“Innamorarsi di Dio con il proprio cuore di uomini”

Intervista rilasciata all' "Eco di Bergamo" da Piero Vavassori, che mons. Javier Echevarría ha ordinato sacerdote il 14 maggio, insieme ad altri 34 fedeli dell'Opus Dei,.

Piero Vavassori

“La medicina ancora oggi può fare poco sui problemi davvero gravi. Un medico vero se ne rende conto e sa quando il suo compito diventa stare accanto, condividere, incoraggiare. Anche un prete tocca con mano le miserie umane…”

Fra i ricordi di bambino c’è don Bepo Vavassori che finge che il cucù abbia portato le caramelle. C’è il Tilio, il giardiniere matto che al Patronato aveva trovato quiete e dignità. Ci sono le strade e la parrocchia della Malpensata, tra la ferrovia e i quartieri ancora operai.

Piero Vavassori, pronipote del fondatore del Patronato San Vincenzo, a 42 anni, lasciando il lavoro di medico e docente universitario, sarà ordinato sacerdote il 14 maggio a Roma nella Basilica di Sant’Eugenio a Valle Giulia. Il 22 maggio alle 10,30 don Vavassori celebrerà Messa nella parrocchia di Santa Croce alla Malpensata con il parroco don Angelo Bettoni e con il superiore generale del Patronato don Giuseppe Bracchi.

Professor Vavassori, l’aspetta un bel cambiamento.

«Non così grande, è una storia lunga...».

Proviamo dall’inizio.

«All’inizio c`è la mia famiglia, mia madre Maliucci, mio padre Sandro, che per molti anni è stato caporedattore a L`Eco di Bergamo, mia sorella Maria. Sono andato alle elementari alla Malpensata e alle medie Mazzi. Ho frequentato il Liceo Lussana cercando di studiare il meno possibile. Una ragazza, amici, l’università. Lì ho cominciato a studiare davvero perché la medicina mi interessava».

La laurea, la specializzazione in gastroenterologia, il dottorato e poi la ricerca a Roma Tor Vergata.

«Per quindici anni ho fatto il mio lavoro, divertendomi molto. D`estate prendevo i miei allievi e andavamo a lavorare come medici volontari in Bolivia, in Polonia, in tutto il mondo. L’idea del sacerdozio non c’era proprio, però una vocazione l’avevo, a 23 anni sono entrato nell’Opus Dei come numerario. I numerari sono coloro che decidono di restare celibi per essere a disposizione dell’organizzazione».

Perché l’Opus Dei?

«Mio padre ne faceva parte. La cosa non mi aveva mai interessato, da studente frequentavo San Giorgio. Poi, mentre studiavo a Roma, mi sono avvicinato. Quando ne ho parlato con un gesuita mio amico, mi ha detto, "se è questo che senti, devi seguire la tua strada". In realtà la mia vita quotidiana non è poi cambiata, è cambiata la prospettiva. Avevo più di 35 anni quando ho capito che il sacerdozio mi interessava. A mio padre ho cominciato a dire che volevo lasciare la professione medica...».

Non sarà stato entusiasta...

«No, infatti. Per due anni sono andato a dirigere una struttura dell’Opera a Perugia, giusto per capire se resistevo lontano dalla ricerca. Poi sono tornato a Roma e ho affrontato gli studi di teologia, il primo grado in Italia, laurea e dottorato a Pamplona in Spagna. A novembre sono stato ordinato diacono e dopo l’ordinazione sacerdotale resterò sei mesi in Spagna per imparare il mestiere del prete, poi in autunno rientrerò in Italia e mi sarà affidata una comunità».

Un'ordinazione sacerdotale a Sant'Eugenio

Che ricordi ha di don Bepo prete, che le possano essere utili ora?

«I miei ricordi arrivano fino ai miei sette anni, andavamo a trovarlo al Patronato e ci portava nel suo studio. Ricordo il suo modo di fare. Ricordo soprattutto l’atmosfera del Patronato, quella capacità di accoglienza totale che ti faceva sentire a posto, perché accettato com’eri. E per com’eri, si trovava un posto per te, il posto giusto che ti rendeva utile. Questo è quello che ho respirato da bambino, a parte poi la presenza del prozio nella storia e nelle storie della nostra famiglia, e penso che questo mi sarà utile nel sacerdozio, perché lavorerò a contatto con la gente: formazione, direzione spirituale».

E dal lavoro di medico cosa si porta?

«Tener conto della persona intera, come facevano i vecchi medici prima della tecnologia. La medicina ancora oggi può fare poco sui problemi davvero gravi. Un medico vero se ne rende conto e sa quando il suo compito diventa stare accanto, condividere, incoraggiare. Anche un prete tocca con mano le miserie umane. Può essere rigido oppure può dire: guardiamo in faccia la situazione, così non va, ma si può ricominciare. La fede è cominciare e ricominciare. L’obiettivo è diventare santi, cioè innamorarsi di Dio con il proprio cuore di uomini».

Dalla gastroenterologia a qui, pare proprio un bel cambiamento...

«Mah, io sono una persona pratica: la scelta vera è stata a 23 anni, ho lasciato la mia ragazza e preso una direzione precisa. Il resto, viene di conseguenza».

A suo giudizio, qual è la priorità che mette in agenda, quello di cui questo momento storico ha bisogno?

«Come cristiani abbiamo bisogno di più formazione ora, che in passato. In un mondo complesso e che va spesso da tutt’altra parte, senza idee chiare e cultura solida rischiamo di perdere il senso di noi stessi».

    Susanna Pesenti/L’Eco di Bergamo, 8.V.2011