Le parole di papa Francesco nei giorni di Natale 2020

"Gesù è uno di noi"! In questo articolo sono raccolte le parole di papa Francesco pronunciate in questo tempo di Natale, dalla catechesi di mercoledì 23 dicembre all'Angelus del 6 gennaio 2021.

Catechesi di mercoledì 23 dicembre Omelia nella Messa della notte di Natale Benedizione Urbi et Orbi Angelus del 26 dicembre Angelus del 27 dicembre Omelia nella Messa dell'Epifania Angelus del 6 gennaio 2021


Angelus del 6 gennaio 2021

Celebriamo oggi la solennità dell’Epifania, cioè la manifestazione del Signore a tutte le genti: infatti, la salvezza operata da Cristo non conosce confini, è per tutti. L’Epifania non è un altro mistero, è sempre lo stesso mistero della Natività, visto però nella sua dimensione di luce: luce che illumina ogni uomo, luce da accogliere nella fede e luce da portare agli altri nella carità, nella testimonianza, nell’annuncio del Vangelo.

La visione di Isaia, riportata nella Liturgia odierna (cfr 60,1-6), risuona nel nostro tempo più che mai attuale: «La tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli» (v. 2). In questo orizzonte, il profeta annuncia la luce: la luce donata da Dio a Gerusalemme e destinata a rischiarare il cammino di tutte le genti. Questa luce ha la forza di attrarre tutti, vicini e lontani, tutti si mettono in cammino per raggiungerla (cfr v. 3). È una visione che apre il cuore, che allarga il respiro, che invita alla speranza. Certo, le tenebre sono presenti e minacciose nella vita di ognuno e nella storia dell’umanità, ma la luce di Dio è più potente. Si tratta di accoglierla perché possa risplendere a tutti. Ma possiamo domandarci: dov’è questa luce? Il profeta la intravedeva da lontano, ma già bastava a riempire di gioia incontenibile il cuore di Gerusalemme.

Dov’è questa luce? L’evangelista Matteo, a sua volta, raccontando l’episodio dei Magi (cfr 2,1-12), mostra che questa luce è il Bambino di Betlemme, è Gesù, anche se la sua regalità non da tutti è accettata. Anzi, alcuni la rifiutano, come Erode. È Lui la stella apparsa all’orizzonte, il Messia atteso, Colui attraverso il quale Dio realizza il suo regno di amore, il suo regno di giustizia, il suo regno di pace. Egli è nato non solo per alcuni ma per tutti gli uomini, per tutti i popoli. La luce è per tutti i popoli, la salvezza è per tutti i popoli.

E come avviene questa “irradiazione”? Come la luce di Cristo si diffonde in ogni luogo e in ogni tempo? Ha il suo metodo per diffondersi. Non lo fa attraverso i potenti mezzi degli imperi di questo mondo, che sempre cercano di accaparrarsene il dominio. No, la luce di Cristo si diffonde attraverso l’annuncio del Vangelo. L’annuncio, la parola, e la testimonianza. E con lo stesso “metodo” scelto da Dio per venire in mezzo a noi: l’incarnazione, cioè il farsi prossimo all’altro, incontrarlo, assumere la sua realtà e portare la testimonianza della nostra fede, ognuno. Solo così la luce di Cristo, che è Amore, può risplendere in quanti la accolgono e attirare gli altri. Non si allarga la luce di Cristo con le parole soltanto, con metodi finti, imprenditoriali... No, no. La fede, la parola, la testimonianza: così si allarga la luce di Cristo. La stella è Cristo, ma la stella possiamo e dobbiamo essere anche noi, per i nostri fratelli e le nostre sorelle, come testimoni dei tesori di bontà e di misericordia infinita che il Redentore offre gratuitamente a tutti. La luce di Cristo non si allarga per proselitismo, si allarga per testimonianza, per confessione della fede. Anche per il martirio.

Dunque, la condizione è accogliere in sé questa luce, accoglierla sempre di più. Guai se pensiamo di possederla, guai se pensiamo soltanto di doverla solo “gestire”! Anche noi, come i Magi, siamo chiamati a lasciarci sempre affascinare, attirare, guidare, illuminare e convertire da Cristo: è il cammino della fede, attraverso la preghiera e la contemplazione delle opere di Dio, che continuamente ci riempiono di gioia e di stupore, uno stupore sempre nuovo. Lo stupore è sempre il primo passo per andare avanti in questa luce.

Invochiamo la protezione di Maria sulla Chiesa universale, affinché diffonda nel mondo intero il Vangelo di Cristo, luce di tutte le genti, luce di tutti i popoli.


Omelia nella Messa di Epifania

L’evangelista Matteo sottolinea che i Magi, quando giunsero a Betlemme, «videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (Mt 2,11). Adorare il Signore non è facile, non è un fatto immediato: esige una certa maturità spirituale, essendo il punto d’arrivo di un cammino interiore, a volte lungo. Non è spontaneo in noi l’atteggiamento di adorare Dio. L’essere umano ha bisogno, sì, di adorare, ma rischia di sbagliare obiettivo; infatti, se non adora Dio, adorerà degli idoli – non c’è un punto di mezzo, o Dio o gli idoli, o per usare una parola di uno scrittore francese: “Chi non adora Dio, adora il diavolo” (Léon Bloy) –, e invece che credente diventerà idolatra. Ed è così, aut aut.

Nella nostra epoca è particolarmente necessario che, sia singolarmente che comunitariamente, dedichiamo più tempo all’adorazione, imparando sempre meglio a contemplare il Signore. Si è perso un po’ il senso della preghiera di adorazione, dobbiamo riprenderlo, sia comunitariamente sia nella propria vita spirituale. Oggi, pertanto, ci mettiamo alla scuola dei Magi, per trarne alcuni insegnamenti utili: come loro, vogliamo prostrarci e adorare il Signore. Adorarlo sul serio, non come ha detto Erode: “Fatemi sapere dov’è il posto e io andrò ad adorarlo”. No, questa adorazione non va. Sul serio!

