Il viaggio di Papa Francesco in Messico

Vi proponiamo una selezione dei testi degli incontri, discorsi e omelie che Papa Francesco ha pronunciato durante il suo viaggio apostolico in Messico dal 12 al 18 febbraio 2016.

INCONTRO CON IL MONDO DEL LAVORO

Colegio de Bachilleres dello Stato di Chihuahua, Ciudad Juárez
Mercoledì, 17 febbraio 2016

Cari fratelli e sorelle,

ho voluto incontrarvi qui in questa terra di Juárez, per il rapporto speciale che questa città ha con il mondo del lavoro. Vi ringrazio non solo per il saluto di benvenuto e per le vostre testimonianze, che hanno rivelato le ansie, le gioie e le speranze che sperimentate nella vostra vita, ma vorrei anche ringraziarvi per questa opportunità di confronto e di riflessione. Tutto quello che possiamo fare per dialogare, per incontrarci, per trovare migliori alternative e opportunità è già una conquista che merita stima e risalto. Ci sono due parole che voglio sottolineare: “dialogo” e “incontro”. Non stancarsi di dialogare. Le guerre si generano, poco a poco, per il mutismo e per la mancanza di incontro. Ovviamente non è sufficiente dialogare e incontrarsi, ma oggi non possiamo permetterci il lusso di tagliare qualsiasi possibilità di incontro, qualsiasi possibilità di discussione, di confronto, di ricerca. È l’unico modo che abbiamo per poter costruire il domani, per tessere relazioni durature in grado di generare quell’assetto necessario che, poco a poco, ricostruirà i legami sociali logorati dalla mancanza di comunicazione, logorati dalla mancanza di rispetto minimo richiesto da una sana convivenza. Grazie, e che questa istanza serva per costruire futuro, sia una buona opportunità per dare forma al Messico che il suo popolo e i suoi figli meritano.

Vorrei soffermarmi su quest’ultimo aspetto. Oggi qui ci sono diverse organizzazioni di lavoratori e rappresentanti di camere e associazioni imprenditoriali. A prima vista potrebbero essere considerati come antagonisti, ma condividono la stessa responsabilità: cercare di creare opportunità di lavoro dignitoso e veramente utile alla società e soprattutto ai giovani di questa terra. Uno dei più grandi flagelli a cui sono esposti i giovani è la mancanza di opportunità di istruzione e lavoro sostenibile e redditizio che permetta loro di fare progetti; e questo genera in molti casi – tanti casi - situazioni di povertà, di emarginazione. E questa povertà e questa emarginazione sono il terreno più favorevole per cadere nella spirale del narcotraffico e della violenza. E’ un lusso che oggi non ci possiamo permettere; non può essere lasciato solo e abbandonato il presente e il futuro del Messico. E per questo: dialogo, confronto, fonti di lavoro che creino questo cammino costruttivo.

Purtroppo, il tempo in cui viviamo ha imposto il paradigma dell’utilità economica come principio delle relazioni personali. La mentalità dominante – dappertutto - propugna la maggior quantità possibile di profitti, a qualunque costo e in modo immediato. Non solo provoca la perdita della dimensione etica delle imprese, ma dimentica che il miglior investimento che si può fare è quello di investire sulla gente, sulle persone, sulle famiglie. Il miglior investimento è quello di creare opportunità. La mentalità dominante pone il flusso di persone al servizio dei flussi di capitale provocando in molti casi lo sfruttamento dei dipendenti come oggetti da usare e gettare e scartare. (cfr Enc. Laudato si’, 123) Dio chiederà conto agli schiavisti dei nostri giorni, e noi dobbiamo fare tutto il possibile perché queste situazioni non si verifichino più. Il flusso di capitale non può determinare il flusso e la vita delle persone. Per questo mi è piaciuto questo desiderio che è stato espresso di dialogo e di confronto.

Non sono pochi i casi in cui, di fronte alle proposte della Dottrina Sociale della Chiesa, la si mette in discussione dicendo: “Questi pretendono che siamo organizzazioni di beneficenza o che trasformiamo le nostre aziende in istituzioni filantropiche”. L’abbiamo sentita questa critica. L’unica pretesa che ha la Dottrina Sociale della Chiesa è quella di porre attenzione all’integrità delle persone e delle strutture sociali. Ogni volta che, per vari motivi, questa è minacciata, o ridotta a un bene di consumo, la Dottrina Sociale della Chiesa sarà una voce profetica che aiuterà tutti a non perdersi nel mare seducente dell’ambizione. Ogniqualvolta l’integrità di una persona viene violata, l’intera società in qualche modo, comincia a deteriorarsi. E questo che dice la Dottrina Sociale della Chiesa non è contro nessuno, ma a vantaggio di tutti. Ogni settore ha l’obbligo di preoccuparsi del bene di tutti; siamo tutti sulla stessa barca. Tutti noi dobbiamo lottare per far sì che il lavoro sia un’istanza di umanizzazione e di futuro; sia uno spazio per costruire società e cittadinanza. Questo atteggiamento non solo crea un immediato miglioramento, ma alla fine si trasforma in una cultura in grado di promuovere spazi degni per tutti. Questa cultura, nata spesso da tensioni, sta generando un nuovo stile di relazioni, un nuovo stile di Nazione.

Che mondo vogliamo lasciare ai nostri figli? Credo che su questo la grande maggioranza possiamo concordare. E’ proprio questo il nostro orizzonte, questo è il nostro obiettivo, e per questo oggi dobbiamo unirci e lavorare. E’ sempre bene pensare che cosa mi piacerebbe lasciare ai miei figli; ed è anche un buon modo per pensare ai figli degli altri. Che cosa vuole lasciare il Messico ai suoi figli? Vuole lasciare un ricordo di sfruttamento, di salari inadeguati, di molestie sul lavoro, o di traffico di lavoro schiavo? O vuole lasciare la cultura della memoria del lavoro dignitoso, di un tetto decoroso e della terra per lavorare? Le tre “t”: lavoro, tetto e terra. In che cultura vogliamo vedere la nascita di quelli che ci seguiranno? Che atmosfera respireranno? Un’aria viziata dalla corruzione, dalla violenza, dall’insicurezza e dalla sfiducia o, al contrario, un’aria in grado di generare – è la parole-chiave – alternative, generare rinnovamento e cambiamento? Generare è essere co-creatori con Dio. Chiaramente, questo costa, costa.

