Lavorare bene per servire gli altri e la società

In occasione del primo maggio, festa di san Giuseppe Lavoratore, proponiamo una riflessione di Pietro Cum, Amministratore Delegato e Direttore Generale di ELIS, sul senso del lavoro oggi, alla luce degli insegnamenti della Chiesa e in particolare del fondatore dell’Opus Dei, san Josemaría.

Aveva piovuto a lungo quel 20 novembre 1965, il giorno prima della visita di san Paolo VI in ELIS. Le strade erano piene di fango e la mattina dopo, molti non riuscirono ad arrivare in tempo all’inaugurazione. Per fortuna, nei giorni successivi tutti poterono leggere ciò che disse il Papa e ancora oggi quel discorso è di un’attualità sconcertante. Il Papa vide un’opera che “sembra la risposta alla domanda di giovani avviliti e disoccupati… per farne giovani allegri, laboriosi e fiduciosi[1]”, e la benedisse di cuore. Poi, guardandosi intorno, aggiunse: “qui tutto è Opus Dei”.

Il lavoro riguarda ciascuno di noi

La festa del Primo Maggio è lì a ricordarci che la parola “lavoro” riguarda ciascuno di noi.

Forse abbiamo bisogno di tornare a quel giorno, alle parole di san Paolo VI, per capire fino in fondo il senso del lavoro in un’epoca di continuo cambiamento, di incertezza e nello stesso tempo di grandi opportunità da cogliere. La festa del Primo Maggio, del resto, è lì a ricordarci questo: che la parola “lavoro” riguarda ciascuno di noi.

Mai come oggi, infatti, il lavoro è segno di contraddizione, in una paradossale altalena tra disoccupazione e aziende che non trovano personale; tra mestieri che scompaiono e altri che nascono; tra ambienti di lavoro eccellenti ed altri dove ci sentiamo ostaggi; fino a questa indefinita alternanza tra ufficio, soggiorno di casa e spazi di co-working dove ci si guarda intorno smarriti, chiedendosi come andrà a finire.

L’unico punto fermo è che il lavoro è ingrediente essenziale della nostra vita – san Josemaría scriveva che è “la prima vocazione dell’uomo” – perché è sostentamento, relazione con gli altri, affermazione delle proprie capacità. E poi, il lavoro interviene sulla realtà: crea nuove idee, oggetti e servizi, fino a trasformare la natura e le persone. Ha un impatto sul mondo, e lo cambia dal di dentro. A ben vedere, si tratta di un tema identitario, esistenziale. Chiedere a qualcuno che lavoro faccia, significa quasi sempre chiedergli chi è. “Sono un medico”, sarà una delle risposte. “Sono un insegnante, sono un cuoco”. E quando si perde il lavoro, non si perde solo un sostegno economico: si rompe qualcosa nel nostro modo di percepirci in relazione alla società.

Le sfide del lavoro oggi

Dalla Rerum Novarum in poi, la Chiesa ha messo per iscritto alcuni punti fermi sulla dignità del lavoro e sull’importanza della sua santificazione, confluiti poi nella Dottrina Sociale della Chiesa: l’importanza di percepire uno stipendio adeguato, di avere diritto a ferie e malattia, di partecipare alla vita pubblica, di avere gli strumenti per mettere su famiglia[2]. Eppure, tutto questo troppo spesso non ha riscontro nella realtà.

Formare persone al lavoro significa quindi confrontarsi ogni giorno con quella dimensione etica di rispetto dei principi di legittimità e dignità nell’esercizio della professione, trasmettendola alle nuove generazioni e tutelandola in ogni sua forma.

il concetto stesso di lavoro è qualcosa di vivo, che cambia nel tempo.

In effetti, il concetto stesso di lavoro è qualcosa di vivo, che cambia nel tempo. Oggi, a seguito della trasformazione tecnologica e digitale e della globalizzazione della conoscenza e della competizione, è sempre più trasversale il bisogno di nuove competenze, di specializzazioni che prima non esistevano. Questo è ciò che chiede il mercato, eppure la risposta che il nostro apparato mette sul tavolo è quanto mai statica: i giovani che escono dal sistema scolastico e universitario si affacciano al primo impiego già in ritardo e non hanno spesso le competenze per essere avviati alle nuove professioni. A questo si aggiunge il dramma degli adulti, scartati perché ormai inutili: operai ed impiegati che continuano a lavorare con le conoscenze che avevano quando sono stati assunti e che dopo aver subito una continua “obsolescenza professionale”, perdono il lavoro, con poche speranze di trovarne un altro. Anche se hanno soltanto poco più di 30 anni, e magari con una famiglia ancora da mantenere[3].

