Santificare con il lavoro

Nel santificare il proprio lavoro e identificandosi con Cristo nel lavoro, necessariamente ogni cristiano dà frutto, cioè santifica gli altri. Il servizio verso gli altri attraverso la propria professione è il tema di questo editoriale.

Nella storia della Chiesa e dell’umanità, il messaggio che Dio fece vedere a san Josemaría Escrivá nel 1928 rappresenta un insegnamento nuovo e antico come il Vangelo, con tutta la sua forza trasformatrice degli uomini e del mondo.

La santificazione del lavoro professionale è seme vivo, capace di dare frutti di santità in una immensa quantità di anime: Per la maggior parte degli uomini, la santità consiste nel santificare il proprio lavoro, nel santificarsi nel lavoro e nel santificare gli altri per mezzo del lavoro[1]. Con questa frase espressiva – ha affermato il Prelato nell’omelia del 7 ottobre 2002, il giorno successivo alla canonizzazione di san Josemaría – il Fondatore dell’Opus Dei riassumeva il nucleo del messaggio che Dio gli aveva affidato, per ricordarlo ai cristiani[2].

Il Seminatore divino ha seminato questo seme nella vita di migliaia di persone affinché cresca e se ne moltiplichi il frutto: nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno[3]. Riesaminare con calma ognuno di questi tre aspetti, spesso può costituire uno spunto di dialogo con Dio nell’orazione. Sto santificando il mio lavoro? Mi sto santificando nel lavoro? In altre parole, mi vado trasformando in un altro Cristo attraverso la mia professione? Quali frutti di apostolato sto dando con il mio lavoro?

Un figlio di Dio non deve temere di farsi queste domande sul significato ultimo del proprio lavoro. Piuttosto deve temere di non farsele, perché allora corre il rischio che lo scorrere delle sue giornate non riesca a trovare lo sbocco verso il fine autentico, disperdendo le proprie forze in attività numerose ma sterili.

In unità di vita

Tre aspetti, nei quali san Josemaría riassume lo spirito di santificazione del lavoro, sono intrinsecamente uniti, come in una spiga di frumento lo sono la radice, lo stelo e il grano che ne è il frutto.

Il primo – santificare il lavoro: rendere santa l’azione di lavorare, svolgendola per amore di Dio con la maggiore perfezione che ognuno possa ottenere, per offrirla in unione con Cristo – è il più basilare dei tre, la radice degli altri.

Il secondo – santificarsi nel lavoro – è, in un certo senso, la conseguenza del precedente. Chi cerca di santificare il lavoro, necessariamente si santifica: ossia, permette che lo Spirito Santo lo santifichi, identificandolo sempre più con Cristo. Tuttavia, in una pianta non è sufficiente annaffiare la radice, ma bisogna aver cura anche dello stelo perché cresca diritto, e qualche volta bisogna applicare un sostegno, un paletto, affinché il vento non lo spezzi, oppure proteggerlo dagli animali e dalle calamità... Così occorre adoperare molti mezzi per identificarsi con Cristo nel lavoro: orazione, sacramenti e mezzi di formazione, con i quali si vanno coltivando le virtù cristiane. Grazie a queste virtù si fortifica anche la radice e diviene sempre più naturale santificare il lavoro.

Con il terzo – santificare con il lavoro – accade qualcosa di simile. Sicuramente si può considerare una conseguenza degli altri due, perché, santificando il proprio lavoro e identificandosi con Cristo, ogni cristiano necessariamente dà frutto, cioè santifica gli altri con il proprio lavoro ­–, secondo le parole del Signore: Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto[4]. Questo non significa che un cristiano si possa disinteressare dal dare frutto, quasi esso sgorgasse spontaneamente dalla radice e dallo stelo.

Nella santificazione del lavoro i tre aspetti sono strettamente uniti fra loro, e influiscono reciprocamente. Chi non cerca di santificare gli altri con il proprio lavoro, preoccupandosi esclusivamente di santificare il suo, in realtà non lo santificherebbe. Sarebbe come il fico sterile che tanto dispiacque a Gesù perché, pur avendo radici e foglie, non aveva frutti[5]. In effetti, un buon indicatore della rettitudine di intenzione con la quale dobbiamo compiere il nostro lavoro professionale è proprio il modo in cui si mettono a frutto i rapporti sociali o di amicizia che nascono durante lo svolgimento della professione, per avvicinare a Dio queste anime[6].

Prendiamo ora in considerazione con maggiori dettagli quest’ultimo aspetto della santificazione del lavoro, che in qualche modo fa conoscere gli altri due, come i frutti sono la manifestazione della pianta e della radice. Dai loro frutti li riconoscerete[7], dice il Signore.