So che il progetto non è facile, ma so che è peggio lasciare il futuro nelle mani della corruzione, della brutalità, della mancanza di equità. So che tante volte non è facile portare tutte le parti ad una trattativa, ma so che è peggio e si finisce per fare più danni con la mancanza di trattative e la mancanza di valutazione. Mi diceva un anziano dirigente operaio, onestissimo, che è morto con quello che guadagnava, mai si è approfittato: “Ogni volta che dovevamo sederci a un tavolo di negoziati, io sapevo che dovevo perdere qualcosa, affinché tutti vincessimo”. Bella la filosofia di questo uomo di lavoro! Quando si negozia, sempre si perde qualcosa: ma vincono tutti! So che non è facile poter andar d’accordo in un mondo sempre più competitivo, ma è peggio lasciare che il mondo competitivo determini il destino dei popoli. Schiavi. Il guadagno e il capitale non sono beni al di sopra dell’uomo, ma sono al servizio del bene comune. E quando il bene comune è piegato al servizio del profitto e il capitale è l’unico guadagno possibile, questo ha un nome: si chiama esclusione. E così si va consolidando la cultura dello scarto: scartato!, escluso!

Ho iniziato ringraziandovi per l’opportunità di stare insieme. Ieri un giovane nello stadio di Morelia, che ha dato la sua testimonianza, ha detto: “Questo mondo ci fa perdere la capacità di sognare”. Ed è vero! A volte ci fa perdere la capacità di sognare, la capacità della gratuità… Quando un bambino o una bambina vede il papà e/o la mamma solamente nel fine settimana, perché vanno a lavorare prima che si svegli e tornano che già sta dormendo, questa è cultura dello scarto. Voglio invitarvi a sognare, a sognare un Messico in cui un papà abbia il tempo per giocare con i propri figli, in cui la mamma abbia il tempo per giocare con i propri figli. E questo lo si può conquistare dialogando, confrontandosi, negoziando, perdendo affinché guadagnino tutti! Vi invito a sognare il Messico che i vostri figli meritano; un Messico dove non ci siano persone di prima, seconda o quarta categoria, ma un Messico che sappia riconoscere nell’altro la dignità di figlio di Dio. E che la Guadalupana, che si è manifestata a Juan Diego, e ha rivelato che quelli apparentemente messi da parte erano i suoi testimoni privilegiati, vi aiuti tutti - qualunque professione abbiate, qualunque lavoro abbiate, tutti! - in questo compito di dialogo, confronto e incontro. Grazie!


VISITA AL PENITENZIARIO (CERESO N.3) DI CIUDAD JUÁREZ

Mercoledì, 17 febbraio 2016

Parole (a braccio) al personale e ai sacerdoti della pastorale carceraria

Buongiorno!

Vi ringrazio per la vostra presenza qui, e vi ringrazio per tutto il bene che fate qui. Ed è un bene che non si vede.

Voi vi incontrate con molte fragilità. Per questo ho voluto portare questa immagine [Crocifisso] fatta del materiale più fragile: il cristallo è fragile, si rompe subito. Il Cristo sulla Croce è la più grande fragilità dell’umanità. Tuttavia, con questa fragilità, Lui ci salva, Lui ci aiuta, ci fa andare avanti, ci apre le porte della speranza.

Desidero che ognuno di voi, con la benedizione della Vergine e contemplando la fragilità di Cristo, che si è fatto peccato, si è fatto morte per salvarci, possa seminare semi di speranza e di risurrezione.

“Ave Maria”…

Benedizione

E non dimenticate di pregare per me.

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

sto concludendo la mia visita in Messico e non potevo partire senza venire a salutarvi, senza celebrare il Giubileo della Misericordia con voi.

Ringrazio di cuore per le parole di saluto che mi avete rivolto, in cui si manifestano tanta speranza e tante aspirazioni, come anche tanti dolori, timori e interrogativi.

Nel mio viaggio in Africa, nella città di Bangui ho potuto aprire la prima Porta della Misericordia per il mondo intero - di questoGiubileo, perché la prima porta della misericordia l’ha aperta Dio nostro Padre con il suo Figlio Gesù. Oggi, insieme a voi e con voi, desidero riaffermare ancora una volta la fiducia alla quale Gesù ci incoraggia: la misericordia che abbraccia tutti e in tutti gli angoli della terra. Non c’è luogo dove la sua misericordia non possa giungere, non c’è spazio né persona che non essa non possa toccare.

Celebrare il Giubileo della misericordia con voi è ricordare il cammino urgente che dobbiamo intraprendere per rompere i giri viziosi della violenza e della delinquenza. Già abbiamo perso diversi decenni pensando e credendo che tutto si risolve isolando, separando, incarcerando, togliendosi i problemi di torno, credendo che questi mezzi risolvano veramente i problemi. Ci siamo dimenticati di concentrarci su quella che realmente dev’essere la nostra vera preoccupazione: la vita delle persone; la loro vita, quella delle loro famiglie, quella di coloro che pure hanno sofferto a causa di questo giro vizioso della violenza.

La misericordia divina ci ricorda che le carceri sono un sintomo di come stiamo nella società, in molti casi sono un sintomo di silenzi, di omissioni provocate dalla cultura dello scarto. Sono un sintomo di una cultura che ha smesso di scommettere sulla vita; di una società che, poco a poco, è andata abbandonando i suoi figli.

La misericordia ci ricorda che il reinserimento non comincia qui, tra queste pareti, ma che comincia prima, “fuori”, nelle vie della città. Il reinserimento o la riabilitazione comincia creando un sistema che potremmo chiamare di salute sociale, vale a dire, una società che cerchi di non ammalarsi inquinando le relazioni nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto lo spettro sociale. Un sistema di salute sociale che faccia in modo di generare una cultura che sia efficace e che cerchi di prevenire quelle situazioni, quelle vie che finiscono per ferire e deteriorare il tessuto sociale.

A volte potrebbe sembrare che le carceri si propongano di mettere le persone in condizione di continuare a commettere delitti, più che a promuovere processi di reinserimento che permettano di far fronte ai problemi sociali, psicologici e familiari che hanno portato una persona ad un determinato atteggiamento. Il problema della sicurezza non si risolve solamente incarcerando, ma è un appello a intervenire per affrontare le cause strutturali e culturali dell’insicurezza che colpiscono l’intero tessuto sociale.

La preoccupazione di Gesù per gli affamati, gli assetati, i senza tetto o i detenuti (Mt 25,34-40) intendeva esprimere le viscere di misericordia del Padre, ed essa diventa un imperativo morale per tutta la società che desidera disporre delle condizioni necessarie per una migliore convivenza. Nella capacità di una società di includere i suoi poveri, i suoi malati o i suoi detenuti risiede la possibilità per essi di poter sanare le loro ferite ed essere costruttori di una buona convivenza. Il reinserimento sociale inizia con la frequenza alla scuola di tutti i nostri figli e con un lavoro degno per le loro famiglie, creando spazi pubblici per il tempo libero e la ricreazione, abilitando le istanze di partecipazione civica, i servizi sanitari, l’accesso ai servizi basici, per nominare solamente alcune misure. Qui cominciano tutti i processi di reinserimento.

