Infine, la terza cosa, essere costruttori di speranza. Se mettiamo il Vangelo al centro e lo testimoniamo nell’amore fraterno, possiamo guardare al futuro con speranza, anche se oggi attraversiamo piccole o grandi tempeste. Questo è ciò che la Chiesa è chiamata a diffondere nella vita delle persone: la certezza rasserenante che Dio è misericordia, che ci ama in ogni istante della vita ed è sempre pronto a perdonarci e a rialzarci. Non dimenticatevi lo stile di Dio, che è uno stile di prossimità, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio. Andiamo su questa strada, con lo stesso stile. La tentazione di abbatterci e scoraggiarci non viene mai da Dio. Mai. Viene dal nemico, ma si alimenta in tante situazioni: dietro la facciata del benessere, dietro un vestito di tradizioni religiose si possono nascondere tanti lati oscuri. La Chiesa in Ungheria ha avuto recentemente modo di riflettere su come il passaggio dall’epoca della dittatura a quello di una ritrovata libertà sia una transizione segnata da contraddizioni: il degrado della vita morale, l’aumento della malavita, il commercio della droga, fino alla piaga del traffico di organi e a tanti fatti di bambini, assassinati per questo. Ci sono problemi sociali: le difficoltà delle famiglie, la povertà, le ferite che colpiscono il mondo giovanile, in un contesto nel quale la democrazia ha ancora bisogno di consolidarsi. La Chiesa non può che essere protagonista di vicinanza, dispensatrice di attenzione e consolazione per le persone, affinché non si lascino mai rubare la luce della speranza. L’annuncio del Vangelo rinvigorisce la speranza perché ci ricorda che in tutto ciò che viviamo Dio è presente, ci accompagna, ci dà coraggio, ci dà creatività per iniziare sempre una storia nuova. È commovente ricordare quanto affermava il Venerabile Cardinale József Mindszenty, figlio e padre di questa Chiesa e di questa terra, il quale, alla fine di una vita colma di sofferenze a causa della persecuzione, ha lasciato queste parole di speranza: «Dio è giovane. Il futuro è suo. È Lui che evoca ciò che è nuovo, giovane e il domani negli individui e nei popoli. Perciò non possiamo abbandonarci alla disperazione» (Messaggio al Presidente del Comitato organizzatore e agli ungheresi in esilio, in J. Közi Horváth, Mindszenty bíboros, 111). Dio è giovane.

Davanti alle crisi, sociali o ecclesiali, possiate sempre essere costruttori di speranza. Come Vescovi del Paese, avere sempre parole di incoraggiamento. Non si trovino sulle vostre labbra espressioni che segnano distanze e impongono giudizi, ma che aiutino il Popolo di Dio a guardare con fiducia al futuro, aiutino le persone a diventare protagoniste libere e responsabili della vita, che è un dono di grazia da accogliere, non un rompicapo da risolvere. Il cubo del vostro bravo e celebre architetto Rubik rimane un gioco geniale, non un modello per la vita! E ricordatevi: pastori del gregge. Il pastore deve essere dentro al gregge: all’inizio del gregge per indicare il cammino, in mezzo al gregge per capirne l’odore, dietro al gregge per aiutare coloro che rimangono indietro e anche per lasciare che il gregge vada un po’ avanti, perché ha un fiuto speciale per indicare dove ci sono i terreni buoni, nutrienti.

Cari fratelli, anche l’Ungheria ha bisogno di un rinnovato annuncio del Vangelo, di una nuova fraternità sociale e religiosa, di una speranza da costruire giorno per giorno per guardare al futuro con gioia. Voi siete i Pastori protagonisti di questo processo storico, di questa bella avventura. Fratelli, Dio vi confermi nella gioia della missione – la gioia della missione! Io vi ringrazio per tutto quello che fate e vi benedico di cuore. La Madonna vi protegga e San Giuseppe vi custodisca. E, se avete un po’ di tempo, pregate per il Papa. Grazie.

Santa Messa, Budapest

A Cesarea di Filippo Gesù chiede ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29). Questa domanda mette alle strette i discepoli e segna una svolta nel loro cammino dietro al Maestro. Essi conoscevano bene Gesù, non erano più dei principianti: avevano familiarità con Lui, erano stati testimoni di molti miracoli compiuti, rimanevano colpiti dal suo insegnamento, lo seguivano dovunque andava. Eppure, non pensavano ancora come Lui. Mancava il passaggio decisivo, quello dall’ammirazione per Gesù all’imitazione di Gesù. Anche oggi il Signore, fissando lo sguardo su ognuno di noi, ci interpella personalmente: “Ma io chi sono davvero per te?”. Chi sono per te? È una domanda che, rivolta a ciascuno di noi, non chiede solo una risposta esatta, da catechismo, ma una risposta personale, una risposta di vita.

Da questa risposta nasce il rinnovamento del discepolato. Esso avviene attraverso tre passaggi, che fecero i discepoli e possiamo compiere anche noi: l’annuncio di Gesù il primo, il discernimento con Gesù il secondo, il cammino dietro a Gesù il terzo.

1. L’annuncio di Gesù. A quel “Ma voi, chi dite che io sia?” rispose Pietro, come rappresentante dell’intero gruppo: «Tu sei il Cristo». Pietro dice tutto in poche parole, la risposta è giusta, ma sorprendentemente, dopo questo riconoscimento Gesù ordina «severamente di non parlare ad alcuno di lui» (v. 30). Ci domandiamo: perché un divieto così drastico? Per una ragione precisa: dire che Gesù è il Cristo, il Messia, è esatto ma incompleto. C’è sempre il rischio di annunciare una falsa messianicità, secondo gli uomini e non secondo Dio. Perciò, a partire da quel momento, Gesù comincia a rivelare la sua identità, quella pasquale, quella che troviamo nell’Eucaristia. Spiega che la sua missione sarebbe culminata, sì, nella gloria della risurrezione, ma passando attraverso l’umiliazione della croce. Si sarebbe cioè svolta secondo la sapienza di Dio, «che – dice San Paolo – non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo» (1 Cor 2,6). Gesù impone il silenzio sulla sua identità messianica, non però sulla croce che lo attende. Anzi – annota l’evangelista – Gesù comincia ad insegnare «apertamente» (Mc 8,32) che «il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (v. 31).

Di fronte a questo annuncio di Gesù, annuncio sconvolgente, possiamo rimanere anche noi esterrefatti. Anche noi vorremmo un messia potente anziché un servo crocifisso. L’Eucaristia sta davanti a noi per ricordarci chi è Dio. Non lo fa a parole, ma concretamente, mostrandoci Dio come Pane spezzato, come Amore crocifisso e donato. Possiamo aggiungere tanta cerimonia, ma il Signore rimane lì, nella semplicità di un Pane che si lascia spezzare, distribuire e mangiare. È lì: per salvarci si fa servo; per darci vita, muore. Ci fa bene lasciarci sconvolgere dall’annuncio di Gesù. E chi si apre a questo annuncio di Gesù, si apre al secondo passaggio.

2. Il discernimento con Gesù. Di fronte all’annuncio del Signore, la reazione di Pietro è tipicamente umana: quando si profila la croce, la prospettiva del dolore, l’uomo si ribella. E Pietro, dopo aver confessato la messianicità di Gesù, si scandalizza delle parole del Maestro e tenta di dissuaderlo dal procedere sulla sua via. La croce non è mai di moda. Cari fratelli e sorelle, la croce non è mai di moda: oggi come in passato. Ma guarisce dentro. È davanti al Crocifisso che sperimentiamo una benefica lotta interiore, l’aspro conflitto tra il “pensare secondo Dio” e il “pensare secondo gli uomini”. Da un lato, c’è la logica di Dio, che è quella dell’amore umile. La via di Dio rifugge da ogni imposizione, ostentazione, da ogni trionfalismo, è sempre protesa al bene altrui, fino al sacrificio di sé. Dall’altro lato c’è il “pensare secondo gli uomini”: è la logica del mondo, della mondanità, attaccata all’onore e ai privilegi, rivolta al prestigio e al successo. Qui contano la rilevanza e la forza, ciò che attira l’attenzione dei più e sa farsi valere di fronte agli altri.

Abbagliato da questa prospettiva, Pietro prende in disparte Gesù e si mette a rimproverarlo (cfr v. 32). Prima lo aveva confessato, adesso lo rimprovera. Può capitare anche a noi di mettere il Signore “in disparte”, di metterlo in un angolo del cuore, continuando a ritenerci religiosi e per bene e ad andare avanti per la nostra strada senza lasciarci conquistare dalla logica di Gesù. Ma c’è una verità: Egli però ci accompagna, ci accompagna in questa lotta interiore, perché desidera che, come gli Apostoli, scegliamo la sua parte. C’è la parte di Dio e c’è la parte del mondo. La differenza non è tra chi è religioso e chi no. La differenza cruciale è tra il vero Dio e il dio del nostro io. Quanto è distante Colui che regna in silenzio sulla croce dal falso dio che vorremmo regnasse con la forza e riducesse al silenzio i nostri nemici! Quanto è diverso Cristo, che si propone solo con amore, dai messia potenti e vincenti adulati dal mondo! Gesù ci scuote, non si accontenta delle dichiarazioni di fede, ci chiede di purificare la nostra religiosità davanti alla sua croce, davanti all’Eucaristia. Ci fa bene stare in adorazione davanti all’Eucaristia per contemplare la fragilità di Dio. Dedichiamo tempo all’adorazione. È un modo di pregare che si dimentica troppo. Dedichiamo tempo all’adorazione. Lasciamo che Gesù Pane vivo risani le nostre chiusure e ci apra alla condivisione, ci guarisca dalle nostre rigidità e dal ripiegamento su noi stessi; ci liberi dalla schiavitù paralizzante del difendere la nostra immagine, ci ispiri a seguirlo dove Lui vuole condurci. Non dove voglio io. Eccoci così giunti al terzo passaggio.

3. Il cammino dietro a Gesù, anche il cammino con Gesù. «Va’ dietro a me, Satana» (v. 33). Così Gesù riconduce Pietro a sé, con un comando accorato, forte. Ma il Signore, quando comanda qualcosa, in realtà è lì, pronto a donarla. E Pietro accoglie la grazia di fare “un passo indietro”. Il cammino cristiano non è una rincorsa al successo, ma comincia con un passo indietro – ricordate questo: il cammino cristiano comincia con un passo indietro –, con un decentramento liberatorio, con il togliersi dal centro della vita. Allora Pietro riconosce che il centro non è il suo Gesù, ma il vero Gesù. Cadrà ancora, ma di perdono in perdono riconoscerà sempre meglio il volto di Dio. E passerà dall’ammirazione sterile per Cristo all’imitazione concreta di Cristo.

