“La medicina ancora oggi può fare poco sui problemi davvero gravi. Un medico vero se ne rende conto e sa quando il suo compito diventa stare accanto, condividere, incoraggiare. Anche un prete tocca con mano le miserie umane…”
Fra i ricordi di bambino c’è don Bepo Vavassori che finge che il cucù abbia portato le caramelle. C’è il Tilio, il giardiniere matto che al Patronato aveva trovato quiete e dignità. Ci sono le strade e la parrocchia della Malpensata, tra la ferrovia e i quartieri ancora operai.
Piero Vavassori, pronipote del fondatore del Patronato San Vincenzo, a 42 anni, lasciando il lavoro di medico e docente universitario, sarà ordinato sacerdote il 14 maggio a Roma nella Basilica di Sant’Eugenio a Valle Giulia. Il 22 maggio alle 10,30 don Vavassori celebrerà Messa nella parrocchia di Santa Croce alla Malpensata con il parroco don Angelo Bettoni e con il superiore generale del Patronato don Giuseppe Bracchi.
Professor Vavassori, l’aspetta un bel cambiamento.
«Non così grande, è una storia lunga...».
Proviamo dall’inizio.
«All’inizio c`è la mia famiglia, mia madre Maliucci, mio padre Sandro, che per molti anni è stato caporedattore a L`Eco di Bergamo, mia sorella Maria. Sono andato alle elementari alla Malpensata e alle medie Mazzi. Ho frequentato il Liceo Lussana cercando di studiare il meno possibile. Una ragazza, amici, l’università. Lì ho cominciato a studiare davvero perché la medicina mi interessava».
La laurea, la specializzazione in gastroenterologia, il dottorato e poi la ricerca a Roma Tor Vergata.
«Per quindici anni ho fatto il mio lavoro, divertendomi molto. D`estate prendevo i miei allievi e andavamo a lavorare come medici volontari in Bolivia, in Polonia, in tutto il mondo. L’idea del sacerdozio non c’era proprio, però una vocazione l’avevo, a 23 anni sono entrato nell’Opus Dei come numerario. I numerari sono coloro che decidono di restare celibi per essere a disposizione dell’organizzazione».
Perché l’Opus Dei?
«Mio padre ne faceva parte. La cosa non mi aveva mai interessato, da studente frequentavo San Giorgio. Poi, mentre studiavo a Roma, mi sono avvicinato. Quando ne ho parlato con un gesuita mio amico, mi ha detto, "se è questo che senti, devi seguire la tua strada". In realtà la mia vita quotidiana non è poi cambiata, è cambiata la prospettiva. Avevo più di 35 anni quando ho capito che il sacerdozio mi interessava. A mio padre ho cominciato a dire che volevo lasciare la professione medica...».
Non sarà stato entusiasta...
«No, infatti. Per due anni sono andato a dirigere una struttura dell’Opera a Perugia, giusto per capire se resistevo lontano dalla ricerca. Poi sono tornato a Roma e ho affrontato gli studi di teologia, il primo grado in Italia, laurea e dottorato a Pamplona in Spagna. A novembre sono stato ordinato diacono e dopo l’ordinazione sacerdotale resterò sei mesi in Spagna per imparare il mestiere del prete, poi in autunno rientrerò in Italia e mi sarà affidata una comunità».
Che ricordi ha di don Bepo prete, che le possano essere utili ora?
«I miei ricordi arrivano fino ai miei sette anni, andavamo a trovarlo al Patronato e ci portava nel suo studio. Ricordo il suo modo di fare. Ricordo soprattutto l’atmosfera del Patronato, quella capacità di accoglienza totale che ti faceva sentire a posto, perché accettato com’eri. E per com’eri, si trovava un posto per te, il posto giusto che ti rendeva utile. Questo è quello che ho respirato da bambino, a parte poi la presenza del prozio nella storia e nelle storie della nostra famiglia, e penso che questo mi sarà utile nel sacerdozio, perché lavorerò a contatto con la gente: formazione, direzione spirituale».
E dal lavoro di medico cosa si porta?
«Tener conto della persona intera, come facevano i vecchi medici prima della tecnologia. La medicina ancora oggi può fare poco sui problemi davvero gravi. Un medico vero se ne rende conto e sa quando il suo compito diventa stare accanto, condividere, incoraggiare. Anche un prete tocca con mano le miserie umane. Può essere rigido oppure può dire: guardiamo in faccia la situazione, così non va, ma si può ricominciare. La fede è cominciare e ricominciare. L’obiettivo è diventare santi, cioè innamorarsi di Dio con il proprio cuore di uomini».
Dalla gastroenterologia a qui, pare proprio un bel cambiamento...
«Mah, io sono una persona pratica: la scelta vera è stata a 23 anni, ho lasciato la mia ragazza e preso una direzione precisa. Il resto, viene di conseguenza».
A suo giudizio, qual è la priorità che mette in agenda, quello di cui questo momento storico ha bisogno?
«Come cristiani abbiamo bisogno di più formazione ora, che in passato. In un mondo complesso e che va spesso da tutt’altra parte, senza idee chiare e cultura solida rischiamo di perdere il senso di noi stessi».