Celebrare il Giubileo della misericordia con voi significa imparare a non rimanere prigionieri del passato, di ieri. È imparare ad aprire la porta al futuro, al domani: è credere che le cose possano essere differenti. Celebrare il Giubileo della misericordia con voi è invitarvi ad alzare la testa e a lavorare per ottenere tale desiderato spazio di libertà. Celebrare il Giubileo della misericordia con voi è ripetere quella frase che abbiamo ascoltato poco fa, e che è stata detta con tanta forza: “Quando hanno dato la mia sentenza, qualcuno mi sono detto: Non ti domandare per che motivo sei qui, ma per quale scopo”. E questo “per quale scopo” ci porti avanti; e questo “per quale scopo” ci faccia superare gli inganni sociali che credono che la sicurezza e l’ordine si raggiungono solamente incarcerando.

Sappiamo che non si può tornare indietro, sappiamo che quel che è fatto è fatto; perciò ho voluto celebrare con voi il Giubileo della misericordia, perché sia chiaro che questo non significa che non ci sia una possibilità di scrivere una nuova storia, una nuova storia d’ora in avanti – “per quale scopo” –. Voi soffrite il dolore della caduta - magari tutti noi soffrissimo del dolore della cadute nascoste e occulte! -; sentite il pentimento per i vostri atti e so che in tanti casi, in mezzo a grandi limitazioni, cercate di ricostruire questa vita a partire dalla solitudine. Avete conosciuto la forza del dolore e del peccato; non dimenticatevi che avete a disposizione anche la forza della risurrezione, la forza della misericordia divina che fa nuove tutte le cose. Ora vi può toccare la parte più dura, più difficile, però, perché possa essere quella che generi un più grande frutto, impegnatevi fin da qui dentro a capovolgere le situazioni che generano ulteriore esclusione. Parlate con i vostri cari, raccontate loro la vostra esperienza, aiutate a frenare il giro vizioso della violenza e dell’esclusione. Chi ha sofferto profondamente il dolore e, potremmo dire, “ha sperimentato l’inferno” può diventare un profeta nella società. Lavorate perché questa società che usa e getta la gente non continui a mietere vittime.

Nel dirvi queste cose, mi sono ricordato di quando Gesù ha detto: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra” (cfr Gv 8,7). E io me ne dovrei andare…. Nel dirvi queste cose, non lo faccio come chi lo fa dalla cattedra, con il dito alzato, lo faccio sulla base dell’esperienza delle mie stesse ferite, degli errori, dei peccati, che il Signore ha voluto perdonare e rieducare. Lo faccio sulla base della coscienza che senza la sua grazia e la mia vigilanza potrei tornare a ripeterli. Fratelli, mi chiedo sempre, entrando in un carcere: “Perché loro e non io?”. E questo è un mistero della misericordia divina. Ma questa misericordia divina oggi la stiamo celebrando tutti quanti, guardando avanti nella speranza.

Vorrei anche incoraggiare il personale che lavora in questo Centro o in altri simili: ai dirigenti, agli agenti della Polizia penitenziaria, a tutti quelli che prestano qualche tipo di assistenza in questo Centro. E ringrazio per lo sforzo dei Cappellani, delle persone consacrate, dei laici che si dedicano a mantenere viva la speranza del Vangelo della Misericordia nella prigione, i pastori, tutti coloro che si avvicinano per darvi la Parola di Dio. Tutti voi non dimenticatelo, potete essere segni delle viscere del Padre. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ci diceva la nostra sorella, ricordando la Lettera agli Ebrei: “Sentitevi incarcerati con loro”.

Prima di darvi la benedizione mi piacerebbe che pregassimo un momento in silenzio, tutti insieme. Ciascuno di voi sa quello che dirà al Signore, ciascuno sa di che cosa chiedere perdono. Ma vi chiedo anche che in questa preghiera in silenzio, possiamo allargare il cuore per poter perdonare la società che non ha saputo aiutarci e che tante volte ci ha spinto a commettere errori. Che ciascuno chieda a Dio, dall’intimità del cuore, che ci aiuti a credere nella Sua misericordia. Preghiamo in silenzio.

E apriamo il nostro cuore per ricevere la benedizione del Signore.

Il Signore vi benedica e vi protegga. Vi faccia vedere il suo volto e vi mostri la sua grazia. Scopra il suo volto e vi conceda la pace. Amen.

E vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie.


INCONTRO CON I GIOVANI

Stadio “José María Morelos y Pavón”, Morelia
Martedì, 16 febbraio 2016

Buonasera! A voi, giovani del Messico che siete qui, che state guardando per televisione, che state ascoltando… E voglio mandare un saluto e una benedizione alle migliaia di giovani della diocesi di Guadalajara che sono riuniti nella Piazza San Giovanni Paolo II per seguire quello che sta succedendo qui; e come loro tanti altri, ma mi hanno informato che là erano migliaia e migliaia riuniti in ascolto. E così siamo due “stadi”: la Giovanni Paolo di Guadalajara e noi qui, e poi tanti altri da tutte le parti.

Già conoscevo le vostre attese, perché mi avevano fatto arrivare la bozza di quello che più o meno avreste detto… - è vero! Perché dovrei dirvi una bugia? – Però mentre parlavate prendevo nota di alcune cose che mi sembravano importanti per non lasciarle in sospeso…

Vi dico che, quando sono arrivato in questa terra, sono stato accolto con un caloroso benvenuto, e ho potuto constatare immediatamente una cosa che sapevo da tempo: la vitalità, l’allegria, lo spirito festoso del Popolo messicano. Adesso, dopo avervi ascoltato, ma specialmente dopo avervi visto, constato nuovamente un’altra certezza, una cosa che ho detto al Presidente della Nazione nel mio primo saluto. Uno dei tesori più grandi di questa terra messicana ha il volto giovane, sono i suoi giovani. Sì, siete voi la ricchezza di questa terra. Attenzione: non ho detto la speranza di questa terra, ho detto: la ricchezza.

La montagna può contenere minerali preziosi che possono servire per il progresso dell’umanità: è la sua ricchezza, però quella ricchezza bisogna trasformarla in speranza con il lavoro, come fanno i minatori quando estraggono quei minerali. Voi siete la ricchezza, bisogna trasformarla in speranza. E Daniela alla fine ha posto una sfida, e ci ha dato anche la traccia, sulla speranza, ma tutti quelli che hanno parlato, quando sottolineavano le difficoltà, le situazioni, affermavano una verità molto grande, cioè che tutti possiamo vivere ma non possiamo vivere senza speranza. Sentire il domani. Non si può sentire il domani se prima uno non riesce ad avere stima di sé, se non riesce a sentire che la sua vita, le sue mani, la sua storia hanno un valore. Sentire quello che Alberto diceva: “Con le mie mani, con il mio cuore e con la mia mente posso costruire speranza; se io non sento questo, la speranza non potrà entrare nel mio cuore”.