«Ego elegi vos et posui vos...»

Se si considera il proprio lavoro professionale con una visione semplicemente umana, sicuramente verrà in mente che esso è il risultato di diverse circostanze – capacità e preferenze, obblighi e casi della vita… – che hanno portato a compiere proprio quel lavoro e non un altro. Un cristiano, però, deve guardare le cose in modo più profondo ed elevato, con un senso soprannaturale che gli faccia scoprire la chiamata personale di Dio alla santità e all’apostolato.

Ciò che appariva una situazione assolutamente fortuita, acquista allora un significato di missione e si comincia a stare in un modo nuovo nel medesimo posto dove si stava prima[8]. Certamente non come chi è capitato per caso in quel luogo, ma come chi vi è stato inviato da Cristo. Io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga[9]. Il luogo di lavoro, l’ambiente professionale nel quale ognuno si trova, è il suo campo di apostolato, la terra appropriata nella quale seminare e coltivare il buon seme di Cristo. La promessa di Gesù non può andare a vuoto: quando si cerca di santificare il proprio lavoro e santificarsi in esso, c’è sempre un frutto apostolico.

È necessario, tuttavia, non farsi ingannare dalle apparenze.

Il Signore avverte anche che il Padre celeste poterà quello che già produce, perché porti più frutto[10]. Opera in questo modo perché vuole benedire ancora di più i suoi figli. Li pota per migliorarli, anche se la potatura è dolorosa. Molte volte ciò significa alcune difficoltà che Egli permette per purificare l’anima togliendo ciò che è superfluo. Certe volte, per esempio, scompare l’entusiasmo umano per il proprio lavoro; allora bisogna svolgerlo controvoglia, per amore, senz’altra soddisfazione che di piacere a Dio; altre volte si tratta di una difficoltà economica seria, che forse Dio permette affinché noi continuiamo a impiegare tutti i mezzi umani, ma con maggiore fiducia filiale in Lui, come Gesù ci insegna[11], senza lasciarci prendere dalla tristezza e dalla preoccupazione per il futuro. Altre volte ancora si tratta di un insuccesso professionale, di quelli che possono far crollare tutti coloro che lavorano soltanto con mire umane e che, invece, aiutano a stare sulla Croce coloro che desiderano corredimere con Cristo. Spesso la potatura provoca un ritardo nei frutti, e allora ci si scoraggia, non vedendo i frutti apostolici del lavoro.

In ogni caso, sarebbe un errore confondere questa situazione con quell’altra a cui si riferisce Gesù in una parabola: Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno?”[12]. È il caso di chi nel suo lavoro non dà frutti apostolici a causa della propria infingardaggine e pigrizia, dell’imborghesimento e dell’egoismo di pensare soltanto o principalmente a se stesso. Allora l’assenza di frutto non è soltanto apparente; non c’è frutto perché non c’è generosità, non c’è impegno, non c’è sacrificio: in sostanza, manca la buona volontà.

Cristo stesso ci insegna a distinguere le situazioni attraverso i segni: Quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina[13]. Coloro che il Signore pota, sembra che non portino frutto, ma sono pieni di vita. Il loro amore di Dio appare da altri segni evidenti, come la delicatezza nel curare i tempi dell’orazione, la carità con tutti, l’impegno perseverante nell’impiegare tutti i mezzi umani e soprannaturali nell’apostolato...: segni altrettanto inconfondibili come i teneri germogli del fico, messaggeri dei frutti che arriveranno a suo tempo. In realtà, stanno santificando altre anime con il proprio lavoro professionale perché ogni lavoro che è orazione, è apostolato[14]. Il lavoro trasformato in orazione ottiene effettivamente da Dio una pioggia di grazie che fruttifica in molti cuori.

Gli altri, invece, non danno frutto né stanno per darlo; però sono ancora vivi e possono cambiare, se lo vogliono. Non mancherà l’aiuto che Dio invierà loro, ascoltando le suppliche dei loro amici, come quelle del vignaiolo che intercedeva per il fico: Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime, e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai[15]. È sempre possibile uscire da una situazione di sterilità apostolica in qualche modo volontaria. È sempre ora di convertirsi e dare molto frutto, con la grazia di Dio. Che la tua vita non sia una vita sterile. Sii utile. Lascia traccia. Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore...[16]. Soltanto allora si riempirà di significato l’attività professionale, ne apparirà tutta la bellezza e nascerà un entusiasmo nuovo, fino ad allora sconosciuto. Un entusiasmo simile a quello di san Pietro dopo che ebbe adempiuto il comando di Gesù: Prendi il largo![17], ed ebbe ascoltato, dopo la pesca miracolosa, la promessa di frutti di altro ordine e importanza: Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini[18].