Dall’odierna Liturgia della Parola ricaviamo tre espressioni, che possono aiutarci a comprendere meglio che cosa significa essere adoratori del Signore. Queste espressioni sono: “alzare gli occhi”, “mettersi in viaggio” e “vedere”. Queste tre espressioni ci aiuteranno a capire cosa significa essere adoratori del Signore.

La prima espressione, alzare gli occhi, ce la offre il profeta Isaia. Alla comunità di Gerusalemme, ritornata da poco dall’esilio e prostrata dallo scoraggiamento a causa di tante difficoltà, il profeta rivolge questo forte invito: «Alza gli occhi intorno e guarda» (60,4). È un invito a mettere da parte stanchezza e lamentele, a uscire dalle strettoie di una visione angusta, a liberarsi dalla dittatura del proprio io, sempre incline a ripiegarsi su sé stesso e sulle proprie preoccupazioni. Per adorare il Signore bisogna anzitutto “alzare gli occhi”: non lasciarsi cioè imprigionare dai fantasmi interiori che spengono la speranza, e non fare dei problemi e delle difficoltà il centro della propria esistenza. Ciò non vuol dire negare la realtà, fingendo o illudendosi che tutto vada bene. No. Si tratta invece di guardare in modo nuovo i problemi e le angosce, sapendo che il Signore conosce le nostre situazioni difficili, ascolta attentamente le nostre invocazioni e non è indifferente alle lacrime che versiamo.

Questo sguardo che, malgrado le vicende della vita, rimane fiducioso nel Signore, genera la gratitudine filiale. Quando questo avviene, il cuore si apre all’adorazione. Al contrario, quando fissiamo l’attenzione esclusivamente sui problemi, rifiutando di alzare gli occhi a Dio, la paura invade il cuore e lo disorienta, dando luogo alla rabbia, allo smarrimento, all’angoscia, alla depressione. In queste condizioni è difficile adorare il Signore. Se si verifica ciò, bisogna avere il coraggio di rompere il cerchio delle nostre conclusioni scontate, sapendo che la realtà è più grande dei nostri pensieri. Alza gli occhi intorno e guarda: il Signore ci invita in primo luogo ad avere fiducia in Lui, perché Egli si prende realmente cura di tutti. Se dunque Dio veste così bene l’erba nel campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto di più farà per noi? (cfr Lc 12,28). Se alziamo lo sguardo al Signore, e alla sua luce consideriamo la realtà, scopriamo che Egli non ci abbandona mai: il Verbo si è fatto carne (cfr Gv 1,14) e rimane sempre con noi, tutti i giorni (cfr Mt 28,20). Sempre.

Quando alziamo gli occhi a Dio, i problemi della vita non scompaiono, no, ma sentiamo che il Signore ci dà la forza necessaria per affrontarli. “Alzare gli occhi”, allora, è il primo passo che dispone all’adorazione. Si tratta dell’adorazione del discepolo che ha scoperto in Dio una gioia nuova, una gioia diversa. Quella del mondo è fondata sul possesso dei beni, sul successo o su altre cose simili, sempre con l’“io” al centro. Invece la gioia del discepolo di Cristo trova il suo fondamento nella fedeltà di Dio, le cui promesse non vengono mai meno, a dispetto delle situazioni di crisi in cui possiamo venire a trovarci. Ecco allora che gratitudine filiale e gioia suscitano l’anelito ad adorare il Signore, che è fedele e non ci lascia mai soli.

La seconda espressione che ci può aiutare è mettersi in viaggio. Alzare gli occhi [la prima]; la seconda: mettersi in viaggio. Prima di poter adorare il Bambino nato a Betlemme, i Magi dovettero affrontare un lungo viaggio. Scrive Matteo: «Ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”» (Mt 2,1-2). Il viaggio implica sempre una trasformazione, un cambiamento. Dopo un viaggio non si è più come prima. C’è sempre qualcosa di nuovo in chi ha compiuto un cammino: le sue conoscenze si sono ampliate, ha visto persone e cose nuove, ha sperimentato il rafforzarsi della volontà nel far fronte alle difficoltà e ai rischi del tragitto. Non si giunge ad adorare il Signore senza passare prima attraverso la maturazione interiore che ci dà il metterci in viaggio.

Si diventa adoratori del Signore mediante un cammino graduale. L’esperienza ci insegna, ad esempio, che una persona a cinquant’anni vive l’adorazione con uno spirito diverso rispetto a quando ne aveva trenta. Chi si lascia modellare dalla grazia, solitamente, col passare del tempo migliora: l’uomo esteriore invecchia – dice San Paolo –, mentre l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno (cfr 2 Cor 4,16), disponendosi sempre meglio ad adorare il Signore. Da questo punto di vista, i fallimenti, le crisi, gli errori possono diventare esperienze istruttive: non di rado servono a renderci consapevoli che solo il Signore è degno di essere adorato, perché soltanto Lui appaga il desiderio di vita e di eternità presente nell’intimo di ogni persona. Inoltre, col passare del tempo, le prove e le fatiche della vita – vissute nella fede – contribuiscono a purificare il cuore, a renderlo più umile e quindi più disponibile ad aprirsi a Dio. Anche i peccati, anche la coscienza di essere peccatori, di trovare cose tanto brutte. “Ma io ho fatto questo...ho fatto...”: se tu lo prendi con fede e con pentimento, con contrizione, ti aiuterà a crescere. Tutto, tutto aiuta, dice Paolo alla crescita spirituale, all’incontro con Gesù, anche i peccati, anche i peccati. E San Tommaso aggiunge: “etiam mortalia”, anche i brutti peccati, i peggiori. Ma se tu lo prendi con pentimento ti aiuterà in questo viaggio verso l’incontro con il Signore e ad adorarlo meglio.