La speranza nasce quando si può sperimentare che non tutto è perduto. E per questo è necessario l’esercizio di incominciare “da casa”, da sé stessi. Non tutto è perduto. Io non sono perduto. Io valgo, io valgo molto. Vi chiedo silenzio adesso; ciascuno risponda nel suo cuore: E’ vero che non tutto è perduto? Io sono perduto, sono perduta? Io valgo? Valgo poco? Valgo molto? La principale minaccia alla speranza sono i discorsi che ti svalutano, come se ti succhiassero il valore, e finisci come a terra – non è vero? – come avvizzito, con il cuore triste… discorsi che ti fanno sentire di seconda classe, se non di quarta. La principale minaccia alla speranza è quando senti che a nessuno importa di te o che sei lasciato in disparte. Questa è la grande difficoltà per la speranza: quando in una famiglia o in una società o in una scuola o in un gruppo di amici ti fanno sentire che gli importa di te. E questo è duro, è doloroso, però succede – o non succede? Sì o no? [“Si”]. Succede! Questo uccide, questo ci annienta, e questo apre la porta a tanto dolore. Ma c’è anche un’altra importante minaccia alla speranza – alla speranza che quella ricchezza, che siete voi, cresca e dia il suo frutto – ed è farti credere che cominci a valere quando ti mascheri di vestiti, marche, dell’ultimo grido della moda, o quando diventi prestigioso, importante perché hai denaro, ma in fondo il tuo cuore non crede che tu sia degno di affetto, degno di amore, e questo il cuore lo intuisce. La speranza è imbavagliata da quello che ti fanno credere, non te la lasciano emergere. La principale minaccia è quando uno sente che i soldi gli servono per comprare tutto, compreso l’affetto degli altri. La principale minaccia è credere che perché hai una bella macchina sei felice. Ma è vero che se hai una bella macchina sei felice?

Voi siete la ricchezza del Messico, voi siete la ricchezza della Chiesa. Permettetemi di dirvi un’espressione della mia terra: no les estoy “sobando el lomo” – non vi sto “lisciando il pelo”, non vi sto adulando! E capisco che molte volte diventa difficile sentirsi la ricchezza quando ci troviamo continuamente esposti alla perdita di amici e di familiari nelle mani del narcotraffico, delle droghe, di organizzazioni criminali che seminano il terrore. E’ difficile sentirsi la ricchezza di una nazione quando non si hanno opportunità di lavoro dignitoso – Alberto, lo hai detto chiaramente –, possibilità di studio e di preparazione, quando non si vedono riconosciuti i diritti e questo poi finisce per spingere a situazioni limite. E’ difficile sentirsi la ricchezza di un luogo quando, per il fatto che sono giovani, li si usa per scopi meschini seducendoli con promesse che alla fine nono sono reali, sono bolle di sapone. Ed è difficile sentirsi ricchi così. La ricchezza ce l’avete dentro, la speranza ce l’avete dentro, però non è facile, per tutto questo che vi sto dicendo, e che voi stessi avete detto: mancano opportunità di lavoro e di studio – l’hanno detto Roberto e Alberto. Eppure, malgrado tutto questo, non mi stanco di ripeterlo: voi siete la ricchezza del Messico.

Roberto, tu hai detto una frase che voglio conservare. Hai detto che hai perso qualcosa. E non hai detto: Ho perso il cellulare, ho perso il portafogli con i soldi, ho perso il treno perché sono arrivato tardi… Hai detto: Abbiamo perso il fascino di godere dell’incontro”. Abbiamo perso il fascino di camminare insieme; abbiamo perso il fascino di sognare insieme. E perché questa ricchezza, mossa dalla speranza, vada avanti, bisogna camminare insieme, bisogna incontrarsi, bisogna sognare! Non perdete il fascino di sognare! Osate sognare! Sognare, che non è lo stesso di essere dormiglioni, questo no!

E non pensate che vi dica questo – che voi siete la ricchezza del Messico, e che questa ricchezza con la speranza va avanti – perché sono buono, o perché sono un esperto, no, cari amici, non è così. Vi dico questo, e ne sono convinto, sapete perché? Perché come voi credo in Gesù Cristo. E penso che Daniela è stata molto forte quando ci ha parlato di questo. Io credo in Gesù Cristo, e perciò vi dico questo. E’ Lui che rinnova continuamente in me la speranza, è Lui che rinnova continuamente il mio sguardo. E’ Lui che risveglia in me, in ognuno di noi il fascino di godere, il fascino di sognare, il fascino di lavorare insieme. E’ Lui che continuamente mi invita a convertire il cuore. Sì, amici miei, vi dico questo perché in Gesù io ho incontrato Colui che è capace di accendere il meglio di me stesso. Ed è grazie a Lui che possiamo fare strada, è grazie a Lui che ogni volta possiamo ricominciare da capo, è grazie a Lui che possiamo dire: non è vero che l’unico modo di vivere, di essere giovani è lasciare la vita nelle mani del narcotraffico o di tutti quelli che la sola cosa che stanno facendo è seminare distruzione e morte. Questo non è vero e lo diciamo grazie a Gesù. Ed è anche grazie a Gesù, a Gesù Cristo il Signore che possiamo dire che non è vero che l’unico modo di vivere per i giovani qui è la povertà e l’emarginazione; emarginazione dalle opportunità, emarginazione dagli spazi, emarginazione da formazione ed educazione, emarginazione dalla speranza. E’ Gesù Cristo Colui che smentisce tutti i tentativi di rendervi inutili, o meri mercenari di ambizioni altrui. Sono le ambizioni altrui che vi emarginano, per usarvi in tutte quelle cose che ho detto, che sapete, e che finiscono nella distruzione. E l’unico che mi può tenere ben forte per la mano è Gesù Cristo. Egli fa sì che questa ricchezza si trasformi in speranza.

