Da sempre e in tutte le culture l’uomo vede nella malattia una vulnerabilità, una modifica di una condizione di normalità con associata una sfera di dolore e mancanza di senso, che in qualche modo costringe gli uni a prendersi cura degli altri.
Non a caso i medici si ispirano tutt’oggi al giuramento di Ippocrate del V secolo a.C., dove si invita a rispettare i malati, i maestri e discenti, a non provocare mai la morte, dal principio della vita umana fino alla fine. E ricordo quanto rimasi edificato nel leggere alcuni di questi principi nella preghiera del medico di san Giovanni Paolo II, riconoscendo che alcuni valori sono trasversali, a prescindere dalle culture , e che in fondo Dio voglia essere adorato "in spirito e verità"(Gv 4,23). Mi sono spesso interrogato allora cosa aggiungesse il battesimo, il "saper scorgere” nel paziente di fronte a me “i lineamenti del tuo Volto Divino" come suggeriva san Giovanni Paolo II.
E la risposta la si trova nel Vangelo. Esiste una pedagogia divina, un certo modo di farsi prossimo e di curare anche i mali fisici, che in qualche modo solo frequentando il Signore si può intravedere e provare a mettere in pratica.
Chi sperimenta la malattia spesso affronta più un problema di senso che di sofferenza in sé. L'uomo tende alla felicità, e la malattia subentra come un imprevisto, che altera la percezione del proprio corpo, del senso della vita, della fiducia negli altri e, spesso, nella bontà di Dio: “Se Dio è buono, perché mi è capitata questa disgrazia?” Ci si sente spesso non compresi a fondo, spaventati. Ed è a questo punto del percorso che si desidera riceve una parola di speranza, che getti luce, conforto, ma soprattutto che faccia capire di non essere soli, che esiste qualcuno che combatte quella battaglia con me. Si potrebbe vedere forse una forma di egoismo nel chiedere a Dio, e quindi a Gesù, la guarigione personale. Ma se si legge bene tra le righe, l’iniziativa è sempre di Dio, che desidera per primo aiutarci, renderci felici e sani, se è quello il vero nostro bene, o malati, se è per una nostra crescita.
Ho conosciuto persone meravigliose, con atteggiamento dignitoso, quasi grato alla malattia per il bene portato. Se da un lato la nostra vita di tutti i giorni viene modificata, dall’altro la malattia è un tempo di riordino delle priorità. Ci si rende conto che alcune cose non hanno in sé tutto il valore che gli attribuiamo, e spesso diventiamo così deboli che forse lasciamo più spazio agli altri per volerci bene, invece di cercare sempre noi di fare del bene con i nostri muscoli.
Mi ha sempre colpito nel Vangelo la gioia di Gesù nel guarire, spesso seguita dalla gioia del malato di aver ricevuto la guarigione. Ma può capitare anche di trovarsi con reazioni inattese, incontrare persone che non desiderano curarsi, scoraggiate, sfiduciate, e che talvolta possono reagire male. Lì, con queste persone chiuse alla possibilità di bene, la sfida diventa davvero interessante. È molto facile interpretare il copione da supereroe, del medico che salva la vita al paziente ricevendo ringraziamenti e apprezzamenti pubblici. Diverso è quando quel lavoro diventa oscuro, non viene compreso, venendo persino vanificato dalla mancata esecuzione delle indicazioni date. Ci si può sentire frustrati e stanchi, ma ancora una volta vengono in mente le parole di Gesù: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso” (Lc 6, 32-33).
L’invito del Signore è quello di non fermarsi al primo no, al primo rifiuto, ma di andare oltre. Amare i nemici può sembrare una richiesta impossibile, ma non è difficile intuire che dietro atteggiamenti duri si nascondono ferite non curate, non accolte e che, probabilmente, in un momento diverso o in quella condizione anche noi potremmo reagire in quel determinato modo. Per il medico, un paziente che non vuole curarsi è un “nemico”. Allo stesso modo di una persona amata che non vuole aprirsi alla verità. Ma non bisogna scoraggiarsi: ce lo chiede il Signore.
Tra le varie tentazioni, oltre alla già citata possibilità di sentirsi un supereroe, c’è quella di vedere il corpo umano come una macchina, separata dal vissuto psicologico e spirituale. La spersonalizzazione del malato rispetto alla malattia è un rischio che può assumere dinamiche preoccupanti, fino ad arrivare al paradosso di ricordarsi più dell’organo interessato che non del nome del malato.
Come in tutte le vocazioni, anche questo sguardo positivo verso il malato e la malattia ha bisogno di un costante rinnovo, e la stessa relazione medico paziente ha bisogno di essere coltivata, rivista, approfondita, rinfrescata. Ed è per questo che bisogna partire sempre dal nome. Quella persona ha un’identità unica e irripetibile, che la malattia rischia di omologare e far rientrare in una categoria, diventando oggetto di studio efficace, che guarisce ma non si prende cura, che risolve, ma che non salva.