Come i Magi, anche noi dobbiamo lasciarci istruire dal cammino della vita, segnato dalle inevitabili difficoltà del viaggio. Non permettiamo che le stanchezze, le cadute e i fallimenti ci gettino nello scoraggiamento. Riconoscendoli invece con umiltà, dobbiamo farne occasione per progredire verso il Signore Gesù. La vita non è una dimostrazione di abilità, ma un viaggio verso Colui che ci ama. Noi non dobbiamo in ogni passo della vita far vedere la tessera delle virtù che abbiamo; con umiltà dobbiamo andare verso il Signore. Guardando al Signore, troveremo la forza per proseguire con gioia rinnovata.

E veniamo alla terza espressione: vedere. Alzare gli occhi, mettersi in cammino, vedere. L’Evangelista scrive: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (Mt 2,10-11). L’adorazione era l’atto di omaggio riservato ai sovrani, ai grandi dignitari. I Magi, in effetti, adorarono Colui che sapevano essere il re dei Giudei (cfr Mt 2,2). Ma, di fatto, che cosa videro? Videro un povero bambino con sua madre. Eppure questi sapienti, venuti da paesi lontani, seppero trascendere quella scena così umile e quasi dimessa, riconoscendo in quel Bambino la presenza di un sovrano. Furono cioè in grado di “vedere” al di là dell’apparenza. Prostrandosi davanti al Bambino nato a Betlemme, espressero un’adorazione che era anzitutto interiore: l’apertura degli scrigni portati in dono fu segno dell’offerta dei loro cuori.

Per adorare il Signore bisogna “vedere” oltre il velo del visibile, che spesso si rivela ingannevole. Erode e i notabili di Gerusalemme rappresentano la mondanità, perennemente schiava dell’apparenza. Vedono e non sanno vedere – non dico che non credono, è troppo – non sanno vedere perché la loro capacità è schiava dell’apparenza e in cerca di attrattive: essa dà valore soltanto alle cose sensazionali, alle cose che attirano l’attenzione dei più. D’altro canto, nei Magi vediamo un atteggiamento diverso, che potremmo definire realismo teologale – una parola troppo “alta”, ma possiamo dire così, un realismo teologale –: esso percepisce con oggettività la realtà delle cose, giungendo finalmente alla comprensione che Dio rifugge da ogni ostentazione. Il Signore è nell’umiltà, il Signore è come quel bambino umile, rifugge dall’ostentazione, che è proprio il prodotto della mondanità. Questo modo di “vedere” che trascende il visibile, fa sì che noi adoriamo il Signore spesso nascosto in situazioni semplici, in persone umili e marginali. Si tratta dunque di uno sguardo che, non lasciandosi abbagliare dai fuochi artificiali dell’esibizionismo, cerca in ogni occasione ciò che non passa, cerca il Signore. Noi perciò, come scrive l’apostolo Paolo, «non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne» (2 Cor 4,18).

Che il Signore Gesù ci renda suoi veri adoratori, in grado di manifestare con la vita il suo disegno di amore, che abbraccia l’intera umanità. Chiediamo la grazia per ognuno di noi e per la Chiesa intera, di imparare ad adorare, di continuare ad adorare, di esercitare tanto questa preghiera di adorazione, perché solo Dio va adorato.

Angelus del 27 dicembre

A pochi giorni dal Natale, la liturgia ci invita a fissare lo sguardo sulla Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe. È bello riflettere sul fatto che il Figlio di Dio ha voluto aver bisogno, come tutti i bambini, del calore di una famiglia. Proprio per questo, perché è la famiglia di Gesù, quella di Nazaret è la famiglia-modello, in cui tutte le famiglie del mondo possono trovare il loro sicuro punto di riferimento e una sicura ispirazione. A Nazaret è germogliata la primavera della vita umana del Figlio di Dio, nel momento in cui Egli è stato concepito per opera dello Spirito Santo nel grembo verginale di Maria. Tra le mura ospitali della Casa di Nazaret si è svolta nella gioia l’infanzia di Gesù, circondato dalle premure materne di Maria e dalla cura di Giuseppe, nel quale Gesù ha potuto vedere la tenerezza di Dio (cfr Lett. apost. Patris corde, 2).

Ad imitazione della Sacra Famiglia, siamo chiamati a riscoprire il valore educativo del nucleo familiare: esso richiede di essere fondato sull’amore che sempre rigenera i rapporti aprendo orizzonti di speranza. In famiglia si potrà sperimentare una comunione sincera quando essa è casa di preghiera, quando gli affetti sono seri, profondi e puri, quando il perdono prevale sulle discordie, quando l’asprezza quotidiana del vivere viene addolcita dalla tenerezza reciproca e dalla serena adesione alla volontà di Dio. In questo modo, la famiglia si apre alla gioia che Dio dona a tutti coloro che sanno dare con gioia. Al tempo stesso, trova l’energia spirituale di aprirsi all’esterno, agli altri, al servizio dei fratelli, alla collaborazione per la costruzione di un mondo sempre nuovo e migliore; capace, perciò, di farsi portatrice di stimoli positivi; la famiglia evangelizza con l’esempio di vita. È vero, in ogni famiglia ci sono dei problemi, e a volte anche si litiga. “Padre, ho litigato…” – siamo umani, siamo deboli, e tutti abbiamo a volte questo fatto che litighiamo in famiglia. Io vi dirò una cosa: se litighiamo in famiglia, che non finisca la giornata senza fare la pace. “Sì, ho litigato”, ma prima di finire la giornata, fai la pace. E sai perché? Perché la guerra fredda del giorno dopo è pericolosissima. Non aiuta. E poi, in famiglia ci sono tre parole, tre parole da custodire sempre: “permesso”, “grazie”, “scusa”. “Permesso”, per non essere invadenti nella vita degli altri. “Permesso: posso fare qualcosa? Ti sembra che possa fare questo?”. “Permesso”. Sempre, non essere invadente. “Permesso”, la prima parola. “Grazie”: tanti aiuti, tanti servizi che ci facciamo in famiglia. Ringraziare sempre. La gratitudine è il sangue dell’anima nobile. “Grazie”. E poi, la più difficile da dire: “Scusa”. Perché noi sempre facciamo delle cose brutte e tante volte qualcuno si sente offeso di questo. “Scusami”, “scusami”. Non dimenticatevi le tre parole: “permesso”, “grazie”, “scusa”. Se in una famiglia, nell’ambiente familiare ci sono queste tre parole, la famiglia va bene.