Mi avete chiesto una parola di speranza: quella che ho da dirvi, quella che è alla base di tutto, si chiama Gesù Cristo. Quando tutto sembra pesante, quando sembra che ci caschi il mondo addosso, abbracciate la sua croce, abbracciate Lui e, per favore, non staccatevi mai dalla sua mano, anche se vi sta portando avanti trascinandovi; e se una volta cadete, lasciatevi rialzare da Lui. Gli alpini hanno una canzone molto bella, che a me piace ripetere ai giovani, una canzone che cantano mentre salgono: “Nell’arte di ascendere, il successo non sta nel non cadere, ma nel non rimanere caduto”. Questa è l’arte. E chi è l’unico che ti può afferrare per la mano perché tu non rimanga caduto? Gesù Cristo, solo Lui. Gesù Cristo che, a volte, ti manda un fratello perché ti parli e ti aiuti. Non nascondere la tua mano quando sei caduto. Non dirgli: Non guardarmi che sto infangato o infangata. Non guardarmi, che ormai non c’è più rimedio. Solamente lasciati afferrare la mano, e afferra quella mano, e la ricchezza che hai dentro, sporca, infangata, data per perduta, comincerà, attraverso la speranza, a dare il suo frutto. Ma sempre con la mano stretta a quella di Gesù Cristo. Questa è la strada. Non dimenticate: “Nell’arte di ascendere, il successo non sta nel non cadere, ma nel non rimanere caduto”. Non permettetevi di rimanere caduti! Mai! D’accordo? E se vedete un amico o un’amica che ha fatto uno scivolone nella vita ed è caduto, vai e offri la tua mano; ma offrila con dignità: mettiti accanto a lui, accanto a lei, ascolta… Non dire: ti do la ricetta! Non, da amico, con calma, dagli forza con le tue parole, con il tuo ascolto: quella medicina che si sta dimenticando: l’“ascoltoterapia”. Lascialo parlare, lascia che ti racconti, e allora, a poco a poco, ti allungherà la mano, e tu lo aiuterai nel nome di Gesù Cristo. Ma se vai di colpo, e cominci a fargli la predica, e dai e dai, alla fine, poveretto, lo lasci peggio di come stava… E’ chiaro? Non staccatevi mai dalla mano di Gesù Cristo, non allontanatevi mai da Lui. E se vi allontanate, rialzatevi e andate avanti: Lui capisce cosa sono queste cose. Perché insieme a Gesù Cristo è possibile vivere pienamente, insieme a Lui è possibile credere che vale la pena vivere; che vale la pena dare il meglio di sé, essere fermento, sale e luce tra gli amici, nel quartiere, nella comunità, nella famiglia – dopo, Rosario, parlerò un po’ di quello che tu hai detto sulla famiglia.

Per questo, cari amici, da parte di Gesù vi chiedo di non lasciarvi escludere, non lasciarvi disprezzare, non lasciarvi trattare come merce. Gesù ci ha dato un consiglio per questo, per non lasciarci escludere, per non lasciarci disprezzare, per non lasciarci trattare come una merce: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). Le due virtù insieme. Ai giovani la vivacità non manca; a volte, manca loro la prudenza, per non essere ingenui. Entrambe le cose: prudenti ma semplici, buoni. Certo, per questa strada forse non avrete la macchina ultimo modello, non avrete il portafoglio pieno di soldi, ma avrete qualcosa che nessuno potrà togliervi, cioè l’esperienza di sentirsi amati, abbracciati e accompagnati. E’ il fascino di godere dell’incontro, il fascino di sognare nell’incontro con tutti. E’ l’esperienza di sentirsi famiglia, di sentirsi comunità. E’ l’esperienza di poter guardare il mondo in faccia, a testa alta! Senza la macchina, senza i soldi, ma a testa alta! La dignità!

Tre parole che adesso ripetiamo: ricchezza, perché ci è stata data; speranza, perché vogliamo aprirci alla speranza; dignità. Ripetiamo: ricchezza, speranza e dignità [ripetono]. La ricchezza che Dio ha dato a voi: voi siete la ricchezza del Messico; la speranza che vi dà Gesù Cristo; la dignità che vi dà il non lasciarvi “lisciare il pelo”, ed essere merce per il borsellino di altri.

Oggi il Signore continua a chiamarvi, continua a convocarvi, come fece con l’indio Juan Diego. Vi invita a costruire un santuario. Un santuario che non è un luogo fisico, bensì una comunità, un santuario chiamato parrocchia, un santuario chiamato Nazione. La comunità, la famiglia, il sentirci cittadini è uno dei principali antidoti contro tutto ciò che ci minaccia, perché ci fa sentire parte di questa grande famiglia di Dio. Non per rifugiarci, per chiuderci, per scappare dai pericoli della vita e dalle sfide; anzi, per uscire ad invitare altri, per uscire ad annunciare a tutti che essere giovani in Messico è la più grande ricchezza e pertanto non può essere sacrificata. E perché la ricchezza è capace di avere speranza e ci dà dignità. Un’altra volta le tre parole: ricchezza, speranza e dignità. Ma quella ricchezza che Dio ci ha dato e che dobbiamo far crescere.

Gesù, Colui che ci dà la speranza, mai ci inviterebbe ad essere sicari, ma ci chiama discepoli, ci chiama amici. Gesù mai ci manderebbe a morire, ma tutto in Lui è invito alla vita. Una vita in famiglia, una vita in comunità; una famiglia e una comunità a favore della società. E qui, Rosario, riprendo quello che tu hai detto, una cosa molto bella: “Nella famiglia si impara la vicinanza”. Si impara la solidarietà, si impara a condividere, a discernere, a portare avanti i problemi gli uni degli altri, a litigare e a mettersi d’accordo, a discutere e ad abbracciarsi e a baciarsi. La famiglia è la prima scuola della nazione, e nella famiglia c’è quella ricchezza che voi avete. La famiglia è quella che custodisce questa ricchezza, nella famiglia potete trovare speranza, perché c’è Gesù, e nella famiglia potete avere dignità. Mai, mai mettete da parte la famiglia! La famiglia è la pietra angolare della costruzione di una grande nazione. Voi siete ricchezza, avete speranza e sognate… – anche Rosario ha parlato di sognare –: voi sognate di avere una famiglia? [“Sì”].

Cari fratelli, voi siete la ricchezza di questo Paese, e quando dubitate di questo, guardate Gesù Cristo, che è la speranza, Colui che smentisce tutti i tentativi di rendervi inutili, o meri mercenari di ambizioni altrui.

Vi ringrazio per questo incontro, e vi chiedo di pregare per me. Grazie!

[Alla fine dell’incontro:]

Vi invito a pregare insieme nostra Madre di Guadalupe, e a chiederle che ci renda consapevoli della ricchezza che Dio ci ha dato; che faccia crescere in noi, nel nostro cuore, la speranza in Gesù Cristo; e che camminiamo nella vita con dignità di cristiani.

[Recita dell’Ave Maria e Benedizione]

E per favore non dimenticatevi di pregare per me! Grazie.