Che cosa vuol dire camminare dietro a Gesù? È andare avanti nella vita con la sua stessa fiducia, quella di essere figli amati di Dio. È percorrere la stessa via del Maestro, venuto per servire e non per essere servito (cfr Mc 10,45). Camminare dietro a Gesù è muovere ogni giorno i nostri passi incontro al fratello. Lì ci spinge l’Eucaristia: a sentirci un solo Corpo, a spezzarci per gli altri. Cari fratelli e sorelle, lasciamo che l’incontro con Gesù nell’Eucaristia ci trasformi, come ha trasformato i Santi grandi e coraggiosi che onorate, penso a Santo Stefano e Santa Elisabetta. Come loro, non accontentiamoci di poco; non rassegniamoci a una fede che vive di riti e di ripetizioni, apriamoci alla novità scandalosa del Dio crocifisso e risorto, Pane spezzato per dare vita al mondo. Saremo nella gioia; e porteremo gioia.

Questo Congresso Eucaristico Internazionale è un punto di arrivo di un percorso, ma sia soprattutto un punto di partenza. Perché il cammino dietro a Gesù invita a guardare avanti, ad accogliere la svolta della grazia, a far rivivere ogni giorno in noi quell’interrogativo che, come a Cesarea di Filippo, il Signore rivolge a ognuno di noi suoi discepoli: Ma voi, chi dite che io sia?

Angelus, Budapest

Eucaristia significa “azione di grazie” e al termine di questa Celebrazione, che chiude il Congresso Eucaristico e la mia visita a Budapest, vorrei di cuore rendere grazie. Grazie alla grande famiglia cristiana ungherese, che desidero abbracciare nei suoi riti, nella sua storia, nelle sorelle e nei fratelli cattolici e di altre Confessioni, tutti in cammino verso la piena unità. A questo proposito saluto di cuore il Patriarca Bartolomeo, Fratello che ci onora con la sua presenza. Grazie, in particolare, ai miei amati Fratelli vescovi, ai sacerdoti, ai consacrati e alle consacrate, e a tutti voi, cari fedeli! Un ringraziamento grande a chi tanto si è adoperato per la realizzazione del Congresso Eucaristico e di questa giornata.

Nel rinnovare la gratitudine alle Autorità civili e religiose che mi hanno accolto, vorrei dire köszönöm [grazie]: grazie a te, popolo di Ungheria. L’Inno che ha accompagnato il Congresso si rivolge a te così: «Per mille anni la croce fu colonna della tua salvezza, anche ora il segno di Cristo sia per te la promessa di un futuro migliore». Questo vi auguro, che la croce sia il vostro ponte tra il passato e il futuro! Il sentimento religioso è la linfa di questa nazione, tanto attaccata alle sue radici. Ma la croce, piantata nel terreno, oltre a invitarci a radicarci bene, innalza ed estende le sue braccia verso tutti: esorta a mantenere salde le radici, ma senza arroccamenti; ad attingere alle sorgenti, aprendoci agli assetati del nostro tempo. Il mio augurio è che siate così: fondati e aperti, radicati e rispettosi. Isten éltessen! [Auguri!] La “Croce della missione” è il simbolo di questo Congresso: vi porti ad annunciare con la vita il Vangelo liberante della tenerezza sconfinata di Dio per ciascuno. Nella carestia di amore di oggi, è il nutrimento che l’uomo attende.

Oggi, non lontano da qua, a Varsavia, vengono proclamati Beati due testimoni del Vangelo: il Cardinale Stefan Wyszyński ed Elisabetta Czacka, fondatrice delle Suore Francescane Serve della Croce. Due figure che conobbero da vicino la croce: il Primate di Polonia, arrestato e segregato, fu sempre pastore coraggioso secondo il cuore di Cristo, araldo della libertà e della dignità dell’uomo; Suor Elisabetta, che giovanissima perse la vista, dedicò tutta la vita ad aiutare i ciechi. L’esempio dei nuovi Beati ci stimoli a trasformare le tenebre in luce con la forza dell’amore.

Infine preghiamo l’Angelus, nel giorno in cui veneriamo il santissimo nome di Maria. Anticamente, per rispetto, voi ungheresi non pronunciavate il nome di Maria, ma la chiamavate con lo stesso titolo onorifico utilizzato per la regina. La “Beata Regina, vostra antica patrona” vi accompagni e vi benedica! La mia Benedizione, da questa grande città, vuole raggiungere tutti, in particolare i bambini e i giovani, gli anziani e gli ammalati, i poveri e gli esclusi. Con voi e per voi dico: Isten, áldd meg a magyart! [Dio benedica gli ungheresi!]

Incontro Ecumenico, Bratislava

Cari Membri del Consiglio Ecumenico delle Chiese nella Repubblica Slovacca,

vi saluto cordialmente e vi ringrazio per aver accolto l’invito ed essermi venuti incontro: io pellegrino in Slovacchia, voi graditi ospiti in Nunziatura! Sono contento che il primo incontro sia con voi: è un segno che la fede cristiana è – e vuole essere – in questo Paese germe di unità e lievito di fraternità. Grazie Beatitudine, Fratello Rastislav, per la sua presenza; grazie, caro Vescovo Ivan, Presidente del Consiglio Ecumenico, per le parole che mi ha rivolto e che testimoniano l’impegno di voler continuare a camminare insieme per passare dal conflitto alla comunione.

Il cammino delle vostre comunità è ripartito dopo gli anni della persecuzione ateista, quando la libertà religiosa era impedita o messa a dura prova. Poi, finalmente, è arrivata. E ora vi accomuna un tratto di percorso nel quale sperimentate quanto sia bello, ma al tempo stesso difficile, vivere la fede da liberi. C’è infatti la tentazione di ritornare schiavi, non certo di un regime, ma di una schiavitù ancora peggiore, quella interiore.

È ciò da cui metteva in guardia Dostoevskij in un racconto celebre, la Leggenda del Grande Inquisitore. Gesù è ritornato sulla Terra e viene imprigionato. L’inquisitore rivolge parole sferzanti: l’accusa che gli muove è proprio quella di aver dato troppa importanza alla libertà degli uomini. Gli dice: «Tu vuoi andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con la promessa di una libertà che essi, nella loro semplicità e nel loro disordine innato, non possono neppure concepire, della quale hanno paura e terrore, perché nulla è mai stato più intollerabile della libertà per l’uomo!» (I Fratelli Karamazov, Milano 2012, p. 338). E rincara la dose, aggiungendo che gli uomini sono disposti a barattare volentieri la loro libertà con una schiavitù più comoda, quella di assoggettarsi a qualcuno che decida per loro, pur di avere pane e sicurezze. E così arriva a rimproverare Gesù di non aver voluto diventare Cesare per piegare la coscienza degli uomini e stabilire la pace con la forza. Invece, ha continuato a preferire per l’uomo libertà, mentre l’umanità reclama “pane e poco altro”.

Cari Fratelli, non ci accada questo; aiutiamoci a non cadere nella trappola di accontentarci di pane e di poco altro. Perché questo rischio sopraggiunge quando la situazione si normalizza, quando ci siamo stabilizzati e ci adagiamo ambendo a mantenere il quieto vivere. Allora, ciò a cui si punta non è più «la libertà che abbiamo in Cristo Gesù» (Gal 2,4), la sua verità che ci fa liberi (cfr Gv 8,32), ma l’ottenere spazi e privilegi. Che, secondo il Vangelo, è “pane e poco altro”. Qui, dal cuore dell’Europa, viene da chiedersi: noi cristiani abbiamo un po’ smarrito l’ardore dell’annuncio e la profezia della testimonianza? È la verità del Vangelo a farci liberi oppure ci sentiamo liberi quando ricaviamo comfort zone che ci permettono di gestirci e di andare avanti tranquilli senza particolari contraccolpi? E ancora, accontentandoci di pane e sicurezze, abbiamo forse perso lo slancio nella ricerca dell’unità implorata da Gesù, unità che certamente richiede la libertà matura di scelte forti, rinunce e sacrifici, ma è la premessa perché il mondo creda (cfr Gv 17,21)? Non interessiamoci solo di quanto può giovare alle nostre singole comunità. La libertà del fratello e della sorella è anche la nostra libertà, perché la nostra libertà non è piena senza di lui e di lei.

Qui l’evangelizzazione è sorta in modo fraterno, portando impresso il sigillo dei santi fratelli di Tessalonica Cirillo e Metodio. Essi, testimoni di una cristianità ancora unita e infuocata dall’ardore dell’annuncio, ci aiutino a proseguire nel cammino coltivando la comunione fraterna tra di noi nel nome di Gesù. D’altronde, come possiamo auspicare un’Europa che ritrovi le proprie radici cristiane se siamo noi per primi sradicati dalla piena comunione? Come possiamo sognare un’Europa libera da ideologie, se non abbiamo il coraggio di anteporre la libertà di Gesù alle necessità dei singoli gruppi dei credenti? È difficile esigere un’Europa più fecondata dal Vangelo senza preoccuparsi del fatto che non siamo ancora pienamente uniti tra noi nel continente e senza avere cura gli uni degli altri. Calcoli di convenienza, ragioni storiche e legami politici non possono essere ostacoli irremovibili sul nostro cammino. Ci aiutino i Santi Cirillo e Metodio, «precursori dell’ecumenismo» (S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Slavorum Apostoli, 14), a prodigarci per una riconciliazione delle diversità nello Spirito Santo; per un’unità che, senza essere uniformità, sia segno e testimonianza della libertà di Cristo, il Signore che scioglie i lacci del passato e ci guarisce da paure e timidezze.

Ai loro tempi, Cirillo e Metodio hanno permesso che la Parola divina si incarnasse in queste terre (cfr Gv 1,14). Vorrei condividere con voi due suggerimenti in questa prospettiva, consigli fraterni per diffondere il Vangelo della libertà e dell’unità oggi. Il primo consiglio, il primo suggerimento riguarda la contemplazione. Un carattere distintivo dei popoli slavi, che sta a voi custodire insieme, è il tratto contemplativo, che va oltre le concettualizzazioni filosofiche e anche teologiche, a partire da una fede esperienziale, che sa accogliere il mistero. Aiutatevi a coltivare questa tradizione spirituale, di cui l’Europa ha tanto bisogno: in particolare ne ha sete l’Occidente ecclesiale, per ritrovare la bellezza dell’adorazione di Dio e l’importanza di non concepire la comunità di fede anzitutto sulla base di un’efficienza programmatica e funzionale.