All’esempio di evangelizzare con la famiglia ci chiama la festa di oggi, riproponendoci l’ideale dell’amore coniugale e familiare, così come è stato sottolineato nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, di cui ricorrerà il quinto anniversario di promulgazione il prossimo 19 marzo. E ci sarà un anno di riflessione sull’Amoris laetitia e sarà un’opportunità per approfondire i contenuti del documento [19 marzo 2021-giugno 2022].

Queste riflessioni saranno messe a disposizione delle comunità ecclesiali e delle famiglie, per accompagnarle nel loro cammino. Fin d’ora invito tutti ad aderire alle iniziative che verranno promosse nel corso dell’Anno e che saranno coordinate dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita. Affidiamo alla Santa Famiglia di Nazareth, in particolare a San Giuseppe sposo e padre sollecito, questo cammino con le famiglie di tutto il mondo.

La Vergine Maria, alla quale ci rivolgiamo ora con la preghiera dell’Angelus, ottenga alle famiglie del mondo intero di essere sempre più affascinate dall’ideale evangelico della Santa Famiglia, così da diventare fermento di nuova umanità e di una solidarietà concreta e universale.


Angelus del 26 dicembre

Ieri il Vangelo parlava di Gesù «luce vera» venuta nel mondo, luce che «splende nelle tenebre» e che «le tenebre non hanno vinta» (Gv 1,9.5). Oggi vediamo il testimone di Gesù, santo Stefano, che brilla nelle tenebre. I testimoni brillano con la luce di Gesù, non hanno luce propria. Anche la Chiesa non ha luce propria; per questo i padri antichi chiamavano la Chiesa: “il mistero della luna”. Come la luna non ha luce propria, i testimoni non hanno luce propria, sono capaci di prendere la luce di Gesù e rifletterla. Stefano viene accusato falsamente e lapidato brutalmente, ma nel buio dell’odio, in quel tormento della lapidazione, lui fa splendere la luce di Gesù: prega per i suoi uccisori e li perdona, come Gesù sulla croce. È il primo martire, cioè il primo testimone, il primo di una schiera di fratelli e sorelle che, fino ad oggi, continuano a portare luce nelle tenebre: persone che rispondono al male con il bene, che non cedono alla violenza e alla menzogna, ma rompono la spirale dell’odio con la mitezza dell’amore. Questi testimoni accendono l’alba di Dio nelle notti del mondo.

Ma come si diventa testimoni? Imitando Gesù, prendendo luce da Gesù. Questa è la via per ogni cristiano: imitare Gesù, prendere la luce da Gesù. Santo Stefano ci dà l’esempio: Gesù era venuto per servire e non per essere servito (cfr Mc 10,45), e lui vive per servire e non per essere servito, e lui viene per servire: Stefano è stato eletto diacono, diventa diacono, cioè servitore, e assiste i poveri alle mense (cfr At 6,2). Cerca di imitare il Signore ogni giorno e lo fa anche alla fine: come Gesù viene catturato, condannato e ucciso fuori della città e, come Gesù, prega e perdona. Mentre viene lapidato dice: «Signore, non imputare loro questo peccato» (7,60). Stefano è testimone perché imita Gesù.

Potrebbe però sorgere una domanda: servono davvero queste testimonianze di bontà, quando nel mondo dilaga la cattiveria? A che cosa serve pregare e perdonare? Solo a dare un bell’esempio? Ma a che serve quello? No, c’è molto di più. Lo scopriamo da un particolare. Tra quelli per i quali Stefano pregava e che perdonava c’era, dice il testo, «un giovane, chiamato Saulo» (v. 58), che «approvava la sua uccisione» (8,1). Poco dopo, per la grazia di Dio, Saulo si converte, riceve la luce di Gesù, la accetta, si converte, e diventa Paolo, il più grande missionario della storia. Paolo nasce proprio dalla grazia di Dio, ma attraverso il perdono di Stefano, attraverso la testimonianza di Stefano. Ecco il seme della sua conversione. È la prova che i gesti d’amore cambiano la storia: anche quelli piccoli, nascosti, quotidiani. Perché Dio guida la storia attraverso il coraggio umile di chi prega, ama e perdona. Tanti santi nascosti, i santi della porta accanto, testimoni nascosti di vita, con piccoli gesti d’amore cambiano la storia.