Nella nostra vita si possono presentare entrambe le situazioni, in certi momenti la prima e in altri la seconda. Esternamente forse potrebbero anche sembrare uguali per il fatto che non si vedono i frutti apostolici del proprio lavoro professionale, però non è difficile sapere se si tratta dell’una o dell’altra. Basta essere sinceri nell’orazione. Basta rispondere con chiarezza alla seguente domanda: sto impiegando tutti i mezzi a mia disposizione per santificare gli altri con il lavoro, o me ne disinteresso e mi accontento di poco, quando in realtà potrei fare molto di più? Amo quelli che lavorano con me? Cerco di servirli? Poi, cercare sempre l’aiuto esigente della direzione spirituale. Questa è la via della santità e della fecondità apostolica.

Come brace ardente

Trasformare la professione in mezzo di apostolato è parte essenziale dello spirito di santificazione del lavoro e segno che, in effetti, ci si sta santificando. Santità e apostolato sono inseparabili, come l’amore di Dio e per gli altri attraverso Dio.

Devi comportarti come una brace ardente, che appicca fuoco ovunque si trovi; o, per lo meno, fa’ in modo di innalzare la temperatura spirituale di quanti ti stanno attorno, portandoli a vivere una intensa vita cristiana[19]. Il lavoro professionale è il luogo naturale nel quale ci troviamo, come la brace nel braciere. È lì che deve trovare compimento questa frase di san Josemaría, in modo che le persone che ci stanno attorno ricevano il calore della carità di Cristo. Bisogna dare esempio di serenità, saper sorridere, ascoltare e comprendere, e mostrarsi servizievole.

Chiunque dovrebbe poter percepire, stando al nostro fianco, l’influsso di uno che innalza il tono dell’ambiente perché – a parte la competenza professionale – non passano inosservati lo spirito di servizio, la lealtà, l’amabilità, la gioia e l’impegno nel superare i propri difetti.

Tutto questo fa parte del prestigio professionale che devono coltivare tutti coloro che vogliono portare gli altri a Cristo. Il prestigio professionale di un cristiano non è dovuto semplicemente alla buona realizzazione del lavoro sul piano tecnico; è un prestigio umano, intessuto di virtù modellate dalla carità. In tal modo, il lavoro professionale – qualunque esso sia – diventa la lucerna che illumina i vostri amici e colleghi[20]. Senza la carità, invece, non si può avere un prestigio professionale cristiano, per lo meno non quello che Dio chiede, l’amo di pescatore di uomini[21] e strumento di apostolato. Senza la carità non è possibile portare le anime a Dio, perché Dio è amore[22]. Vale la pena ribadirlo: un buon professionista, efficace e competente, se non fa in modo di praticare non dico la giustizia, ma la carità, non avrà il prestigio professionale proprio di un figlio di Dio.

Il prestigio, in ogni caso, non è un fine ma un mezzo: un mezzo per avvicinare le anime a Dio con la parola opportuna [...] mediante un apostolato che talvolta ho chiamato di amicizia e confidenza[23]. Consapevoli che, insieme alla filiazione divina, con il Battesimo abbiamo ricevuto una partecipazione al sacerdozio di Cristo e, dunque, al triplice ufficio di santificare, insegnare e guidare gli altri, abbiamo ora un titolo per entrare nella vita degli altri, per stabilire quel rapporto profondo di amicizia e di confidenza con tante persone, nel vasto campo delle relazioni professionali.

Campo che non si riduce alle persone che lavorano nello stesso luogo e che hanno un’età simile, ma si estende a tutti coloro con i quali, in un modo o nell’altro, si può stabilire un contatto in occasione del lavoro. Ogni cristiano cercherà le occasioni per stare insieme, per poter parlare a quattr’occhi, migliorando la conoscenza: un pranzo, un momento di sport, una passeggiata. Pertanto, dovremo dedicare tempo agli altri, essere raggiungibili, saper trovare il momento adatto. Dobbiamo dare quello che riceviamo, insegnare ciò che impariamo, partecipare agli altri – senza montare in cattedra, con semplicità – la nostra conoscenza dell’amore di Cristo. Ciascuno di noi, nel realizzare il proprio lavoro, nell’esercitare la propria professione nella società, può e deve trasformare la sua occupazione in un compito di servizio[24].

Orientare la società

Con il lavoro professionale – ognuno con il proprio – i cristiani possono contribuire efficacemente a orientare l’intera società secondo lo spirito di Cristo. Non soltanto, ma il lavoro santificato è necessariamente santificatore della società, perché svolto in questo modo, quel lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali[25].