Il secondo consiglio riguarda invece l’azione. L’unità non si ottiene tanto con i buoni propositi e con l’adesione a qualche valore comune, ma facendo qualcosa insieme per quanti ci avvicinano maggiormente al Signore. Chi sono? Sono i poveri, perché in loro Gesù è presente (cfr Mt 25,40). Condividere la carità apre orizzonti più ampi e aiuta a camminare più spediti, superando pregiudizi e fraintendimenti. Ed è anch’esso un tratto che trova genuina accoglienza in questo Paese, dove a scuola s’impara a memoria una poesia, che contiene, tra gli altri, un passaggio molto bello: «Quando alla nostra porta bussa la mano straniera con sincera fiducia: chiunque sia, se viene da vicino oppure da lontano, di giorno o di notte, sul nostro tavolo ci sarà il dono di Dio ad attenderlo» (Samo Chalupka, Mor ho!, 1864). Il dono di Dio sia presente sulle tavole di ciascuno perché, mentre ancora non siamo in grado di condividere la stessa mensa eucaristica, possiamo ospitare insieme Gesù servendolo nei poveri. Sarà un segno più evocativo di molte parole, che aiuterà la società civile a comprendere, specialmente in questo periodo sofferto, che solo stando dalla parte dei più deboli usciremo davvero tutti insieme dalla pandemia.

Cari fratelli, vi ringrazio per la vostra presenza e per il vostro cammino: il carattere mite e accogliente, tipico del popolo slovacco, la tradizionale convivenza pacifica tra di voi e la vostra collaborazione per il bene del Paese sono preziosi per il fermento del Vangelo. Vi incoraggio ad andare avanti nel cammino ecumenico, tesoro prezioso e irrinunciabile. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie.


13 settembre, Bratislava

Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico, Bratislava

Esprimo la mia gratitudine alla Presidente Zuzana Čaputová per le parole di benvenuto che mi ha rivolto, anche a nome vostro e della popolazione. Saluto tutti voi, manifestandovi la gioia di essere in Slovacchia. Sono venuto pellegrino in un Paese giovane ma dalla storia antica, in una terra dalle radici profonde situata nel cuore d’Europa. Davvero mi trovo in una “terra di mezzo”, che ha visto tanti passaggi. Questi territori hanno fatto da confine all’Impero romano e sono stati luoghi d’interazione tra cristianesimo occidentale e orientale; dalla grande Moravia al Regno ungherese, dalla Repubblica cecoslovacca ad oggi, avete saputo, tra non poche prove, integrarvi e distinguervi in modo essenzialmente pacifico: ventotto anni fa il mondo ammirò la nascita senza conflitti di due Paesi indipendenti.

Questa storia chiama la Slovacchia a essere un messaggio di pace nel cuore dell’Europa. È quanto suggerisce la grande striscia blu della vostra bandiera, che simboleggia la fratellanza con i popoli slavi. È di fraternità che abbiamo bisogno per promuovere un’integrazione sempre più necessaria. Essa urge ora, in un momento nel quale, dopo durissimi mesi di pandemia, si prospetta, insieme a molte difficoltà, una sospirata ripartenza economica, favorita dai piani di ripresa dell’Unione Europea. Si può correre tuttavia il rischio di lasciarsi trasportare dalla fretta e dalla seduzione del guadagno, generando un’euforia passeggera che, anziché unire, divide. La sola ripresa economica, inoltre, non è sufficiente in un mondo dove tutti siamo connessi, dove tutti abitiamo una terra di mezzo. Mentre su vari fronti continuano lotte per la supremazia, questo Paese riaffermi il suo messaggio di integrazione e di pace, e l’Europa si distingua per una solidarietà che, valicandone i confini, possa riportarla al centro della storia.

La storia slovacca è segnata indelebilmente dalla fede. Auspico che essa aiuti ad alimentare in modo connaturale propositi e sentimenti di fraternità. Potete attingerli dalle grandiose vite dei santi fratelli Cirillo e Metodio. Essi hanno diffuso il Vangelo quando i cristiani del continente erano uniti; e oggi ancora essi uniscono le Confessioni di questa terra. Si riconoscevano di tutti e cercavano la comunione con tutti: slavi, greci e latini. La solidità della loro fede si traduceva così in una spontanea apertura. È un’eredità che siete chiamati a raccogliere in questo momento, per essere anche in questo tempo un segno di unità.

Cari amici, non scompaia mai dai vostri cuori questa vocazione alla fraternità, ma accompagni sempre la simpatica genuinità che vi caratterizza. Voi sapete riservare grande attenzione all’ospitalità: mi colpiscono le espressioni tipiche dell’accoglienza slava, che ai visitatori offre il pane e il sale. E vorrei ora prendere spunto da questi doni semplici e preziosi, impregnati di Vangelo.

Il pane, scelto da Dio per rendersi presente tra noi, è essenziale. La Scrittura invita a non accumularlo, ma a condividerlo. Il pane di cui parla il Vangelo viene sempre spezzato. È un messaggio forte per il nostro vivere comune: ci dice che la ricchezza vera non consiste tanto nel moltiplicare quanto si ha, ma nel condividerlo equamente con chi abbiamo intorno. Il pane, che spezzandosi evoca la fragilità, invita in particolare a prendersi cura dei più deboli. Nessuno venga stigmatizzato o discriminato. Lo sguardo cristiano non vede nei più fragili un peso o un problema, ma fratelli e sorelle da accompagnare e custodire.

Il pane spezzato ed equamente condiviso richiama l’importanza della giustizia, del dare a ciascuno l’opportunità di realizzarsi. È necessario adoperarsi per costruire un futuro in cui le leggi si applichino equamente a tutti, sulla base di una giustizia che non sia mai in vendita. E perché la giustizia non rimanga un’idea astratta, ma sia concreta come il pane, è da intraprendere una seria lotta alla corruzione e va anzitutto promossa e diffusa la legalità.

Ancora, il pane si lega inscindibilmente a un aggettivo: quotidiano (cfr Mt 6,11), pane quotidiano. Il pane di ogni giornata è il lavoro, che ne occupa la gran parte. Come senza pane non c’è nutrimento, senza lavoro non c’è dignità. Alla base di una società giusta e fraterna vige il diritto che a ciascuno sia corrisposto il pane del lavoro, perché nessuno si senta emarginato e si veda costretto a lasciare la famiglia e la terra di origine in cerca di maggiori fortune.

«Voi siete il sale della terra» (Mt 5,13). Il sale è il primo simbolo che Gesù impiega insegnando ai suoi discepoli. Esso, prima di tutto, dà gusto ai cibi, e fa pensare a quel sapore senza il quale la vita rimane insipida. Non bastano infatti strutture organizzate ed efficienti per rendere buona la convivenza umana, occorre sapore, occorre il sapore della solidarietà. E come il sale dà sapore solo sciogliendosi, così la società ritrova gusto attraverso la generosità gratuita di chi si spende per gli altri. È bello che i giovani, in particolare, vengano motivati in questo, perché si sentano protagonisti del futuro del Paese e lo prendano a cuore, arricchendo con i loro sogni e con la loro creatività la storia che li ha preceduti. Non c’è rinnovamento senza i giovani, spesso illusi da uno spirito consumistico che sbiadisce l’esistenza. Tanti, troppi in Europa si trascinano nella stanchezza e nella frustrazione, stressati da ritmi di vita frenetici e senza trovare dove attingere motivazioni e speranza. L’ingrediente mancante è la cura per gli altri. Sentirsi responsabili per qualcuno dà gusto alla vita e permette di scoprire che quanto diamo è in realtà un dono che facciamo a noi stessi.

Il sale, ai tempi di Cristo, oltre che a dare sapore, serviva a conservare gli alimenti, preservandoli dal deterioramento. Vi auguro di non permettere mai che i fragranti sapori delle vostre migliori tradizioni siano guastati dalla superficialità dei consumi e dei guadagni materiali. E nemmeno dalle colonizzazioni ideologiche. In queste terre, fino ad alcuni decenni fa, un pensiero unico precludeva la libertà; oggi un altro pensiero unico la svuota di senso, riconducendo il progresso al guadagno e i diritti ai soli bisogni individualistici. Oggi, come allora, il sale della fede non è una risposta secondo il mondo, non sta nell’ardore di intraprendere guerre culturali, ma nella semina mite e paziente del Regno di Dio, anzitutto con la testimonianza della carità, dell’amore. La vostra Costituzione menziona il desiderio di edificare il Paese sull’eredità dei Santi Cirillo e Metodio, patroni d’Europa. Essi, senza imposizioni e senza forzature, fecondarono con il Vangelo la cultura generando processi benefici. È questa la strada: non la lotta per la conquista di spazi e di rilevanza, ma la via indicata dai Santi, la via delle Beatitudini. Da lì, dalle Beatitudini, scaturisce la visione cristiana della società.

I Santi Cirillo e Metodio hanno inoltre mostrato che custodire il bene non significa ripetere il passato, ma aprirsi alla novità senza sradicarsi. La vostra storia annovera tanti scrittori, poeti e uomini di cultura che sono stati il sale del Paese. E come il sale brucia sulle ferite, così le loro vite sono spesso passate attraverso il crogiuolo della sofferenza. Quante personalità illustri sono state rinchiuse in carcere, rimanendo libere dentro e offrendo esempi fulgidi di coraggio, coerenza e resistenza all’ingiustizia! E soprattutto di perdono. Questo è il sale della vostra terra.

La pandemia, invece, è la prova del nostro tempo. Essa ci ha insegnato quanto è facile, pur nella stessa situazione, disgregarsi e pensare solo a sé stessi. Ripartiamo invece dal riconoscimento che siamo tutti fragili e bisognosi degli altri. Nessuno può isolarsi, come singoli e come nazioni. Accogliamo questa crisi come un «appello a ripensare i nostri stili di vita» (Lett. enc. Fratelli tutti, 33). Non serve recriminare sul passato, occorre rimboccarsi le maniche per costruire insieme il futuro. Vi auguro di farlo con lo sguardo rivolto verso l’alto, come quando guardate ai vostri splendidi monti Tatra. Lì, tra i boschi e le vette che puntano al cielo, Dio sembra più vicino e il creato si rivela come la casa intatta che nei secoli ha ospitato tante generazioni. I vostri monti collegano in un’unica catena cime e paesaggi variegati, e travalicano i confini del Paese per congiungere nella bellezza popoli diversi. Coltivate questa bellezza, la bellezza dell’insieme. Ciò richiede pazienza, ciò richiede fatica, ciò richiede coraggio e condivisione, ciò richiede slancio e creatività. Ma è l’opera umana che il Cielo benedice. Dio vi benedica, Dio benedica questa terra. Nech Boh žehná Slovensko! [Dio benedica la Slovacchia!] Grazie.

Incontro con i Vescovi, Sacerdoti, Religiosi/e, Seminaristi e Catechisti

Cari fratelli Vescovi,
Cari sacerdoti, religiose, religiosi e seminaristi,
Cari catechisti, sorelle e fratelli, buongiorno!