Essere testimoni di Gesù vale anche per noi. Il Signore desidera che facciamo della vita un’opera straordinaria attraverso i gesti ordinari, i gesti di ogni giorno. Lì dove viviamo, in famiglia, al lavoro, ovunque, siamo chiamati a essere testimoni di Gesù, anche solo donando la luce di un sorriso, luce che non è nostra: è di Gesù, e anche solo fuggendo le ombre delle chiacchiere e dei pettegolezzi. E poi, quando vediamo qualcosa che non va, al posto di criticare, sparlare e lamentarci, preghiamo per chi ha sbagliato e per quella situazione difficile. E quando a casa nasce una discussione, anziché cercare di prevalere, proviamo a disinnescare; e a ricominciare ogni volta, perdonando chi ha offeso. Piccole cose, ma cambiano la storia, perché aprono la porta, aprono la finestra alla luce di Gesù. Santo Stefano, mentre riceveva le pietre dell’odio, restituiva parole di perdono. Così ha cambiato la storia. Anche noi possiamo cambiare ogni giorno il male in bene, come suggerisce un bel proverbio, che dice: «Fai come la palma: le tirano sassi e lei lascia cadere datteri».

Oggi preghiamo per quanti soffrono persecuzioni per il nome di Gesù. Sono tanti, purtroppo. Sono più che nei primi tempi della Chiesa. Affidiamo alla Madonna questi nostri fratelli e sorelle, che rispondono all’oppressione con la mitezza e, da veri testimoni di Gesù, vincono il male con il bene.


Benedizione Urbi et Orbi

Vorrei far giungere a tutti il messaggio che la Chiesa annuncia in questa festa, con le parole del profeta Isaia: «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Is 9,5).

È nato un bambino: la nascita è sempre fonte di speranza, è vita che sboccia, è promessa di futuro. E questo Bambino, Gesù, è “nato per noi”: un noi senza confini, senza privilegi né esclusioni. Il Bambino che la Vergine Maria ha dato alla luce a Betlemme è nato per tutti: è il “figlio” che Dio ha dato all’intera famiglia umana.

Grazie a questo Bambino, tutti possiamo rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”, “Papà”. Gesù è l’Unigenito; nessun’altro conosce il Padre, se non Lui. Ma Lui è venuto nel mondo proprio per rivelarci il volto del Padre. E così, grazie a questo Bambino, tutti possiamo chiamarci ed essere realmente fratelli: di ogni continente, di qualsiasi lingua e cultura, con le nostre identità e diversità, eppure tutti fratelli e sorelle.

In questo momento storico, segnato dalla crisi ecologica e da gravi squilibri economici e sociali, aggravati dalla pandemia del coronavirus, abbiamo più che mai bisogno di fraternità. E Dio ce la offre donandoci il suo Figlio Gesù: non una fraternità fatta di belle parole, di ideali astratti, di vaghi sentimenti… No. Una fraternità basata sull’amore reale, capace di incontrare l’altro diverso da me, di con-patire le sue sofferenze, di avvicinarsi e prendersene cura anche se non è della mia famiglia, della mia etnia, della mia religione; è diverso da me ma è mio fratello, è mia sorella. E questo vale anche nei rapporti tra i popoli e le nazioni: fratelli tutti!

Nel Natale celebriamo la luce del Cristo che viene al mondo e lui viene per tutti: non soltanto per alcuni. Oggi, in questo tempo di oscurità e incertezze per la pandemia, appaiono diverse luci di speranza, come le scoperte dei vaccini. Ma perché queste luci possano illuminare e portare speranza al mondo intero, devono stare a disposizione di tutti. Non possiamo lasciare che i nazionalismi chiusi ci impediscano di vivere come la vera famiglia umana che siamo. Non possiamo neanche lasciare che il virus dell’individualismo radicale vinca noi e ci renda indifferenti alla sofferenza di altri fratelli e sorelle. Non posso mettere me stesso prima degli altri, mettendo le leggi del mercato e dei brevetti di invenzione sopra le leggi dell’amore e della salute dell’umanità. Chiedo a tutti: ai responsabili degli Stati, alle imprese, agli organismi internazionali, di promuovere la cooperazione e non la concorrenza, e di cercare una soluzione per tutti: vaccini per tutti, specialmente per i più vulnerabili e bisognosi di tutte le regioni del Pianeta. Al primo posto, i più vulnerabili e bisognosi!

Il Bambino di Betlemme ci aiuti allora ad essere disponibili, generosi e solidali, specialmente verso le persone più fragili, i malati e quanti in questo tempo si sono trovati senza lavoro o sono in gravi difficoltà per le conseguenze economiche della pandemia, come pure le donne che in questi mesi di confinamento hanno subito violenze domestiche.

Di fronte a una sfida che non conosce confini, non si possono erigere barriere. Siamo tutti sulla stessa barca. Ogni persona è mio fratello. In ciascuno vedo riflesso il volto di Dio e in quanti soffrono scorgo il Signore che chiede il mio aiuto. Lo vedo nel malato, nel povero, nel disoccupato, nell’emarginato, nel migrante e nel rifugiato: tutti fratelli e sorelle!

Nel giorno in cui il Verbo di Dio si fa bambino, volgiamo lo sguardo ai troppi bambini che in tutto il mondo, specialmente in Siria, in Iraq e nello Yemen, pagano ancora l’alto prezzo della guerra. I loro volti scuotano le coscienze degli uomini di buona volontà, affinché siano affrontate le cause dei conflitti e ci si adoperi con coraggio per costruire un futuro di pace.

Sia questo il tempo propizio per stemperare le tensioni in tutto il Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale.

Gesù Bambino risani le ferite dell’amato popolo siriano, che da ormai un decennio è stremato dalla guerra e dalle sue conseguenze, ulteriormente aggravate dalla pandemia. Porti conforto al popolo iracheno e a tutti coloro che sono impegnati nel cammino della riconciliazione, in particolare agli yazidi, duramente colpiti dagli ultimi anni di guerra. Rechi pace alla Libia e consenta che la nuova fase dei negoziati in corso porti alla fine di ogni forma di ostilità nel Paese.

Il Bambino di Betlemme doni fraternità alla terra che lo ha visto nascere. Israeliani e palestinesi possano recuperare la fiducia reciproca per cercare una pace giusta e duratura attraverso un dialogo diretto, capace di vincere la violenza e di superare endemici risentimenti, per testimoniare al mondo la bellezza della fraternità.