SANTA MESSA CON SACERDOTI, RELIGIOSE, RELIGIOSI,
CONSACRATI E SEMINARISTI

OMELIA DEL SANTO PADRE

Stadio “Venustiano Carranza”, Morelia
Martedì, 16 febbraio 2016

C’è un detto tra di noi che dice così: “Dimmi come preghi e ti dirò come vivi, dimmi come vivi e ti dirò come preghi”; perché, mostrandomi come preghi, imparerò a scoprire il Dio vivente, e mostrandomi come vivi, imparerò a credere nel Dio che preghi, perché la nostra vita parla della preghiera e la preghiera parla della nostra vita. A pregare si impara, come impariamo a camminare, a parlare, ad ascoltare. La scuola della preghiera è la scuola della vita e la scuola della vita è il luogo in cui facciamo scuola di preghiera.

San Paolo, al suo discepolo prediletto Timoteo, quando gli insegnava o lo esortava a vivere la fede, diceva: “Ricordati di tua madre e di tua nonna”. E i seminaristi, quando entravano nel Seminario, molte volte mi chiedevano: “Padre, io però vorrei fare una preghiera più profonda, più mentale…”. “Guarda – rispondevo - continua a pregare come ti hanno insegnato a casa tua. E poi, a poco a poco, la tua preghiera crescerà, così come la tua vita è cresciuta”. A pregare si impara, come nella vita.

Gesù ha voluto introdurre i suoi nel mistero della Vita, nel mistero della Sua vita. Mostrò loro mangiando, dormendo, sanando, predicando, pregando che cosa significa essere Figlio di Dio. Li invitò a condividere la sua vita, la sua intimità e, mentre stavano con Lui, fece loro toccare nella sua carne la vita del Padre. Fa loro sperimentare nel suo sguardo, nel suo camminare, la forza, la novità di dire: “Padre nostro”. In Gesù questa espressione - “Padre nostro” - non ha il “retrogusto” della routine o della ripetizione. Al contrario ha il sapore della vita, dell’esperienza dell’autenticità. Egli ha saputo vivere pregando e pregare vivendo, dicendo: Padre nostro.

E ci ha invitato a fare lo stesso. La nostra prima chiamata è quella a fare esperienza di questo amore misericordioso del Padre nella nostra vita, nella nostra storia. La sua prima chiamata è introdurci in questa nuova dinamica dell’amore, della filiazione. La nostra prima chiamata è quella ad imparare a dire “Padre nostro”, come Paolo insiste: “Abbà”.

“Guai a me se non evangelizzassi!”, dice Paolo, guai a me! Perché evangelizzare – prosegue – non è una gloria ma una necessità (1 Cor 9,16).

Ci ha invitato a partecipare alla Sua vita, alla vita divina: guai a noi, consacrati, consacrate, sacerdoti, seminaristi, vescovi, guai a noi se non la condividiamo, guai a noi se non siamo testimoni di quello che abbiamo visto e udito, guai a noi. Non siamo né vogliamo essere dei funzionari del divino, non siamo né desideriamo mai essere impiegati dell’impresa di Dio, perché siamo invitati a partecipare alla sua vita, siamo invitati a introdurci nel suo cuore, un cuore che prega e vive dicendo: Padre nostro. E cos’è la missione se non dire con la nostra vita - dal principio alla fine, come il nostro fratello Vescovo che è morto questa notte - cos’è la missione se non dire con la nostra vita: Padre nostro?

A questo Padre nostro noi ci rivolgiamo pregando con insistenza tutti i giorni. E che cosa gli diciamo in una delle invocazioni? Non lasciarci cadere in tentazione. Gesù stesso lo fece. Egli pregò perché noi suoi discepoli – di ieri e di oggi – non cadessimo in tentazione. Quale può essere una delle tentazioni che ci possono assalire? Quale può essere una delle tentazioni che sorge non solo dal contemplare la realtà ma nel viverla? Che tentazione ci può venire da ambienti dominati molte volte dalla violenza, dalla corruzione, dal traffico di droghe, dal disprezzo per la dignità della persona, dall’indifferenza davanti alla sofferenza e alla precarietà? Che tentazione potremmo avere noi sempre nuovamente, noi chiamati alla vita consacrata, al presbiterato, all’episcopato, che tentazione potremmo avere di fronte a tutto questo, di fronte a questa realtà che sembra essere diventata un sistema inamovibile?

Credo che potremmo riassumerla con una sola parola: rassegnazione. E di fronte a questa realtà ci può vincere una delle armi preferite del demonio: la rassegnazione. “E che ci possiamo fare? La vita è così!”. Una rassegnazione che ci paralizza, una rassegnazione che ci impedisce non solo di camminare, ma anche di tracciare una via; una rassegnazione che non soltanto ci spaventa, ma che ci trincera nelle nostre “sacrestie” e apparenti sicurezze; una rassegnazione che non soltanto ci impedisce di annunciare, ma che ci impedisce di lodare: ci toglie l’allegria, la gioia della lode. Una rassegnazione che non solo ci impedisce di progettare, ma che ci frena nel rischiare e trasformare le cose.

Per questo, Padre Nostro, non lasciarci cadere nella tentazione.

Che bene ci fa fare appello alla nostra memoria nei momenti della tentazione! Quanto ci aiuta osservare il “legno” con cui siamo stati fatti. Non tutto ha avuto inizio con noi, non tutto terminerà con noi; per questo, quanto bene ci fa recuperare la storia che ci ha portato fin qui.

E in questo fare memoria non possiamo tralasciare qualcuno che amò tanto questo luogo da farsi figlio di questa terra. Qualcuno che seppe dire di sé stesso: “Mi strapparono dalla magistratura e mi posero alla pienezza del sacerdozio per merito dei miei peccati. Me, inutile e interamente inabile per l’esecuzione di una tanto grande impresa; me, che non sapevo remare, elessero primo Vescovo di Michoacán" (Vasco Vásquez de Quiroga, Carta pastoral, 1554). Ringrazio il Signor Cardinale Arcivescovo, perché ha voluto che si celebrasse questa Eucaristia con il pastorale e il calice di quest’uomo.

Con voi desidero fare memoria di questo evangelizzatore, conosciuto anche come “Tata Vasco”, come “lo spagnolo che si fece indio”. La realtà vissuta dagli indios Purhépechas descritta da lui come “venduti, vessati e vagabondi per i mercati a raccogliere i rifiuti gettati a terra”, lungi dal condurlo alla tentazione dell’accidia e della rassegnazione, mosse la sua fede, mosse la sua vita, mosse la sua compassione e lo stimolò a realizzare diverse iniziative che fossero di “respiro” di fronte a tale realtà tanto paralizzante e ingiusta. Il dolore della sofferenza dei suoi fratelli divenne preghiera e la preghiera si fece risposta concreta. E questo gli guadagnò tra gli indios il nome di “Tata Vasco”, che in lingua purépechas significa: papà.