Vi saluto con gioia e ringrazio Mons. Stanislav Zvolenský per le parole che mi ha rivolto. Grazie per l’invito a sentirmi a casa: vengo come vostro fratello e perciò mi sento uno di voi. Sono qui per condividere il vostro cammino – questo deve fare il vescovo, il Papa –, le vostre domande, le attese e le speranze di questa Chiesa e di questo Paese. E, parlando del Paese, ho appena detto alla Signora Presidente che la Slovacchia è una poesia! Condividere era lo stile della prima Comunità cristiana: erano assidui e concordi, camminavano insieme (cfr At 1,12-14). Litigavano pure, ma camminavano insieme.

È la prima cosa di cui abbiamo bisogno: una Chiesa che cammina insieme, che percorre le strade della vita con la fiaccola del Vangelo accesa. La Chiesa non è una fortezza, non è un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza. Qui a Bratislava il castello già c’è ed è molto bello! Ma la Chiesa è la comunità che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo – non il castello! –, è il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo. Per favore, non cediamo alla tentazione della magnificenza, della grandezza mondana! La Chiesa deve essere umile come era Gesù, che si è svuotato di tutto, che si è fatto povero per arricchirci (cfr 2 Cor 8,9): così è venuto ad abitare in mezzo a noi e a guarire la nostra umanità ferita.

Ecco, è bella una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro. Abitare dentro, non dimentichiamolo: condividere, camminare insieme, accogliere le domande e le attese della gente. Questo ci aiuta a uscire dall’autoreferenzialità: il centro della Chiesa… Chi è il centro della Chiesa? Non è la Chiesa! E quando la Chiesa guarda sé stessa, finisce come la donna del Vangelo: curvata su sé stessa, guardandosi l’ombelico (cfr Lc 13,10-13). Il centro della Chiesa non è se stessa. Usciamo dalla preoccupazione eccessiva per noi stessi, per le nostre strutture, per come la società ci guarda. E questo alla fine ci porterà a una “teologia del trucco”… Come ci trucchiamo meglio… Immergiamoci invece nella vita reale, la vita reale della gente e chiediamoci: quali sono i bisogni e le attese spirituali del nostro popolo? Che cosa si aspetta dalla Chiesa? A me sembra importante provare a rispondere a queste domande e mi vengono in mente tre parole.

La prima è libertà. Senza libertà non c’è vera umanità, perché l’essere umano è stato creato libero e per essere libero. I periodi drammatici della storia del vostro Paese sono un grande insegnamento: quando la libertà è stata ferita, violata e uccisa, l’umanità è stata degradata e si sono abbattute le tempeste della violenza, della coercizione e della privazione dei diritti.

Allo stesso tempo, però, la libertà non è una conquista automatica, che rimane tale una volta per tutte. No! La libertà è sempre un cammino, a volte faticoso, da rinnovare continuamente, lottare per essa ogni giorno. Non basta essere liberi esteriormente o nelle strutture della società per esserlo davvero. La libertà chiama in prima persona a essere responsabili delle proprie scelte, a discernere, a portare avanti i processi della vita. E questo è faticoso, questo ci spaventa. Talvolta è più comodo non lasciarsi provocare dalle situazioni concrete e andare avanti a ripetere il passato, senza metterci il cuore, senza il rischio della scelta: meglio trascinare la vita facendo ciò che altri – magari la massa o l’opinione pubblica o le cose che ci vendono i media – decidono per noi. Questo non va. E oggi tante volte facciamo le cose che decidono i media per noi. E si perde la libertà. Ricordiamo la storia del popolo di Israele: soffriva sotto la tirannia del faraone, era schiavo; poi viene liberato dal Signore, ma per diventare veramente libero, non solo liberato dai nemici, deve attraversare il deserto, un cammino faticoso. E veniva da pensare: “Quasi quasi era meglio prima, almeno avevamo un po’ di cipolle da mangiare…”. Una grande tentazione: meglio un po’ di cipolle che la fatica e il rischio della libertà. Questa è una delle tentazioni. Ieri, parlando al gruppo ecumenico, ricordavo Dostoevskij con “Il grande inquisitore”. Cristo torna in terra di nascosto e l’inquisitore lo rimprovera per aver dato la libertà agli uomini. Un po’ di pane e qualcosina basta; un po’ di pane e qualcos’altro basta. Sempre questa tentazione, la tentazione delle cipolle. Meglio un po’ di cipolle e di pane che la fatica e il rischio della libertà. Lascio a voi di pensare a queste cose.

A volte anche nella Chiesa questa idea può insidiarci: meglio avere tutte le cose predefinite, le leggi da osservare, la sicurezza e l’uniformità, piuttosto che essere cristiani responsabili e adulti, che pensano, interrogano la propria coscienza, si lasciano mettere in discussione. È l’inizio della casistica, tutto regolato… Nella vita spirituale ed ecclesiale c’è la tentazione di cercare una falsa pace che ci lascia tranquilli, invece del fuoco del Vangelo che ci inquieta, che ci trasforma. Le sicure cipolle d’Egitto sono più comode delle incognite del deserto. Ma una Chiesa che non lascia spazio all’avventura della libertà, anche nella vita spirituale, rischia di diventare un luogo rigido e chiuso. Forse alcuni sono abituati a questo; ma tanti altri – soprattutto nelle nuove generazioni – non sono attratti da una proposta di fede che non lascia loro libertà interiore, non sono attratti da una Chiesa in cui bisogna pensare tutti allo stesso modo e obbedire ciecamente.

Carissimi, non abbiate timore di formare le persone a un rapporto maturo e libero con Dio. Importante è questo rapporto. Questo forse ci darà l’impressione di non poter controllare tutto, di perdere forza e autorità; ma la Chiesa di Cristo non vuole dominare le coscienze e occupare gli spazi, vuole essere una “fontana” di speranza nella vita delle persone. È un rischio. È una sfida. Lo dico soprattutto ai Pastori: voi esercitate il ministero in un Paese nel quale tante cose sono rapidamente cambiate e sono stati avviati molti processi democratici, ma la libertà è ancora fragile. Lo è soprattutto nel cuore e nella mente delle persone. Per questo vi incoraggio a farle crescere libere da una religiosità rigida. Uscire da questo, e che crescano liberi! Nessuno si senta schiacciato. Ognuno possa scoprire la libertà del Vangelo, entrando gradualmente nel rapporto con Dio, con la fiducia di chi sa che, davanti a Lui, può portare la propria storia e le proprie ferite senza paura, senza finzioni, senza preoccuparsi di difendere la propria immagine. Poter dire: “Sono peccatore”, ma dirlo con sincerità, non batterci il petto e poi continuare a crederci giusti. La libertà. L’annuncio del Vangelo sia liberante, mai opprimente. E la Chiesa sia segno di libertà e di accoglienza!

Sono sicuro che questo mai si saprà da dove viene. Vi dico una cosa che è successa tempo fa. La lettera di un Vescovo, parlando di un Nunzio. Diceva: “Mah, noi siamo stati 400 anni sotto i turchi e abbiamo sofferto. Poi 50 sotto il comunismo e abbiamo sofferto. Ma i setti anni con questo Nunzio sono stati peggiori delle altre due cose!”. A volte mi domando: quanta gente può dire lo stesso del vescovo che ha o del parroco? Quanta gente? No, senza libertà, senza paternità le cose non vanno.

Seconda parola – la prima era libertà –: creatività. Siete figli di una grande tradizione. La vostra esperienza religiosa trova il suo luogo sorgivo nella predicazione e nel ministero delle luminose figure dei Santi Cirillo e Metodio. Essi ci insegnano che l’evangelizzazione non è mai una semplice ripetizione del passato. La gioia del Vangelo è sempre Cristo, ma le vie perché questa buona notizia possa farsi strada nel tempo e nella storia sono diverse. Le vie sono tutte diverse. Cirillo e Metodio percorsero insieme questa parte del continente europeo e, ardenti di passione per l’annuncio del Vangelo, arrivarono a inventare un nuovo alfabeto per la traduzione della Bibbia, dei testi liturgici e della dottrina cristiana. Fu così che divennero apostoli dell’inculturazione della fede presso di voi. Furono inventori di nuovi linguaggi per trasmettere il Vangelo, furono creativi nel tradurre il messaggio cristiano, furono così vicini alla storia dei popoli che incontravano da parlarne la loro lingua e assimilarne la cultura. Non ha bisogno di questo anche oggi la Slovacchia? Mi domando. Non è forse questo il compito più urgente della Chiesa presso i popoli dell’Europa: trovare nuovi “alfabeti” per annunciare la fede? Abbiamo sullo sfondo una ricca tradizione cristiana, ma per la vita di molte persone, oggi, essa rimane nel ricordo di un passato che non parla più e che non orienta più le scelte dell’esistenza. Dinanzi allo smarrimento del senso di Dio e della gioia della fede non giova lamentarsi, trincerarsi in un cattolicesimo difensivo, giudicare e accusare il mondo cattivo, no, serve la creatività del Vangelo. Stiamo attenti! Ancora il Vangelo non è stato chiuso, è aperto! È vigente, è vigente, va avanti. Ricordiamo cosa fecero quegli uomini che volevano portare un paralitico davanti a Gesù e non riuscivano a passare dalla porta di ingresso. Aprirono un varco sul tetto e lo calarono dall’alto (cfr Mc 2,1-5). Furono creativi! Davanti alla difficoltà – “Ma come facciamo?... Ah, facciamo questo” –, davanti, forse, a una generazione che non ci crede, che ha perso il senso della fede, o che ha ridotto la fede a un’abitudine o a una cultura più o meno accettabile, cerchiamo di aprire un buco e siamo creativi! Libertà, creatività… Che bello quando sappiamo trovare vie, modi e linguaggi nuovi per annunciare il Vangelo! E noi possiamo aiutare con la creatività umana, anche ognuno di noi ha questa possibilità, ma il grande creativo è lo Spirito Santo! È Lui che ci spinge a essere creativi! Se con la nostra predicazione e con la nostra pastorale non riusciamo a entrare più per la via ordinaria, cerchiamo di aprire spazi diversi, sperimentiamo altre strade.

E qui faccio una parentesi. La predicazione. Qualcuno mi ha detto che in “Evangelii gaudium” mi sono fermato troppo sull’omelia, perché è uno dei problemi di questo tempo. Sì, l’omelia non è un sacramento, come pretendevano alcuni protestanti, ma è un sacramentale! Non è una predica di Quaresima, no, è un’altra cosa. È nel cuore dell’Eucaristia. E pensiamo ai fedeli, che devono sentire omelie di 40 minuti, 50 minuti, su argomenti che non capiscono, che non li toccano… Per favore, sacerdoti e vescovi, pensate bene come preparare l’omelia, come farla, perché ci sia un contatto con la gente e prendano ispirazione dal testo biblico. Un’omelia, di solito, non deve andare oltre i dieci minuti, perché la gente dopo otto minuti perde l’attenzione, a patto che sia molto interessante. Ma il tempo dovrebbe essere 10-15 minuti, non di più. Un professore che ho avuto di omiletica, diceva che un’omelia deve avere coerenza interna: un’idea, un’immagine e un affetto; che la gente se ne vada con un’idea, un’immagine e qualcosa che si è mosso nel cuore. Così, semplice, è l’annuncio del Vangelo! E così predicava, Gesù che prendeva gli uccelli, che prendeva i campi, che prendeva questo… le cose concrete, ma che la gente capiva. Scusatemi se torno su questo, ma a me preoccupa… [applauso] Mi permetto una malignità: l’applauso lo hanno incominciato le suore, che sono vittime delle nostre omelie!