La stella che ha illuminato la notte di Natale sia guida e incoraggiamento per il popolo libanese, affinché, nelle difficoltà che sta affrontando, col sostegno della Comunità internazionale non perda la speranza. Il Principe della Pace aiuti i responsabili del Paese a mettere da parte gli interessi particolari e ad impegnarsi con serietà, onestà e trasparenza perché il Libano possa percorrere un cammino di riforme e proseguire nella sua vocazione di libertà e di convivenza pacifica.

Il Figlio dell’Altissimo sostenga l’impegno della comunità internazionale e dei Paesi coinvolti a proseguire il cessate-il-fuoco nel Nagorno-Karabakh, come pure nelle regioni orientali dell’Ucraina, e a favorire il dialogo quale unica via che conduce alla pace e alla riconciliazione.

Il Divino Bambino allevii la sofferenza delle popolazioni del Burkina Faso, del Mali e del Niger, colpite da una grave crisi umanitaria, alla cui base vi sono estremismi e conflitti armati, ma anche la pandemia e altri disastri naturali; faccia cessare le violenze in Etiopia, dove, a causa degli scontri, molte persone sono costrette a fuggire; rechi conforto agli abitanti della regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, vittime della violenza del terrorismo internazionale; sproni i responsabili del Sud Sudan, della Nigeria e del Camerun a proseguire il cammino di fraternità e di dialogo intrapreso.

Il Verbo eterno del Padre sia sorgente di speranza per il Continente americano, particolarmente colpito dal coronavirus, che ha esacerbato le tante sofferenze che lo opprimono, spesso aggravate dalle conseguenze della corruzione e del narcotraffico. Aiuti a superare le recenti tensioni sociali in Cile e a porre fine ai patimenti del popolo venezuelano.

Il Re del Cielo protegga le popolazioni flagellate da calamità naturali nel sud-est asiatico, in modo particolare nelle Filippine e in Vietnam, dove numerose tempeste hanno causato inondazioni con ricadute devastanti sulle famiglie che abitano in quelle terre, in termini di perdite di vite umane, danni all’ambiente e conseguenze per le economie locali.

E pensando all’Asia, non posso dimenticare il popolo Rohingya: Gesù, nato povero tra i poveri, porti speranza nelle loro sofferenze.

Cari fratelli e sorelle,

«Un bambino è nato per noi» (Is 9,5). È venuto a salvarci! Egli ci annuncia che il dolore e il male non sono l’ultima parola. Rassegnarsi alle violenze e alle ingiustizie vorrebbe dire rifiutare la gioia e la speranza del Natale.

In questo giorno di festa rivolgo un pensiero particolare a quanti non si lasciano sopraffare dalle circostanze avverse, ma si adoperano per portare speranza, conforto e aiuto, soccorrendo chi soffre e accompagnando chi è solo.

Gesù è nato in una stalla, ma avvolto dall’amore della Vergine Maria e di San Giuseppe. Nascendo nella carne, il Figlio di Dio ha consacrato l’amore familiare. Il mio pensiero va in questo momento alle famiglie: a quelle che oggi non possono ricongiungersi, come pure a quelle che sono costrette a stare in casa. Per tutti il Natale sia l’occasione di riscoprire la famiglia come culla di vita e di fede; luogo di amore accogliente, di dialogo, di perdono, di solidarietà fraterna e di gioia condivisa, sorgente di pace per tutta l’umanità.

Buon Natale a tutti!


Omelia nella Messa della notte di Natale

In questa notte si compie la grande profezia di Isaia: «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Is 9,5).

Ci è stato dato un figlio. Si sente spesso dire che la gioia più grande della vita è la nascita di un bambino. È qualcosa di straordinario, che cambia tutto, mette in moto energie impensate e fa superare fatiche, disagi e veglie insonni, perché porta una grande felicità, di fronte alla quale niente sembra che pesi. Così è il Natale: la nascita di Gesù è la novità che ci permette ogni anno di rinascere dentro, di trovare in Lui la forza per affrontare ogni prova. Sì, perché la sua nascita è per noi: per me, per te, per tutti noi, per ciascuno. Per è la parola che ritorna in questa notte santa: «Un bambino è nato per noi», ha profetato Isaia; «Oggi è nato per noi il Salvatore», abbiamo ripetuto al Salmo; Gesù «ha dato se stesso per noi» (Tt 2,14), ha proclamato San Paolo; e l’angelo nel Vangelo ha annunciato: «Oggi è nato per voi un Salvatore» (Lc 2,11). Per me, per voi.

Ma che cosa vuole dirci questo per noi? Che il Figlio di Dio, il benedetto per natura, viene a farci figli benedetti per grazia. Sì, Dio viene al mondo come figlio per renderci figli di Dio. Che dono stupendo! Oggi Dio ci meraviglia e dice a ciascuno di noi: “Tu sei una meraviglia”. Sorella, fratello, non perderti d’animo. Hai la tentazione di sentirti sbagliato? Dio ti dice: “No, sei mio figlio!” Hai la sensazione di non farcela, il timore di essere inadeguato, la paura di non uscire dal tunnel della prova? Dio ti dice: “Coraggio, sono con te”. Non te lo dice a parole, ma facendosi figlio come te e per te, per ricordarti il punto di partenza di ogni tua rinascita: riconoscerti figlio di Dio, figlia di Dio. Questo è il punto di partenza di qualsiasi rinascita. È questo il cuore indistruttibile della nostra speranza, il nucleo incandescente che sorregge l’esistenza: al di sotto delle nostre qualità e dei nostri difetti, più forte delle ferite e dei fallimenti del passato, delle paure e dell’inquietudine per il futuro, c’è questa verità: siamo figli amati. E l’amore di Dio per noi non dipende e non dipenderà mai da noi: è amore gratuito. Questa notte non trova spiegazione in altra parte: soltanto, la grazia. Tutto è grazia. Il dono è gratuito, senza merito di ognuno di noi, pura grazia. Stanotte, ci ha detto san Paolo, «è apparsa infatti la grazia di Dio» (Tt 2,11). Niente è più prezioso.