Padre, papà, tata, abbà…

Questa è la preghiera, questa l’espressione alla quale Gesù ci ha invitati. Padre, papà, abbà, non lasciarci cadere nella tentazione della rassegnazione, non lasciarci cadere nella tentazione dell’accidia, non lasciarci cadere nella tentazione della perdita della memoria, non lasciarci cadere nella tentazione di dimenticarci dei nostri predecessori che ci hanno insegnato con la loro vita a dire: Padre Nostro.


SANTA MESSA CON LE COMUNITÀ INDIGENE DEL CHIAPAS

OMELIA DEL SANTO PADRE

Centro sportivo municipale, San Cristóbal de Las Casas
Lunedì, 15 febbraio 2016

«Li smantal Kajvaltike toj lek – La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima» (Sal 19/18,8): così cominciava il Salmo che abbiamo ascoltato. La legge del Signore è perfetta; e il salmista si propone di enumerare tutto ciò che tale legge produce in chi la ascolta e la segue: rinfranca l’anima, rende saggio il semplice, fa gioire il cuore, è luce per illuminare il cammino (cfr Sal 19/18,8-9).

Questa è la legge che il Popolo d’Israele aveva ricevuto per mano di Mosè, una legge che avrebbe aiutato il Popolo di Dio a vivere nella libertà alla quale era stato chiamato. Legge che chiedeva di essere luce ai loro passi e accompagnare il peregrinare del Suo Popolo. Un Popolo che aveva sperimentato la schiavitù e il dispotismo del Faraone, che aveva sperimentato la sofferenza e i maltrattamenti, finché Dio disse “basta!”, finché Dio disse: “non più!”. Ho visto l’afflizione, ho udito il grido, ho conosciuto la sua angoscia (cfr Es 3,9). E lì si manifesta il volto del nostro Dio, il volto del Padre che soffre di fronte al dolore, al maltrattamento, all’ingiustizia nella vita dei suoi figli e la sua Parola, la sua legge diventava simbolo di libertà, simbolo di gioia, di sapienza e di luce. Esperienza, realtà che trova eco in quella espressione che nasce dalla sapienza allevata in queste terre fin dai tempi lontani e che così recita nel Popol Vuh: “L’alba sopraggiunse sopra le tribù riunite. La faccia della terra fu subito risanata dal sole” (33). L’alba sopraggiunse per i popoli che più volte hanno camminato nelle diverse tenebre della storia.

In questa espressione, c’è un anelito a vivere in libertà, un anelito che ha il sapore di terra promessa, dove l’oppressione, il maltrattamento e la degradazione non siano moneta corrente. Nel cuore dell’uomo e nella memoria di molti dei nostri popoli è inscritto l’anelito a una terra, a un tempo in cui il disprezzo sia superato dalla fraternità, l’ingiustizia sia vinta dalla solidarietà e la violenza sia cancellata dalla pace.

Il nostro Padre non solo condivide questo anelito: Egli stesso lo ha suscitato e lo suscita donandoci il suo Figlio Gesù Cristo. In Lui troviamo la solidarietà del Padre che cammina al nostro fianco. In Lui vediamo come quella legge perfetta prende carne, prende volto, prende la storia per accompagnare e sostenere il suo Popolo; si fa Via, si fa Verità, si fa Vita affinché le tenebre non abbiano l’ultima parola e l’alba non cessi di venire sulla vita dei suoi figli.

In molti modi e in molte forme si è voluto far tacere e cancellare questo anelito, in molti modi hanno cercato di anestetizzarci l’anima, in molte forme hanno preteso di mandare in letargo e addormentare la vita dei nostri bambini e giovani con l’insinuazione che niente può cambiare o che sono sogni impossibili. Davanti a queste forme, anche il creato sa alzare la sua voce: «Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm8,22)» (Enc. Laudato si’, 2).

La sfida ambientale che viviamo e le sue radici umane ci toccano tutti (cfr ibid., 4) e ci interpella. Non possiamo più far finta di niente di fronte a una delle maggiori crisi ambientali della storia.

In questo voi avete molto da insegnarci, da insegnare all’umanità. I vostri popoli, come hanno riconosciuto i Vescovi dell’America Latina, sanno relazionarsi armonicamente con la natura, che rispettano come «fonte di nutrimento, casa comune e altare del condividere umano» (Documento di Aparecida, 472).

Tuttavia, molte volte, in modo sistematico e strutturale, i vostri popoli sono stati incompresi ed esclusi dalla società. Alcuni hanno considerato inferiori i loro valori, la loro cultura, le loro tradizioni. Altri, ammaliati dal potere, dal denaro e dalle leggi del mercato, lo hanno spogliati delle loro terre o hanno realizzato opere che le inquinavano. Che tristezza! Quanto farebbe bene a tutti noi fare un esame di coscienza e imparare a dire: perdono! Perdono, fratelli! Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha bisogno di voi!

I giovani di oggi, esposti a una cultura che tenta di sopprimere tutte le ricchezze, le caratteristiche e le diversità culturali inseguendo un mondo omogeneo, hanno bisogno – questi giovani – che non si perda la saggezza dei loro anziani!

Il mondo di oggi, preso dal pragmatismo, ha bisogno di reimparare il valore della gratuità!

Stiamo celebrando la certezza che «il Creatore non ci abbandona, non fa mai marcia indietro nel suo progetto d’amore, non si pente di averci creato» (Enc. Laudato si’, 13). Celebriamo che Gesù Cristo continua a morire e risorgere in ogni gesto che compiamo verso il più piccolo dei nostri fratelli. Incoraggiamoci a continuare ad essere testimoni della sua Passione, della sua Risurrezione incarnando Li smantal Kajvaltike toj lek - “la legge del Signore che è perfetta e rinfranca l’anima”.


SANTA MESSA NELL'AREA DEL CENTRO STUDI DI ECATEPEC

OMELIA DEL SANTO PADRE

Domenica, 14 febbraio 2016

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Mercoledì scorso abbiamo iniziato il tempo liturgico della Quaresima, nel quale la Chiesa ci invita a prepararci per celebrare la grande festa della Pasqua. Tempo speciale per ricordare il dono del nostro Battesimo, quando siamo stati fatti figli di Dio. La Chiesa ci invita a ravvivare il dono che ci ha elargito per non lasciarlo nell’oblio come qualcosa di passato o in qualche “cassetto dei ricordi”. Questo tempo di Quaresima è un buon momento per recuperare la gioia e la speranza che ci dà il sentirci figli amati dal Padre. Questo Padre che ci aspetta per toglierci le vesti della stanchezza, dell’apatia, della sfiducia e rivestirci con la dignità che solo una vero padre e una vera madre sanno dare ai loro figli, i vestiti che nascono dalla tenerezza e dall’amore.