Cirillo e Metodio hanno aperto questa creatività nuova, lo hanno fatto e ci dicono questo: non può crescere il Vangelo se non è radicato nella cultura di un popolo, cioè nei suoi simboli, nelle sue domande, nelle sue parole, nel suo modo di essere. I due fratelli furono ostacolati e perseguitati molto, lo sapete. Venivano accusati di eresia perché avevano osato tradurre la lingua della fede. Ecco l’ideologia che nasce dalla tentazione di uniformare. Dietro il volersi uniformi c’è un’ideologia. Ma l’evangelizzazione è un processo di inculturazione: è seme fecondo di novità, è la novità dello Spirito che rinnova ogni cosa. Il contadino semina – dice Gesù –, poi va a casa e dorme. Non si alza per vedere se cresce, se germoglia… È Dio che dà la crescita. Non controllare troppo in questo senso la vita: lasciare che la vita cresca, come hanno fatto Cirillo e Metodio. A noi spetta seminare bene e custodire come padri, questo sì. Il contadino custodisce, ma non va lì a vedere tutti i giorni come cresce. Se fa questo, uccide la pianta.

Libertà, creatività, e infine, il dialogo. Una Chiesa che forma alla libertà interiore e responsabile, che sa essere creativa immergendosi nella storia e nella cultura, è anche una Chiesa che sa dialogare con il mondo, con chi confessa Cristo senza essere “dei nostri”, con chi vive la fatica di una ricerca religiosa, anche con chi non crede. Non è selettiva di un gruppetto, no, dialoga con tutti: con i credenti, con quelli che portano avanti la santità, con i tiepidi e con i non credenti. Parla con tutti. È una Chiesa che, sull’esempio di Cirillo e Metodio, unisce e tiene insieme l’Oriente e l’Occidente, tradizioni e sensibilità diverse. Una Comunità che, annunciando il Vangelo dell’amore, fa germogliare la comunione, l’amicizia e il dialogo tra i credenti, tra le diverse confessioni cristiane e tra i popoli.

L’unità, la comunione e il dialogo sono sempre fragili, specialmente quando alle spalle c’è una storia di dolore che ha lasciato delle cicatrici. Il ricordo delle ferite può far scivolare nel risentimento, nella sfiducia, perfino nel disprezzo, invogliando a innalzare steccati davanti a chi è diverso da noi. Le ferite, però, possono essere varchi, aperture che, imitando le piaghe del Signore, fanno passare la misericordia di Dio, la sua grazia che cambia la vita e ci trasforma in operatori di pace e di riconciliazione. So che voi avete un proverbio: «A chi ti tira un sasso, tu dona un pane». Questo ci ispira. È molto evangelico questo! È l’invito di Gesù a spezzare il circolo vizioso e distruttivo della violenza, porgendo l’altra guancia a chi ci percuote, per vincere il male con il bene (cfr Rm 12,21). Mi colpisce un particolare della storia del Cardinale Korec. Era un Cardinale gesuita, perseguitato dal regime, imprigionato, costretto a lavorare duramente finché si ammalò. Quando venne a Roma per il Giubileo del 2000, andò nelle catacombe e accese un lumino per i suoi persecutori, invocando per loro misericordia. Questo è Vangelo! Questo è Vangelo! Cresce nella vita e nella storia attraverso l’amore umile, attraverso l’amore paziente.

Carissime e carissimi, ringrazio Dio di essere tra voi, e ringrazio di cuore voi per quello che fate e per quello che siete, e per quello che farete ispirandovi a questa omelia, che è anche un seme che io sto seminando… Vediamo se crescono le piante! Vi auguro di continuare il vostro cammino nella libertà del Vangelo, nella creatività della fede e nel dialogo che sgorga dalla misericordia di Dio, che ci ha resi fratelli e sorelle, e ci chiama ad essere artigiani di pace e di concordia. Vi benedico di cuore. E, per favore, pregate per me. Grazie!

Incontro con la Comunità ebraica, Bratislava

Vi ringrazio per le vostre parole di benvenuto e per le testimonianze che avete donato. Sono qui come pellegrino per toccare questo luogo ed esserne toccato. La piazza dove ci troviamo è molto significativa per la vostra comunità. Mantiene vivo il ricordo di un ricco passato: è stata per secoli parte del quartiere ebraico; qui ha lavorato il celebre rabbino Chatam Sofer. Qui c’era una sinagoga, proprio accanto alla Cattedrale dell’Incoronazione. L’architettura, come è stato detto, esprimeva la pacifica convivenza delle due comunità, simbolo raro e di grande portata evocativa, segno stupendo di unità nel nome del Dio dei nostri padri. Qui avverto anch’io il bisogno, come tanti di loro, di “togliermi i sandali”, perché mi trovo in un luogo benedetto dalla fraternità degli uomini nel nome dell’Altissimo.

In seguito, però, il nome di Dio è stato disonorato: nella follia dell’odio, durante la seconda guerra mondiale, più di centomila ebrei slovacchi furono uccisi. E quando poi si vollero cancellare le tracce della comunità, qui la sinagoga fu demolita. Sta scritto: «Non pronuncerai invano il nome del Signore» (Es 20,7). Il nome divino, cioè la sua stessa realtà personale, è nominata invano quando si viola la dignità unica e irripetibile dell’uomo, creato a sua immagine. Qui il nome di Dio è stato disonorato, perché la blasfemia peggiore che gli si può arrecare è quella di usarlo per i propri scopi, anziché per rispettare e amare gli altri. Qui, davanti alla storia del popolo ebraico, segnata da questo affronto tragico e inenarrabile, ci vergogniamo ad ammetterlo: quante volte il nome ineffabile dell’Altissimo è stato usato per indicibili atti di disumanità! Quanti oppressori hanno dichiarato: “Dio è con noi”; ma erano loro a non essere con Dio.

Cari fratelli e sorelle, la vostra storia è la nostra storia, i vostri dolori sono i nostri dolori. Per alcuni di voi, questo Memoriale della Shoah è l’unico posto dove potete onorare la memoria dei vostri cari. Anch’io mi unisco a voi. Sul Memoriale è iscritto in ebraico “Zachor”: “Ricorda!”. La memoria non può e non deve cedere il posto all’oblio, perché non ci sarà un’alba duratura di fraternità senza aver prima condiviso e dissipato le oscurità della notte. Risuona anche per noi la domanda del profeta: «Sentinella, quanto manca della notte?» (Is 21,11). Questo è per noi il tempo in cui non si può oscurare l’immagine di Dio che risplende nell’uomo. Aiutiamoci in questo. Perché anche oggi non mancano idoli vani e falsi che disonorano il nome dell’Altissimo. Sono quelli del potere e del denaro che prevalgono sulla dignità dell’uomo, dell’indifferenza che gira lo sguardo dall’altra parte, delle manipolazioni che strumentalizzano la religione, facendone questione di supremazia oppure riducendola all’irrilevanza. E ancora, sono la dimenticanza del passato, l’ignoranza che giustifica tutto, la rabbia e l’odio. Siamo uniti – lo ribadisco – nel condannare ogni violenza, ogni forma di antisemitismo, e nell’impegnarci perché non venga profanata l’immagine di Dio nella creatura umana.

Ma questa piazza, cari fratelli e sorelle, è anche un luogo dove brilla la luce della speranza. Qui ogni anno venite ad accendere la prima luce sul candelabro della Chanukia. Così, nell’oscurità, appare il messaggio che non sono la distruzione e la morte ad avere l’ultima parola, ma il rinnovamento e la vita. E se la sinagoga in questo sito è stata demolita, la comunità è ancora presente. È viva e aperta al dialogo. Qui le nostre storie si incontrano di nuovo. Qui insieme affermiamo davanti a Dio la volontà di proseguire nel cammino di avvicinamento e di amicizia.

In proposito, conservo vivo in me il ricordo dell’incontro a Roma nel 2017 con i Rappresentanti delle vostre comunità ebraiche e cristiane. Sono lieto che in seguito sia stata istituita una Commissione per il dialogo con la Chiesa cattolica e che abbiate pubblicato insieme importanti documenti. È bene condividere e comunicare ciò che ci unisce. Ed è bene proseguire, nella verità e con sincerità, nel percorso fraterno di purificazione della memoria per risanare le ferite passate, così come nel ricordo del bene ricevuto e offerto. Secondo il Talmud, chi distrugge un solo uomo distrugge il mondo intero, e chi salva un solo uomo salva il mondo intero. Ognuno conta, e conta molto quello che fate attraverso la vostra preziosa condivisione. Vi ringrazio per le porte che avete aperto da entrambe le parti.

Il mondo ha bisogno di porte aperte. Sono segni di benedizione per l’umanità. Al padre Abramo Dio disse: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3). È un ritornello che scandisce le vite dei padri (cfr Gen 18,18; 22,18; 26,4). A Giacobbe, cioè Israele, Dio disse: «La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra» (Gen 28,14). Qui, in questa terra slovacca, terra d’incontro tra est e ovest, tra nord e sud, la famiglia dei figli di Israele continui a coltivare questa vocazione, la chiamata a essere segno di benedizione per tutte le famiglie della terra. La benedizione dell’Altissimo si riversa su di noi quando vede una famiglia di fratelli che si rispettano, si amano e collaborano. Vi benedica l’Onnipotente, perché in mezzo a tanta discordia che inquina il nostro mondo possiate essere sempre, insieme, testimoni di pace. Shalom!


14 settembre - Bratislava, Košice, Prešov

Divina Liturgia Bizantina di San Giovanni Crisostomo presieduta dal Santo Padre, Prešov

«Noi – dichiara san Paolo – annunciamo Cristo crocifisso […], potenza di Dio e sapienza di Dio». D’altra parte, l’Apostolo non nasconde che la croce, agli occhi della sapienza umana, rappresenta tutt’altro: è «scandalo», «stoltezza» (1 Cor 1,23-24). La croce era strumento di morte, eppure da lì è venuta la vita. Era ciò che nessuno voleva guardare, eppure ci ha rivelato la bellezza dell’amore di Dio. Per questo il santo Popolo di Dio la venera e la Liturgia la celebra nella festa odierna. Il Vangelo di San Giovanni ci prende per mano e ci aiuta a entrare in questo mistero. L’evangelista, infatti, stava proprio lì, sotto la croce. Contempla Gesù, già morto, appeso al legno, e scrive: «Chi ha visto ne dà testimonianza» (Gv 19,35). San Giovanni vede e testimonia.