Ci è stato dato un figlio. Il Padre non ci ha dato qualcosa, ma il suo stesso Figlio unigenito, che è tutta la sua gioia. Eppure, se guardiamo all’ingratitudine dell’uomo verso Dio e all’ingiustizia verso tanti nostri fratelli, viene un dubbio: il Signore ha fatto bene a donarci così tanto, fa bene a nutrire ancora fiducia in noi? Non ci sopravvaluta? Sì, ci sopravvaluta, e lo fa perché ci ama da morire. Non riesce a non amarci. È fatto così, è tanto diverso da noi. Ci vuole bene sempre, più bene di quanto noi riusciamo ad averne per noi stessi. È il suo segreto per entrare nel nostro cuore. Dio sa che l’unico modo per salvarci, per risanarci dentro, è amarci: non c’è un altro modo. Sa che noi miglioriamo solo accogliendo il suo amore instancabile, che non cambia, ma ci cambia. Solo l’amore di Gesù trasforma la vita, guarisce le ferite più profonde, libera dai circoli viziosi dell’insoddisfazione, della rabbia e della lamentela.

Ci è stato dato un figlio. Nella povera mangiatoia di una buia stalla c’è proprio il Figlio di Dio. Sorge un’altra domanda: perché è venuto alla luce nella notte, senza un alloggio degno, nella povertà e nel rifiuto, quando meritava di nascere come il più grande re nel più bello dei palazzi? Perché? Per farci capire fino a dove ama la nostra condizione umana: fino a toccare con il suo amore concreto la nostra peggiore miseria. Il Figlio di Dio è nato scartato per dirci che ogni scartato è figlio di Dio. È venuto al mondo come viene al mondo un bimbo, debole e fragile, perché noi possiamo accogliere con tenerezza le nostre fragilità. E scoprire una cosa importante: come a Betlemme, così anche con noi Dio ama fare grandi cose attraverso le nostre povertà. Ha messo tutta la nostra salvezza nella mangiatoia di una stalla e non teme le nostre povertà: lasciamo che la sua misericordia trasformi le nostre miserie!

Ecco che cosa vuol dire che un figlio è nato per noi. Ma c’è ancora un per, che l’angelo dice ai pastori: «Questo per voi il segno: un bambino adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12). Questo segno, il Bambino nella mangiatoia, è anche per noi, per orientarci nella vita. A Betlemme, che significa “Casa del pane”, Dio sta in una mangiatoia, come a ricordarci che per vivere abbiamo bisogno di Lui come del pane da mangiare. Abbiamo bisogno di lasciarci attraversare dal suo amore gratuito, instancabile, concreto. Quante volte invece, affamati di divertimento, successo e mondanità, alimentiamo la vita con cibi che non sfamano e lasciano il vuoto dentro! Il Signore, per bocca del profeta Isaia, si lamentava che, mentre il bue e l’asino conoscono la loro mangiatoia, noi, suo popolo, non conosciamo Lui, fonte della nostra vita (cfr Is 1,2-3). È vero: insaziabili di avere, ci buttiamo in tante mangiatoie di vanità, scordando la mangiatoia di Betlemme. Quella mangiatoia, povera di tutto e ricca di amore, insegna che il nutrimento della vita è lasciarci amare da Dio e amare gli altri. Gesù ci dà l’esempio: Lui, il Verbo di Dio, è infante; non parla, ma offre la vita. Noi invece parliamo molto, ma siamo spesso analfabeti di bontà.

Ci è stato dato un figlio. Chi ha un bimbo piccolo, sa quanto amore e quanta pazienza ci vogliono. Occorre nutrirlo, accudirlo, pulirlo, prendersi cura della sua fragilità e dei suoi bisogni, spesso difficili da comprendere. Un figlio fa sentire amati, ma insegna anche ad amare. Dio è nato bambino per spingerci ad avere cura degli altri. Il suo tenero pianto ci fa capire quanto sono inutili tanti nostri capricci; e ne abbiamo tanti! Il suo amore disarmato e disarmante ci ricorda che il tempo che abbiamo non serve a piangerci addosso, ma a consolare le lacrime di chi soffre. Dio prende dimora vicino a noi, povero e bisognoso, per dirci che servendo i poveri ameremo Lui. Da stanotte, come scrisse una poetessa, «la residenza di Dio è accanto alla mia. L’arredo è l’amore» (E. Dickinson, Poems, XVII).

Ci è stato dato un figlio. Sei Tu, Gesù, il Figlio che mi rende figlio. Tu mi ami come sono, non come mi sogno di essere; io lo so! Abbracciando Te, Bambino della mangiatoia, riabbraccio la mia vita. Accogliendo Te, Pane di vita, anch’io voglio donare la mia vita. Tu che mi salvi, insegnami a servire. Tu che non mi lasci solo, aiutami a consolare i tuoi fratelli, perché Tu sai da stanotte sono tutti miei fratelli.


Catechesi del 23 dicembre

In questa catechesi, nell’imminenza del Natale, vorrei offrire alcuni spunti di riflessione in preparazione alla celebrazione del Natale. Nella Liturgia della Notte risuonerà l’annuncio dell’angelo ai pastori: «Non temete, ecco io vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi è il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,10-12).