In Italia, e non solo, è ormai da anni in crescita il fenomeno dei Neet. Sono circa 3 milioni i giovani che non studiano, non lavorano e non frequentano alcuna formazione. Le cause vanno ricercate nell’abbandono scolastico, nelle scarse opportunità d’impiego dopo il diploma, ma soprattutto nelle piaghe del lavoro nero e della malavita organizzata. Quest’ultima ha dimostrato di avere una spiccata capacità di attrarre i ragazzi, facendo leva su prospettive di status e su facili guadagni. E se le cause sono evidenti, altrettanto lo sono gli effetti: emerge in tanti giovani un senso di scoraggiamento vago e generalizzato, che porta a rinunciare alla costruzione del proprio futuro professionale per sfiducia nel sistema, o peggio per sfiducia in sé stessi e nei propri mezzi. E così, pian piano, non riescono più ad alzarsi dal divano.

Nessuno lavora per sé stesso: riscoprire il senso del lavoro

Come venire a capo di tutto questo? Credo che una possibile risposta sia la (ri)scoperta del senso del lavoro, e quindi in definitiva del valore della persona.

Il lavoratore e il prodotto del suo lavoro non sono gli unici protagonisti sulla scena. Praticamente nessuno, infatti, lavora da solo e realizza qualcosa soltanto per sé stesso, così come nella vita nessuno agisce in solitudine o può prescindere dall’impatto delle proprie azioni e delle proprie scelte sul contesto in cui vive. Il lavoro passa necessariamente attraverso le relazioni, che siano colleghi, clienti, fornitori non importa. Il perimetro del lavoro è di fatto un perimetro sociale.

Ogni singolo atto può essere svolto con passione, generosità, rispetto per gli altri o viceversa con pesantezza, con malagrazia, lamentandoci.

Ecco allora che il modo in cui lo viviamo assume un significato fondamentale. Ogni singolo atto, decisione o parola, può essere svolto con passione, generosità, gioia, rispetto per gli altri o viceversa con pesantezza, con malagrazia, lamentandoci. Un luogo di lavoro assume quindi le qualità di chi lo frequenta: quando una persona lotta per vivere alcune “virtù sociali”, questo si nota e gli altri la cercano, le chiedono consiglio e aiuto perché sanno che avranno corrispondenza.

C’è una differenza tra l’alzarsi la mattina con l’entusiasmo di trascorrere le ore successive assieme ai colleghi di lavoro, oppure la pena di una nuova giornata di stress che sta per cominciare. Questa differenza è data dalla temperatura emotiva delle relazioni tra le persone, che è alta quando le persone sono portate a tirare fuori la parte migliore di sé. Qualche esempio di queste virtù? Il rispetto e l’attenzione per l’altro, l’ascolto, l’empatia, la disponibilità, il mettersi a fianco di chi ha bisogno, la gentilezza, la generosità e – può sembrare una cosa da poco, ma invece vale tanto – il sorriso[4]. Per chi poi governa un’organizzazione, le virtù sono anche la magnanimità, la visione aperta al bene comune e al contesto sociale in cui la propria organizzazione opera.

E quindi, tanto dipende da chi occupa la scena: chi è disposto a lasciare il centro del palcoscenico per metterci gli altri – i colleghi di lavoro, nel nostro caso, ma poi anche la famiglia, gli amici, il prossimo – attiva canali di relazione e li riempie di ciò che fa loro piacere. È come allo specchio: gli altri riflettono quello che diamo loro, nel bene e nel male, e ogni macchia scura o guizzo di luce torna sempre indietro. E che il “come” sia più importante del “cosa”, lo spiegava molto bene san Josemaría: “Davanti a Dio, nessuna occupazione è di per sé grande o piccola. Ogni cosa acquista il valore dell’Amore con cui viene compiuta[5]”.

Perché il lavoro?

il nostro lavoro, qualunque esso sia, fa la differenza.

Per completare questa riflessione, facciamo adesso un ultimo passo nella direzione del “perché”, che riguarda il senso del lavoro e ne definisce il significato più profondo. Il quale, ancora una volta, può essere rivolto verso noi stessi oppure verso gli altri. Certamente il lavoro è per noi strumento di identità, realizzazione, sostegno economico. Ma sarebbe come correre con una gamba sola, quella dell’individualismo. L’altra gamba la possiamo chiamare in tanti modi, ma riguarda comunque gli altri e determina “impatto sociale”. Perché il nostro lavoro, qualunque esso sia, fa la differenza. Nel bene e nel male[6]. Il lavoro cambia la realtà, e se è orientato al bene, se viene fatto bene, se vede gli altri come fine e non come mezzo, allora la cambia in meglio. Diventa sviluppo personale e servizio per gli altri[7]. Anzi, il lavoro è sviluppo, arricchimento e crescita, proprio quando diventa servizio. Altrimenti che senso avrebbe consegnare giornali all’alba, riparare un motore, calcolare un bilancio, vendere frigoriferi? Ricorderete certamente la storia dei tre spaccapietre[8]

San Josemaría ha sempre avuto a cuore i nostri sogni: “sognate – amava dire – e la realtà supererà i vostri sogni”. Questo è il mio: che il lavoro come servizio non sia solo dei singoli, ma che lo diventi sempre più anche per le organizzazioni, le istituzioni, le aziende. Non sono esse stesse in definitiva strutture di persone? Non sono luoghi dove il come e il perché li si tocca continuamente con mano, soprattutto quando non ci sono?