Prima di tutto c’è il vedere. Ma che cosa ha visto Giovanni sotto la croce? Certamente quello che hanno visto gli altri: Gesù, innocente e buono, muore brutalmente tra due malfattori. Una delle tante ingiustizie, uno dei tanti sacrifici cruenti che non cambiano la storia, l’ennesima dimostrazione che il corso delle vicende nel mondo non muta: i buoni vengono tolti di mezzo e i malvagi vincono e prosperano. Agli occhi del mondo la croce è un fallimento. E anche noi rischiamo di fermarci a questo primo sguardo, superficiale, di non accettare la logica della croce; non accettare che Dio ci salvi lasciando che si scateni su di sé il male del mondo. Non accettare, se non a parole, il Dio debole e crocifisso, e sognare un dio forte e trionfante. È una grande tentazione. Quante volte aspiriamo a un cristianesimo da vincitori, a un cristianesimo trionfalistico, che abbia rilevanza e importanza, che riceva gloria e onore. Ma un cristianesimo senza croce è mondano e diventa sterile.

San Giovanni, invece, ha visto nella croce l’opera di Dio. Ha riconosciuto in Cristo crocifisso la gloria di Dio. Ha visto che Egli, malgrado le apparenze, non è un perdente, ma è Dio che volontariamente si offre per ogni uomo. Perché lo ha fatto? Avrebbe potuto risparmiarsi la vita, avrebbe potuto tenersi a distanza dalla nostra storia più misera e cruda. Invece ha voluto entrarci dentro, immergersi in essa. Per questo ha scelto la via più difficile: la croce. Perché non ci dev’essere in Terra nessuna persona tanto disperata da non poterlo incontrare, persino lì, nell’angoscia, nel buio, nell’abbandono, nello scandalo della propria miseria e dei propri sbagli. Proprio lì, dove si pensa che Dio non possa esserci, Dio è giunto. Per salvare chiunque è disperato ha voluto lambire la disperazione, per fare suo il nostro più amaro sconforto ha gridato sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Sal 22,1). Un grido che salva. Salva perché Dio ha fatto suo perfino il nostro abbandono. E noi, ora, con Lui, non siamo più soli, mai.

Come possiamo imparare a vedere la gloria nella croce? Alcuni santi hanno insegnato che la croce è come un libro che, per conoscerlo, bisogna aprire e leggere. Non basta acquistare un libro, dargli un’occhiata e metterlo in bella mostra in casa. Lo stesso vale per la croce: è dipinta o scolpita in ogni angolo delle nostre chiese. Non si contano i crocifissi: al collo, in casa, in macchina, in tasca. Ma non serve se non ci fermiamo a guardare il Crocifisso e non gli apriamo il cuore, se non ci lasciamo stupire dalle sue piaghe aperte per noi, se il cuore non si gonfia di commozione e non piangiamo davanti al Dio ferito d’amore per noi. Se non facciamo così, la croce rimane un libro non letto, di cui si conoscono bene il titolo e l’autore, ma che non incide nella vita. Non riduciamo la croce a un oggetto di devozione, tanto meno a un simbolo politico, a un segno di rilevanza religiosa e sociale.

Dal contemplare il Crocifisso scaturisce il secondo passo: il testimoniare. Se si immerge lo sguardo in Gesù, il suo volto comincia a riflettersi sul nostro: i suoi lineamenti diventano i nostri, l’amore di Cristo ci conquista e ci trasforma. Penso ai martiri, che hanno testimoniato in questa nazione l’amore di Cristo in tempi molto difficili, quando tutto consigliava di tacere, di mettersi al riparo, di non professare la fede. Ma non potevano, non potevano non testimoniare. Quante persone generose hanno patito e sono morte qui in Slovacchia a causa del nome di Gesù! Una testimonianza compiuta per amore di Colui che avevano lungamente contemplato. Tanto da somigliargli, anche nella morte.

Ma penso anche ai nostri tempi, in cui non mancano occasioni per testimoniare. Qui, grazie a Dio, non c’è chi perseguita i cristiani come in troppe altre parti del mondo. Ma la testimonianza può essere inficiata dalla mondanità e dalla mediocrità. La croce esige invece una testimonianza limpida. Perché la croce non vuol essere una bandiera da innalzare, ma la sorgente pura di un modo nuovo di vivere. Quale? Quello del Vangelo, quello delle Beatitudini. Il testimone che ha la croce nel cuore e non soltanto al collo non vede nessuno come nemico, ma tutti come fratelli e sorelle per cui Gesù ha dato la vita. Il testimone della croce non ricorda i torti del passato e non si lamenta del presente. Il testimone della croce non usa le vie dell’inganno e della potenza mondana: non vuole imporre sé stesso e i suoi, ma dare la propria vita per gli altri. Non ricerca i propri vantaggi per poi mostrarsi devoto: questa sarebbe una religione della doppiezza, non la testimonianza del Dio crocifisso. Il testimone della croce persegue una sola strategia, quella del Maestro: l’amore umile. Non attende trionfi quaggiù, perché sa che l’amore di Cristo è fecondo nella quotidianità e fa nuove tutte le cose dal di dentro, come seme caduto in terra, che muore e produce frutto.

Cari fratelli e sorelle, avete visto dei testimoni. Conservate il ricordo caro di persone che vi hanno allattato e cresciuto nella fede. Persone umili e semplici, che hanno dato la vita amando fino alla fine. Sono loro i nostri eroi, gli eroi della quotidianità, e sono le loro vite a cambiare la storia. I testimoni generano altri testimoni, perché sono donatori di vita. È così che si diffonde la fede: non con la potenza del mondo, ma con la sapienza della croce; non con le strutture, ma con la testimonianza. E oggi il Signore, dal silenzio vibrante della croce, chiede a tutti noi, chiede anche a te, a te, a te, a me: “Vuoi essere mio testimone?”.

Con Giovanni, sul Calvario, c’era la Santa Madre di Dio. Nessuno come lei ha visto aperto il libro della croce e l’ha testimoniato attraverso l’amore umile. Per sua intercessione, chiediamo la grazia di convertire lo sguardo del cuore al Crocifisso. Allora la nostra fede potrà fiorire in pienezza, allora matureranno i frutti della nostra testimonianza.

Incontro con la Comunità Rom, Košice

Vi ringrazio per l’accoglienza e per le vostre parole affettuose. Ján ha ricordato quello che vi disse San Paolo VI: «Voi nella Chiesa non siete ai margini… Voi siete nel cuore della Chiesa» (Omelia, 26 settembre 1965). Nessuno nella Chiesa deve sentirsi fuori posto o messo da parte. Non è solo un modo di dire, è il modo di essere della Chiesa. Perché essere Chiesa è vivere da convocati di Dio, è sentirsi titolari nella vita, far parte della stessa squadra. Sì, perché Dio ci desidera così, ciascuno diverso ma tutti uniti attorno a Lui. Il Signore ci vede insieme. Tutti.

E ci vede figli: ha sguardo di Padre, sguardo di predilezione per ciascun figlio. Se io accolgo questo sguardo su di me, imparo a vedere bene gli altri: scopro di avere accanto altri figli di Dio e li riconosco fratelli. Questa è la Chiesa, una famiglia di fratelli e sorelle con lo stesso Padre, il quale ci ha dato Gesù come fratello, perché comprendiamo quanto Lui ami la fraternità. E desidera che l’umanità intera diventi una famiglia universale. Voi nutrite un grande amore per la famiglia, e guardate alla Chiesa a partire da questa esperienza. Sì, la Chiesa è casa, è casa vostra. Perciò – vorrei dirvi con il cuore – siete benvenuti, sentitevi sempre di casa nella Chiesa e non abbiate mai paura di abitarci. Nessuno tenga fuori voi o qualcun altro dalla Chiesa!

Ján, mi hai salutato con tua moglie Beáta: insieme avete messo il sogno della famiglia davanti alle vostre grandi diversità di provenienza, di usi e costumi. Più di tante parole è il vostro matrimonio a testimoniare come la concretezza del vivere insieme può far crollare tanti stereotipi che altrimenti sembrano insuperabili. Non è facile andare oltre i pregiudizi, anche tra i cristiani. Non è semplice apprezzare gli altri, spesso si vedono in essi degli ostacoli o degli avversari e si esprimono giudizi senza conoscere i loro volti e le loro storie.

Ma ascoltiamo che cosa dice Gesù nel Vangelo: «Non giudicate» (Mt 7,1). Il Vangelo non va addolcito, non va annacquato. Non giudicate, ci dice Cristo. Quante volte, invece, non solo parliamo senza elementi o per sentito dire, ma ci riteniamo nel giusto quando siamo giudici rigorosi degli altri. Indulgenti con noi stessi, inflessibili con gli altri. Quante volte i giudizi sono in realtà pregiudizi, quante volte aggettiviamo! È sfigurare con le parole la bellezza dei figli di Dio, che sono nostri fratelli. Non si può ridurre la realtà dell’altro ai propri modelli preconfezionati, non si possono schematizzare le persone. Anzitutto, per conoscerle veramente, bisogna riconoscerle: riconoscere che ciascuno porta in sé la bellezza insopprimibile di figlio di Dio, in cui il Creatore si rispecchia.

Cari fratelli e sorelle, troppe volte voi siete stati oggetto di preconcetti e di giudizi impietosi, di stereotipi discriminatori, di parole e gesti diffamatori. Con ciò tutti siamo divenuti più poveri, poveri di umanità. Quello che ci serve per recuperare dignità è passare dai pregiudizi al dialogo, dalle chiusure all’integrazione. Ma come fare? Nikola e René, ci avete aiutato: la vostra storia d’amore è nata qui ed è maturata grazie alla vicinanza e all’incoraggiamento che avete ricevuto. Vi siete sentiti responsabilizzati e avete voluto un lavoro; vi siete sentiti amati e siete cresciuti con il desiderio di dare qualcosa di più ai vostri figli.

Così ci avete dato un messaggio prezioso: dove c’è cura della persona, dove c’è lavoro pastorale, dove c’è pazienza e concretezza i frutti arrivano. Non subito, col tempo, ma arrivano. Giudizi e pregiudizi aumentano solo le distanze. Contrasti e parole forti non aiutano. Ghettizzare le persone non risolve nulla. Quando si alimenta la chiusura prima o poi divampa la rabbia. La via per una convivenza pacifica è l’integrazione. È un processo organico, un processo lento e vitale, che inizia con la conoscenza reciproca, va avanti con pazienza e guarda al futuro. E a chi appartiene il futuro? Possiamo domandarci: a chi appartiene il futuro? Ai bambini. Sono loro a orientarci: i loro grandi sogni non possono infrangersi contro le nostre barriere. Essi vogliono crescere insieme agli altri, senza ostacoli, senza preclusioni. Meritano una vita integrata, una vita libera. Sono loro a motivare scelte lungimiranti, che non ricercano il consenso immediato, ma guardano all’avvenire di tutti. Per i figli vanno fatte scelte coraggiose: per la loro dignità, per la loro educazione, perché crescano ben radicati nelle loro origini ma al tempo stesso senza vedere preclusa ogni possibilità.