Imitando i pastori, anche noi ci muoviamo spiritualmente verso Betlemme, dove Maria ha dato alla luce il Bambino in una stalla, «perché – dice ancora San Luca – per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Il Natale è diventato una festa universale, e anche chi non crede percepisce il fascino di questa ricorrenza. Il cristiano, però, sa che il Natale è un avvenimento decisivo, un fuoco perenne che Dio ha acceso nel mondo, e non può essere confuso con le cose effimere. È importante che esso non si riduca a festa solamente sentimentale o consumistica. Domenica scorsa ho attirato l’attenzione su questo problema, sottolineando che il consumismo ci ha sequestrato il Natale.

No: il Natale non deve ridursi a festa solamente sentimentale o consumistica, ricca di regali e di auguri ma povera di fede cristiana, e anche povera di umanità. Pertanto, è necessario arginare una certa mentalità mondana, incapace di cogliere il nucleo incandescente della nostra fede, che è questo: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). E questo è il nocciolo del Natale, anzi: è la verità del Natale; non ce n’è un’altra.

il Natale non deve ridursi a festa solamente sentimentale o consumistica

Il Natale ci invita a riflettere, da una parte, sulla drammaticità della storia, nella quale gli uomini, feriti dal peccato, vanno incessantemente alla ricerca di verità, alla ricerca di misericordia, alla ricerca di redenzione; e, dall’altra, sulla bontà di Dio, che ci è venuto incontro per comunicarci la Verità che salva e renderci partecipi della sua amicizia e della sua vita. E questo dono di grazia: questo è pura grazia, senza merito nostro. C’è un Santo Padre che dice: “Ma guardate da questa parte, dall’altra, di là: cercate il merito e non troverete altra cosa che grazia”. Tutto è grazia, un dono di grazia. E questo dono di grazia lo riceviamo attraverso la semplicità e l’umanità del Natale, e può rimuovere dai nostri cuori e dalle nostre menti il pessimismo, che oggi si è diffuso ancor più a causa della pandemia. Possiamo superare quel senso di smarrimento inquietante, non lasciarci sopraffare dalle sconfitte e dai fallimenti, nella ritrovata consapevolezza che quel Bambino umile e povero, nascosto e inerme, è Dio stesso, fattosi uomo per noi. Il Concilio Vaticano II, in un celebre passo della Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ci dice che questo avvenimento riguarda ognuno di noi. «Con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo». «Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Cost. past. Gaudium et spes, 22). Ma Gesù è nato duemila anni fa, e riguarda me? – Sì, riguarda te e me, ognuno di noi. Gesù è uno di noi: Dio, in Gesù, è uno di noi.

Gesù è uno di noi: Dio, in Gesù, è uno di noi

Questa realtà ci dona tanta gioia e tanto coraggio. Dio non ci ha guardato dall’alto, da lontano, non ci è passato accanto, non ha avuto ribrezzo della nostra miseria, non si è rivestito di un corpo apparente, ma ha assunto pienamente la nostra natura e la nostra condizione umana. Non ha lasciato fuori nulla, eccetto il peccato: l’unica cosa che Lui non ha. Tutta l’umanità è in Lui. Egli ha preso tutto ciò che siamo, così come siamo. Questo è essenziale per comprendere la fede cristiana. S. Agostino, ripensando al suo cammino di conversione, nelle sue Confessioni scrive: «Non avevo ancora tanta umiltà da possedere il mio Dio, l’umile Gesù, né conoscevo ancora gli ammaestramenti della sua debolezza» (Confessioni VII,8). E qual è la debolezza di Gesù? La “debolezza” di Gesù è un “ammaestramento”! Perché ci rivela l’amore di Dio. Il Natale è la festa dell’Amore incarnato, dell’amore nato per noi in Gesù Cristo. Gesù Cristo è la luce degli uomini che splende nelle tenebre, che dà senso all’esistenza umana e alla storia intera.

Cari fratelli e sorelle, queste brevi riflessioni ci aiutino a celebrare il Natale con maggiore consapevolezza. Ma c’è un altro modo di prepararsi, che voglio ricordare a voi e me, e che è alla portata di tutti: meditare un po’ in silenzio davanti al presepe. Il presepe è una catechesi di quella realtà, di quello che è stato fatto quell’anno, quel giorno, che abbiamo sentito nel Vangelo. Per questo, l’anno scorso ho scritto una Lettera, che ci farà bene riprendere. Si intitola “Admirabile signum”, “Segno mirabile”. Alla scuola di San Francesco d’Assisi, possiamo diventare un po’ bambini rimanendo a contemplare la scena della Natività, e lasciare che rinasca in noi lo stupore per il modo “meraviglioso” in cui Dio ha voluto venire nel mondo.

Chiediamo la grazia dello stupore: davanti a questo mistero, a questa realtà così tenera, così bella, così vicina ai nostri cuori, il Signore ci dia la grazia dello stupore, per incontrarlo, per avvicinarci a Lui, per avvicinarci a tutti noi. Questo farà rinascere in noi la tenerezza. L’altro giorno, parlando con alcuni scienziati, si parlava dell’intelligenza artificiale e dei robot… ci sono robot programmati per tutti e per tutto, e questo va avanti. E io dissi loro: “Ma qual è quella cosa che i robot mai potranno fare?”. Loro hanno pensato, hanno fatto delle proposte, ma alla fine sono rimasti d’accordo in una cosa: la tenerezza. Questo i robot non potranno farlo. E questo è quello che ci porta Dio, oggi: un modo meraviglioso in cui Dio ha voluto venire al mondo, e questo fa rinascere in noi la tenerezza, la tenerezza umana che è vicina a quella di Dio. E oggi abbiamo tanto bisogno di tenerezza, tanto bisogno di carezze umane, davanti a tante miserie! Se la pandemia ci ha costretto a stare più distanti, Gesù, nel presepe, ci mostra la via della tenerezza per essere vicini, per essere umani. Seguiamo questa strada. Buon Natale!


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