Dignità delle persone e bene comune nel lavoro

Ma per arrivare a tanto, la rivoluzione questa volta non può partire dal basso: deve iniziare dall’alto. I manager, le persone a cui è affidata la responsabilità di governare e guidare le organizzazioni, hanno una doppia responsabilità: quella di essere esemplari sul come e di essere consapevoli del perché. Si è discusso per anni sul fatto che l’azienda potesse trasformare il paradigma del comando e del controllo in un modello nuovo, incentrato sul senso di responsabilità delle persone e sul loro coinvolgimento. Ebbene, questo momento è arrivato. Ma perché il cambiamento sia attuabile è necessario che le organizzazioni diano vita ad un forte percorso di trasmissione della mission e dei propri valori alle persone che ne fanno parte. La chiave è fare in modo che ciascuno abbia chiari gli obiettivi e si identifichi con il “perché” dell’azienda. Come ha scritto papa Francesco nella famosa intervista a Il Sole24Ore[9]: “Si può dire che agire bene rispettando la dignità delle persone e perseguendo il bene comune fa bene all'azienda. C'è sempre una correlazione tra azione dell'uomo e impresa, azione dell'uomo e futuro di un'impresa”.

Lavorare bene per servire gli altri e la società: soltanto così ne vale la pena.

E dunque, la trasformazione sostenibile di questo “mondo del lavoro” che sembra sempre più ripiegarsi su sé stesso, non può che (ri)partire dal coinvolgimento delle persone. E questo potrà avvenire attraverso i valori realmente vissuti e la costruzione di relazioni forti, basate sulla fiducia e rafforzate dall’orgoglio di svolgere un’importante missione sociale. Sono convinto che sia questa una delle chiavi della ripartenza e che per tutti noi – che guidiamo o facciamo parte di strutture organizzate – ci sia un grande ruolo da giocare e tanto da imparare, sperimentare e realizzare, per costruire con coraggio il nuovo domani che ci attende. Lavorare bene per servire gli altri e la società: soltanto così ne vale la pena.

Pietro Cum, Amministratore Delegato e Direttore Generale di ELIS


[1] San Paolo VI, Omelia, 21.XI.1965.

[2] «[...] se con il lavoro eccessivo o non conveniente al sesso e all'età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità delle leggi» (Leone XIII, Rerum Novarum, n. 29).

[3] «Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (Papa Francesco, Evangelii Gaudium, n. 53).

[4] «Quella parola ben trovata, la battuta che non uscì dalla tua bocca; il sorriso amabile per colui che ti annoia; quel silenzio davanti a un'accusa ingiusta; la benevola conversazione con i seccatori e gli importuni; quel non dare importanza, quotidianamente, ai mille particolari fastidiosi e impertinenti delle persone che vivono con te... Tutto questo, con perseveranza, è davvero solida mortificazione interiore» (San Josemaría, Cammino, n. 173).

[5] San Josemaría, Solco, n. 487.

[6] E di male se ne trova ancora tanto, ad esempio negli ambiti messi in evidenza dal Catechismo della Chiesa Cattolica a commento del Settimo Comandamento (cfr. n. 2409): «commettere frode nel commercio; pagare salari ingiusti; alzare i prezzi, speculando sull'ignoranza o sul bisogno altrui. Sono pure moralmente illeciti: la speculazione, con la quale si agisce per far artificiosamente variare la stima dei beni, in vista di trarne un vantaggio a danno di altri; la corruzione, con la quale si svia il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al diritto; l'appropriazione e l'uso privato dei beni sociali di un'impresa; i lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni e di fatture, le spese eccessive, lo sperpero».

[7] Come scriveva il fondatore dell’Opus Dei: «Pensate che con il vostro lavoro professionale svolto con senso di responsabilità, oltre a sostenervi economicamente, prestate un servizio direttissimo allo sviluppo della società» (San Josemaría, Amici di Dio, n. 120).

[8] Offriamo una sintesi del racconto dei tre spaccapietre: durante il Medioevo, un pellegrino vide degli uomini che scalpellavano grossi frammenti di roccia per ricavare degli squadrati blocchi di pietra da costruzione. Si avvicinò al primo degli uomini, domandando: “Che cosa fai?”. “Non lo vedi?” rispose l'uomo, sgarbato, senza neanche sollevare il capo. “Mi sto ammazzando di fatica”. Il pellegrino riprese il cammino. S'imbatté presto in un secondo spaccapietre: “Che cosa fai?”, chiese anche a lui. “Non lo vedi? Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini”, rispose l'uomo. Il pellegrino riprese a camminare. Trovò un terzo spaccapietre: “Che cosa fai?”, gli domandò. “Non lo vedi?”, rispose l'uomo, “Sto costruendo una cattedrale”.

[9] Papa Francesco, Intervista a Il Sole 24 Ore, 7.IX.2018.

Pietro Cum