Ringrazio chi porta avanti questo lavoro di integrazione che, oltre a comportare non poche fatiche, a volte riceve pure incomprensione e ingratitudine, magari persino nella Chiesa. Cari sacerdoti, religiosi e laici, cari amici che dedicate il vostro tempo per offrire uno sviluppo integrale ai vostri fratelli e sorelle, grazie! Grazie per tutto il lavoro con chi è ai margini. Penso anche ai rifugiati e ai detenuti. A questi, in particolare, e a tutto il mondo carcerario esprimo la mia vicinanza. Grazie, don Peter, di averci parlato dei centri pastorali, dove non fate assistenzialismo sociale, ma accompagnamento personale. Grazie, a voi, Salesiani. Andate avanti su questa strada, che non illude di poter dare tutto e subito, ma è profetica, perché include gli ultimi, costruisce la fraternità, semina la pace. Non abbiate paura di uscire incontro a chi è emarginato. Vi accorgerete di uscire incontro a Gesù. Egli vi attende là dove c’è fragilità, non comodità; dove c’è servizio, non potere; dove c’è da incarnarsi, non da compiacersi. Lì è Lui.

E invito tutti voi ad andare oltre le paure, oltre le ferite del passato, con fiducia, passo dopo passo: nel lavoro onesto, nella dignità di guadagnare il pane quotidiano, nell’alimentare la fiducia reciproca. E nella preghiera gli uni per gli altri, perché è questo che ci orienta e ci dà forza. Vi incoraggio, vi benedico e vi porto l’abbraccio di tutta la Chiesa. Grazie. Palikerav.

Incontro con i giovani, Košice

Cari giovani, cari fratelli e sorelle, dobrý večer! [buonasera!]

Mi ha dato gioia ascoltare le parole di Mons. Bernard, le vostre testimonianze e le vostre domande. Ne avete fatte tre e io vorrei provare a cercare delle risposte con voi.

Inizio da Peter e Zuzka, dalla vostra domanda sull’amore nella coppia. L’amore è il sogno più grande della vita, ma non è un sogno a buon mercato. È bello, ma non è facile, come tutte le cose grandi della vita. È il sogno, ma non è un sogno facile da interpretare. Vi rubo una frase: «Abbiamo cominciato a percepire questo dono con occhi totalmente nuovi». Davvero, come avete detto, servono occhi nuovi, occhi che non si lasciano ingannare dalle apparenze. Amici, non banalizziamo l’amore, perché l’amore non è solo emozione e sentimento, questo semmai è l’inizio. L’amore non è avere tutto e subito, non risponde alla logica dell’usa e getta. L’amore è fedeltà, dono, responsabilità.

La vera originalità oggi, la vera rivoluzione, è ribellarsi alla cultura del provvisorio, è andare oltre l’istinto, oltre l’istante, è amare per tutta la vita e con tutto sé stessi. Non siamo qui per vivacchiare, ma per fare della vita un’impresa. Tutti voi avrete in mente grandi storie, che avete letto nei romanzi, visto in qualche film indimenticabile, sentito in qualche racconto toccante. Se ci pensate, nelle grandi storie ci sono sempre due ingredienti: uno è l’amore, l’altro è l’avventura, l’eroismo. Vanno sempre insieme. Per fare grande la vita ci vogliono entrambi: amore ed eroismo. Guardiamo a Gesù, guardiamo al Crocifisso, ci sono entrambi: un amore sconfinato e il coraggio di dare la vita fino alla fine, senza mezze misure. C’è qui davanti a noi la Beata Anna, un’eroina dell’amore. Ci dice di puntare a traguardi alti. Per favore, non facciamo passare i giorni della vita come le puntate di una telenovela.

Perciò, quando sognate l’amore, non credete agli effetti speciali, ma che ognuno di voi è speciale, ognuno di voi. Ognuno è un dono e può fare della vita, della propria vita, un dono. Gli altri, la società, i poveri vi aspettano. Sognate una bellezza che vada oltre l’apparenza, oltre il trucco, al di là delle tendenze della moda. Sognate senza paura di formare una famiglia, di generare ed educare dei figli, di passare una vita condividendo tutto con un’altra persona, senza vergognarsi delle proprie fragilità, perché c’è lui, o lei, che le accoglie e le ama, che ti ama così come sei. Questo è l’amore: amare l’altro come è, e questo è bello! I sogni che abbiamo ci dicono la vita che desideriamo. I grandi sogni non sono l’auto potente, il vestito alla moda o la vacanza trasgressiva. Non date ascolto a chi vi parla di sogni e invece vi vende illusioni. Una cosa è il sogno, sognare, e altra cosa avere illusioni. Questi che vendono illusioni parlando di sogno sono manipolatori di felicità. Siamo stati creati per una gioia più grande: ciascuno di noi è unico ed è al mondo per sentirsi amato nella sua unicità e per amare gli altri come nessuno può fare al posto suo. Non si vive seduti in panchina a fare la riserva di qualcun altro. No, ciascuno è unico agli occhi di Dio. Non lasciatevi “omologare”; non siamo fatti in serie, siamo unici, siamo liberi, e siamo al mondo per vivere una storia d’amore, di amore con Dio, per abbracciare l’audacia di scelte forti, per avventurarci nel rischio meraviglioso di amare. Vi domando: credete questo? Vi domando: sognate questo? [rispondono: “Sì!”] Sicuri? [“Sì!”] Bravi!

Vorrei darvi un altro consiglio. Perché l’amore porti frutto, non dimenticate le radici. E quali sono le vostre radici? I genitori e soprattutto i nonni. State attenti: i nonni. Loro vi hanno preparato il terreno. Innaffiate le radici, andate dai nonni, vi farà bene: fate loro domande, dedicate tempo ad ascoltare i loro racconti. Oggi c’è il pericolo di crescere sradicati, perché siamo portati a correre, a fare tutto di fretta: quello che vediamo in internet può arrivarci subito a casa; basta un clic e persone e cose compaiono sullo schermo. E poi succede che diventino più familiari dei volti che ci hanno generato. Pieni di messaggi virtuali, rischiamo di perdere le radici reali. Disconnetterci dalla vita, fantasticare nel vuoto, non fa bene, è una tentazione del maligno. Dio ci vuole ben piantati per terra, connessi alla vita; mai chiusi, ma sempre aperti a tutti! Radicati e aperti. Avete capito? Radicati e aperti.

Sì, è vero, ma – mi direte voi – il mondo la pensa diversamente. Si parla tanto d’amore, ma in realtà vige un altro principio: ciascuno pensi per sé. Cari giovani, non lasciatevi condizionare da questo, da ciò che non va, dal male che imperversa. Non lasciatevi imprigionare dalla tristezza, dallo scoraggiamento rassegnato di chi dice che nulla mai cambierà. Se si crede a questo ci si ammala di pessimismo. E voi avete visto la faccia di un giovane, di una giovane pessimista? Avete visto quale faccia ha? Una faccia amareggiata, una faccia di amarezza. Il pessimismo ci ammala di amarezza, ci invecchia dentro. E si invecchia giovani. Oggi ci sono tante forze disgregatrici, tanti che incolpano tutti e tutto, amplificatori di negatività, professionisti della lamentela. Non ascoltateli!, no, perché la lamentela e il pessimismo non sono cristiani, il Signore detesta tristezza e vittimismo. Non siamo fatti per tenere la faccia a terra, ma per alzare lo sguardo al Cielo, agli altri, alla società.

E quando siamo giù – perché tutti nella vita siamo in certi momenti un po’ giù, tutti conosciamo questa esperienza – e quando siamo giù, che cosa possiamo fare? C’è un rimedio infallibile per rialzarci. È quello che ci hai raccontato tu, Petra: la Confessione. Avete ascoltato Petra, voi? [“Sì!”] Il rimedio della Confessione. Mi hai chiesto: «Come può un giovane oltrepassare gli ostacoli sulla via verso la misericordia di Dio?». Anche qua è questione di sguardo, di guardare a quello che conta. Se io vi domando: “A che cosa pensate quando andate a confessarvi?” – non ditelo a voce alta –, sono quasi certo della risposta: “Ai peccati”. Ma – vi chiedo, rispondete – i peccati sono davvero il centro della Confessione? [“No!”] Non sento… [“No!”] Bravi! Dio vuole che ti avvicini a Lui pensando a te, ai tuoi peccati, o a Lui? Cosa vuole Dio? Che ti avvicini a Lui o ai tuoi peccati? Cosa vuole? Rispondete [“A lui!”] Più forte, che sono sordo… [“A Lui!”] Qual è il centro, i peccati o il Padre che perdona tutti i peccati? Il Padre. Non si va a confessarsi come dei castigati che devono umiliarsi, ma come dei figli che corrono a ricevere l’abbraccio del Padre. E il Padre ci risolleva in ogni situazione, ci perdona ogni peccato. Sentite bene questo: Dio perdona sempre! Avete capito? Dio perdona sempre!

Vi do un piccolo consiglio: dopo ogni Confessione, rimanete qualche istante a ricordare il perdono che avete ricevuto. Custodite quella pace nel cuore, quella libertà che provate dentro. Non i peccati, che non ci sono più, ma il perdono che Dio ti ha regalato, la carezza di Dio Padre. Quello custodite, non lasciatevelo rubare. E quando la volta dopo andate a confessarvi, ricordatelo: vado a ricevere ancora quell’abbraccio che mi ha fatto tanto bene. Non vado da un giudice a regolare i conti, vado da Gesù che mi ama e mi guarisce. In questo momento mi viene di dare un consiglio ai preti: io direi ai preti che si sentano al posto di Dio Padre che perdona sempre e abbraccia e accoglie. Diamo a Dio il primo posto nella Confessione. Se Dio, se Lui è il protagonista, tutto diventa bello e confessarsi diventa il Sacramento della gioia. Sì, della gioia: non della paura e del giudizio, ma della gioia. Ed è importante che i preti siano misericordiosi. Mai curiosi, mai inquisitori, per favore, ma che siano fratelli che donano il perdono del Padre, che siano fratelli che accompagnano in questo abbraccio del Padre.