In questo senso, san Josemaría ha scritto in Forgia: Impégnati affinché le istituzioni e le strutture umane, in cui lavori e ti muovi con pieno diritto di cittadinanza, si adeguino ai principi che reggono una concezione cristiana della vita. Così, non dubitarne, assicuri agli uomini i mezzi per vivere in modo adeguato alla loro dignità, e renderai possibile a molte anime di rispondere personalmente, con la grazia di Dio, alla vocazione cristiana[26].

Mettere in pratica seriamente le norme di morale professionale proprie di ogni lavoro è una esigenza basilare e fondamentale di ogni attività apostolica; però occorre anche aspirare a diffonderle, facendo il possibile affinché altri le conoscano e le pratichino. Non vale la scusa che è poco quello che uno può fare in un ambiente nel quale hanno messo radici consuetudini immorali. Se è vero che queste consuetudini sono la conseguenza dell’accumularsi di peccati personali, esse scompariranno soltanto come frutto dell’impegno di mettere in pratica personalmente le virtù cristiane[27]. Spesso sarà necessario chiedere un consiglio. Nell’orazione e nei sacramenti il lavoratore troverà la fortezza, quando sarà necessario, di dimostrare con i fatti che ama la verità sopra ogni cosa, a costo, se occorre, del proprio impiego.

«Da quando il 7 agosto 1931, durante la celebrazione della Santa Messa, risuonarono nella sua anima le parole di Gesù: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32), Josemaría Escrivá comprese più chiaramente che la missione dei battezzati consiste nell’elevare la Croce di Cristo su ogni realtà umana, e sentì nascere interiormente l’appassionante chiamata a evangelizzare tutti gli ambiti»[28]. Questo ideale di orientare la società secondo lo spirito cristiano non è un sogno inutile, e può diventare realtà[29]. San Josemaría – affermava Giovanni Paolo II il giorno della canonizzazione - «continua a ricordarvi la necessità di non lasciarvi intimorire dinanzi a una cultura materialistica, che minaccia di dissolvere l’identità più autentica dei discepoli di Cristo. Gli piaceva ripetere con vigore che la fede cristiana si oppone al conformismo e all’inerzia interiore»[30].

Il Signore previene da un pericolo: dice che arriverà un tempo in cui, per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà[31]. Noi cristiani, messi sull’avviso dalle sue parole, invece di scoraggiarci per l’abbondanza del male – anche per le miserie personali – reagiremo con umiltà e fiducia in Dio, ricorrendo all’intercessione di Santa Maria: sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio[32].

Javier López


[1] San Josemaría, Colloqui, n. 55; Cfr. È Gesù che passa, nn. 45, 122.

[2] Mons. Javier Echevarría, Omelia nella Messa di ringraziamento per la canonizzazione di san Josemaría, 7-X-2002.

[3] Mc 4, 20.

[4] Gv 15, 5.

[5] Mt 21, 19.

[6] San Josemaría, Lettera 15-X-1948, n. 18, cit. da Mons. Javier Echevarría, Lettera Pastorale, 2-X-2011, n. 34 (https://opusdei.org/it-it/article/lettera-pastorale-del-2-x-2011/).

[7] Mt 7, 16.

[8] Cfr. San Tommaso, S. Th., I, q. 43, a. 1, c.

[9] Gv 15, 16.

[10] Gv 15, 2.

[11] Cfr. Mt 6, 31-34.

[12] Lc 13, 6-7.

[13] Mt 24, 32.

[14] San Josemaría, È Gesù che passa,n. 10.

[15] Lc 13, 6-7.

[16] San Josemaría, Cammino, n. 1.

[17] Lc 5, 4.

[18] Ibid. 5, 10.

[19] San Josemaría, Forgia, n. 570.

[20] San Josemaría, Amici di Dio, n. 61.

[21] San Josemaría, Cammino, n. 372.

[22] 1 Gv 3, 8.

[23] San Josemaría, Lettera 24-III-1930, n. 11, cit. da Luis Ignacio Seco, La Herencia de Mons. Escrivá de Balaguer, Palabra, Madrid 1996.

[24] San Josemaría, È Gesù che passa,n. 166.

[25] San Josemaría, Colloqui, n. 10.

[26] San Josemaría, Forgia, n. 718.

[27] Cfr. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 2-XII-1984, n. 16; Lett. enc. Centesimus annus, 1-V-1991, n. 38.

[28] Giovanni Paolo II, Omelia nella Canonizzazione di San Josemaría, 6-X-2002.

[29] San Josemaría, È Gesù che passa,n. 183.

[30] Giovanni Paolo II, Omelia nella Canonizzazione di San Josemaría, 6-X-2002.

[31] Mt 24, 12.

[32] Rm 8, 28.