Ma qualcuno potrebbe dire: “Io comunque mi vergogno, non riesco a superare la vergogna di andare a confessarmi”. Non è un problema, è una cosa buona! Vergognarsi, nella vita, alle volte fa bene. Se ti vergogni, vuol dire che non accetti quello che hai fatto. La vergogna è un buon segno, ma come ogni segno chiede di andare oltre. Non rimanere prigioniero della vergogna, perché Dio non si vergogna mai di te. Lui ti ama proprio lì, dove tu ti vergogni di te stesso. E ti ama sempre. Vi dico una cosa che non è nel maxischermo. Nella mia terra, quegli sfacciati che fanno di tutto male, li chiamiamo “senza-vergogna”.

E un ultimo dubbio: “Ma, Padre, io non riesco a perdonarmi, quindi neanche Dio potrà perdonarmi, perché cadrò sempre negli stessi peccati”. Ma – senti – Dio, quando si offende? Quando vai a chiedergli perdono? No, mai. Dio soffre quando noi pensiamo che non possa perdonarci, perché è come dirgli: “Sei debole nell’amore!”. Direi questo a Dio è brutto! Dirgli “sei debole nell’amore”. Invece Dio gioisce nel perdonarci, ogni volta. Quando ci rialza crede in noi come la prima volta, non si scoraggia. Siamo noi che ci scoraggiamo, Lui no. Non vede dei peccatori da etichettare, ma dei figli da amare. Non vede persone sbagliate, ma figli amati; magari feriti, e allora ha ancora più compassione e tenerezza. E ogni volta che ci confessiamo – non dimenticatelo mai – in Cielo si fa festa. Che sia così anche in terra!

Infine, Peter e Lenka, nella vita avete sperimentato la croce. Grazie per la vostra testimonianza. Avete chiesto come «incoraggiare i giovani a non temere di abbracciare la croce». Abbracciare: è un bel verbo! Abbracciare aiuta a vincere la paura. Quando veniamo abbracciati riacquistiamo fiducia in noi stessi e anche nella vita. Allora lasciamoci abbracciare da Gesù. Perché quando abbracciamo Gesù riabbracciamo la speranza. La croce non si può abbracciare da sola; il dolore non salva nessuno. È l’amore che trasforma il dolore. Quindi, è con Gesù che si abbraccia la croce, mai da soli! Se si abbraccia Gesù, rinasce la gioia. E la gioia di Gesù, nel dolore, si trasforma in pace. Cari giovani, care giovani, vi auguro questa gioia, più forte di ogni cosa. Vi auguro di portarla ai vostri amici. Non prediche, ma gioia. Portate gioia! Non parole, ma sorrisi, vicinanza fraterna. Vi ringrazio per avermi ascoltato e vi chiedo un’ultima cosa: non dimenticatevi di pregare per me. Ďakujem! [Grazie!]

In piedi, tutti, e preghiamo Dio che ci ama, preghiamo il Padre Nostro: “Padre nostro…” [in slovacco]

[Benedizione]


15 settembre, Bratislava, Šaštin

Santa Messa, Šaštin

Nel Tempio di Gerusalemme, le braccia di Maria si protendono verso quelle del vecchio Simeone, che può accogliere Gesù e riconoscerlo come il Messia inviato per la salvezza di Israele. In questa scena contempliamo chi è Maria: è la Madre che ci dona il Figlio Gesù. Per questo la amiamo e la veneriamo. E in questo Santuario nazionale di Šaštín, il popolo slovacco accorre, con fede e devozione, perché sa che è Lei a donarci Gesù. Nel “logo” di questo Viaggio Apostolico c’è una strada disegnata dentro un cuore sormontato dalla Croce: Maria è la strada che ci introduce nel Cuore di Cristo, che ha dato la vita per amore nostro.

Alla luce del Vangelo che abbiamo ascoltato, possiamo guardare a Maria come modello della fede. E riconosciamo tre caratteristiche della fede: il cammino, la profezia e la compassione.

Anzitutto, la fede di Maria è una fede che si mette in cammino. La fanciulla di Nazaret, appena ricevuto l’annuncio dell’Angelo, «si mise in viaggio verso la montagna» (Lc 1,39), per andare a visitare e aiutare Elisabetta, sua cugina. Non ritenne un privilegio l’essere stata chiamata a diventare Madre del Salvatore; non perse la gioia semplice della sua umiltà per aver ricevuto la visita dell’Angelo; non rimase ferma a contemplare sé stessa, tra le quattro mura di casa sua. Al contrario, Ella ha vissuto quel dono ricevuto come missione da compiere; ha sentito l’esigenza di aprire la porta, uscire di casa; ha dato vita e corpo all’impazienza con cui Dio vuole raggiungere tutti gli uomini per salvarli con il suo amore. Per questo Maria si mette in cammino: alla comodità delle abitudini preferisce le incognite del viaggio, alla stabilità della casa la fatica della strada, alla sicurezza di una religiosità tranquilla il rischio di una fede che si mette in gioco, facendosi dono d’amore per l’altro.

Anche il Vangelo di oggi ci fa vedere Maria in cammino: verso Gerusalemme dove, insieme a Giuseppe suo sposo, presenta Gesù nel Tempio. E tutta la sua vita sarà un cammino dietro al suo Figlio, come prima discepola, fino al Calvario, ai piedi della Croce. Sempre Maria cammina.

Così, la Vergine è modello della fede di questo popolo slovacco: una fede che si mette in cammino, sempre animata da una devozione semplice e sincera, sempre in pellegrinaggio alla ricerca del Signore. E, camminando, voi vincete la tentazione di una fede statica, che si accontenta di qualche rito o vecchia tradizione, e invece uscite da voi stessi, portate nello zaino le gioie e i dolori, e fate della vita un pellegrinaggio d’amore verso Dio e i fratelli. Grazie per questa testimonianza! E per favore, restate in cammino, sempre. Non fermarsi! E vorrei anche aggiungere una cosa. Ho detto: “Non fermarsi”, ma quando la Chiesa si ferma, si ammala; quando i vescovi si fermano, ammalano la Chiesa; quando i preti si fermano, ammalano il popolo di Dio.

Quella di Maria è anche una fede profetica. Con la sua stessa vita, la giovane fanciulla di Nazaret è profezia dell’opera di Dio nella storia, del suo agire misericordioso che rovescia le logiche del mondo, innalzando gli umili e abbassando i superbi (cfr Lc 1,52). Lei, rappresentante di tutti i “poveri di Jahweh”, che gridano a Dio e attendono la venuta del Messia, Maria è la Figlia di Sion annunciata dai profeti di Israele (cfr Sof 3,14-18), la Vergine che concepirà il Dio con noi, l’Emmanuele (cfr Is 7,14). Come Vergine Immacolata, Maria è icona della nostra vocazione: come Lei, siamo chiamati a essere santi e immacolati nell’amore (cfr Ef 1,4), diventando immagine di Cristo.

La profezia di Israele culmina in Maria, perché Ella porta in grembo la Parola di Dio fattasi carne, Gesù. Egli realizza pienamente e definitivamente il disegno di Dio. Di Lui, Simeone dice alla Madre: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione» (Lc 2,34).

Non dimentichiamo questo: non si può ridurre la fede a zucchero che addolcisce la vita. Non si può. Gesù è segno di contraddizione. È venuto a portare la luce dove ci sono le tenebre, facendo uscire le tenebre allo scoperto e costringendole alla resa. Per questo le tenebre lottano sempre contro di Lui. Chi accoglie Cristo e si apre a Lui risorge; chi lo rifiuta si chiude nel buio e rovina sé stesso. Ai suoi discepoli Gesù disse di non essere venuto a portare pace, ma una spada (cfr Mt 10,34): infatti la sua Parola, come spada a doppio taglio, entra nella nostra vita e separa la luce dalle tenebre, chiedendoci di scegliere. Dice: “Scegli”. Davanti a Gesù non si può restare tiepidi, con “il piede in due scarpe”. No, non si può. Accoglierlo significa accettare che Egli sveli le mie contraddizioni, i miei idoli, le suggestioni del male; e che diventi per me risurrezione, Colui che sempre mi rialza, che mi prende per mano e mi fa ricominciare. Sempre mi rialza.

E proprio di questi profeti ha bisogno oggi anche la Slovacchia. Voi, Vescovi: profeti che vadano su questa strada. Non si tratta di essere ostili al mondo, ma di essere “segni di contraddizione” nel mondo. Cristiani che sanno mostrare, con la vita, la bellezza del Vangelo. Che sono tessitori di dialogo laddove le posizioni si irrigidiscono; che fanno risplendere la vita fraterna, laddove spesso nella società ci si divide e si è ostili; che diffondono il buon profumo dell’accoglienza e della solidarietà, laddove prevalgono spesso gli egoismi personali, gli egoismi collettivi; che proteggono e custodiscono la vita dove regnano logiche di morte.

Maria, Madre del cammino, si mette in cammino; Maria, Madre della profezia; infine, Maria è la Madre della compassione. La sua fede è compassionevole. Colei che si è definita “la serva del Signore” (cfr Lc 1,38) e che, con premura materna, si è preoccupata di non far mancare il vino alle nozze di Cana (cfr Gv 2,1-12), ha condiviso con il Figlio la missione della salvezza, fino ai piedi della Croce. In quel momento, nel dolore straziante vissuto sul Calvario, Ella ha compreso la profezia di Simeone: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). La sofferenza del Figlio morente, che prendeva su di sé i peccati e i patimenti dell’umanità, ha trafitto anche Lei. Gesù lacerato nella carne, Uomo dei dolori sfigurato dal male (cfr Is 53,3); Maria, lacerata nell’anima, Madre compassionevole che raccoglie le nostre lacrime e nello stesso tempo ci consola, indicandoci in Cristo la vittoria definitiva.

E Maria Addolorata, sotto la croce, semplicemente rimane. Sta sotto la croce. Non scappa, non tenta di salvare sé stessa, non usa artifici umani e anestetizzanti spirituali per sfuggire al dolore. Questa è la prova della compassione: restare sotto la croce. Restare col volto segnato dalle lacrime, ma con la fede di chi sa che nel suo Figlio Dio trasforma il dolore e vince la morte.

E anche noi, guardando la Vergine Madre Addolorata, ci apriamo a una fede che si fa compassione, che diventa condivisione di vita verso chi è ferito, chi soffre e chi è costretto a portare croci pesanti sulle spalle. Una fede che non rimane astratta, ma ci fa entrare nella carne e ci fa solidali con chi è nel bisogno. Questa fede, con lo stile di Dio, umilmente e senza clamori, solleva il dolore del mondo e irriga di salvezza i solchi della storia.

Cari fratelli e sorelle, il Signore vi conservi sempre lo stupore, vi conservi la gratitudine per il dono della fede! E Maria Santissima vi ottenga la grazia che la vostra fede rimanga sempre in cammino, che abbia il respiro della profezia e che sia una fede ricca di compassione.


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