Il nostro Padre è il Padre di una grande famiglia, è Padre nostro. Sa avere un amore, ma non sa generare e creare “figli unici” tra di noi. E’ un Dio che sa di famiglia, di fraternità, di pane spezzato e condiviso. E’ il Dio del “Padre nostro”, non del “padre mio” e “patrigno vostro”.

In ognuno di noi si annida, vive quel sogno di Dio che in ogni Pasqua, in ogni Eucaristia ritorniamo a celebrare: siamo figli di Dio. Sogno che hanno vissuto tanti nostri fratelli nel corso della storia. Sogno testimoniato dal sangue di tanti martiri di ieri e di oggi.

Quaresima, tempo di conversione, perché quotidianamente facciamo esperienza nella nostra vita di come quel sogno si trova sempre minacciato dal padre della menzogna – abbiamo ascoltato nel Vangelo quello che faceva con Gesù - da colui che vuole dividerci, generando una società famiglia divisa e conflittuale, una società divisa e conflittuale. Una società di pochi e per pochi. Quante volte sperimentiamo nella nostra carne, o nella nostra famiglia, in quella dei nostri amici o vicini, il dolore che nasce dal non sentire riconosciuta quella dignità che tutti portiamo dentro. Quante volte abbiamo dovuto piangere e pentirci, perché ci siamo resi conto di non aver riconosciuto tale dignità negli altri. Quante volte – e lo dico con dolore – siamo ciechi e insensibili davanti al mancato riconoscimento della dignità propria e altrui.

Quaresima, tempo per regolare i sensi, aprire gli occhi di fronte a tante ingiustizie che attentano direttamente al sogno e al progetto di Dio. Tempo per smascherare quelle tre grandi forme di tentazione che rompono, dividono l’immagine che Dio ha voluto plasmare.

Le tre tentazioni che ha sofferto Cristo.

Tre tentazioni del cristiano che cercano di rovinare la verità alla quale siamo stati chiamati.

Tre tentazioni che cercano di degradare e di degradarci.

La prima, la ricchezza, impossessandoci di beni che sono stati dati per tutti, utilizzandoli solo per me o per “i miei”. E’ procurarsi il pane con il sudore altrui, o persino con la vita altrui. Quella ricchezza che è il pane che sa di dolore, di amarezza, di sofferenza. In una famiglia o in una società corrotta questo è il pane che si dà da mangiare ai propri figli.

La seconda tentazione: la vanità. Quella ricerca di prestigio basata sulla squalifica continua e costante di quelli che “non sono nessuno”. La ricerca esasperata di quei cinque minuti di fama che non perdona la “fama” degli altri. “Facendo legna dell’albero caduto”, lascia spazio alla terza tentazione, la peggiore, quella dell’orgoglio, ossia il porsi su un piano di superiorità di qualunque tipo, sentendo che non si condivide la “vita dei comuni mortali” e pregando tutti i giorni: “Grazie Signore perché non mi hai fatto come loro”.

Tre tentazioni di Cristo.

Tre tentazioni con cui il cristiano si confronta quotidianamente.

Tre tentazioni che cercano di degradare, di distruggere e di togliere la gioia e la freschezza del Vangelo. Che ci chiudono in un cerchio di distruzione e di peccato.

Vale la pena che ci domandiamo: fino a che punto siamo consapevoli di queste tentazioni nella nostra persona, in noi stessi?

Fino a che punto ci siamo abituati a uno stile di vita che pensa che nella ricchezza, nella vanità e nell’orgoglio stanno la fonte e la forza della vita?

Fino a che punto crediamo che il prenderci cura dell’altro, il nostro preoccuparci e occuparci per il pane, il buon nome e la dignità degli altri sono fonti di gioia e di speranza?

Abbiamo scelto Gesù e non il demonio. Se ci ricordiamo di quello che abbiamo ascoltato nel Vangelo, Gesù non risponde al demonio non nessuna parola propria, ma gli risponde con la Parola di Dio, con la Parola delle Scritture. Perché, fratelli e sorelle, mettiamocelo bene in testa: con il demonio non si dialoga! Non si può dialogare! Perché ci vincerà sempre. Solo la forza della Parola di Dio lo può sconfiggere! Abbiamo scelto Gesù e non il demonio: vogliamo seguire le sue orme, ma sappiamo che non è facile. Sappiamo che cosa significa essere sedotti dal denaro, dalla fama e dal potere. Perciò la Chiesa ci dona questo tempo, ci invita alla conversione con una sola certezza: Lui ci sta aspettando e vuole guarire il nostro cuore da tutto ciò che lo degrada, degradandosi o degradando altri. E’ il Dio che ha un nome: misericordia. Il Suo nome è la nostra ricchezza, il Suo nome è la nostra fama, il Suo nome è il nostro potere; e nel Suo nome ancora una volta ripetiamo con il salmo: «Mio Dio in cui confido» (91/90,2). Lo vogliamo ripetere insieme? Tre volte: “Tu sei il mio Dio e in te confido”; “Tu sei il mio Dio e in te confido”; “Tu sei il mio Dio e in te confido”.

Che in questa Eucaristia lo Spirito Santo rinnovi in noi la certezza che il Suo nome è misericordia e ci faccia sperimentare ogni giorno che il Vangelo «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» sapendo che con Lui e in Lui «sempre nasce e rinasce la gioia» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 1).


SANTA MESSA NELLA BASILICA DI GUADALUPE

OMELIA DEL SANTO PADRE

Città del Messico
Sabato, 13 febbraio 2016

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Abbiamo ascoltato come Maria andò a visitare la cugina Elisabetta. Senza indugi, senza dubbi, né lentezze, va ad accompagnare la sua parente che era agli ultimi mesi di gravidanza.

L’incontro con l’angelo non ha fermato Maria, perché non si è sentita privilegiata, o in dovere di staccarsi dalla vita dei suoi. Al contrario, ha ravvivato e messo in moto un atteggiamento per il quale Maria è e sarà sempre riconosciuta: la donna del sì, un sì di dedizione a Dio e, al tempo stesso, un sì di dedizione ai suoi fratelli. E’ il sì che la mise in movimento per dare il meglio di sé, ponendosi in cammino incontro agli altri.

Ascoltare questo brano del Vangelo in questa Casa ha un sapore speciale. Maria, la donna del sì, ha voluto anche visitare gli abitanti di questa terra d’America nella persona dell’indio san Juan Diego. Così come si mosse per le strade della Giudea e della Galilea, nello stesso modo raggiunse il Tepeyac, con i suoi abiti, utilizzando la sua lingua, per servire questa grande Nazione. E così come accompagnò la gravidanza di Elisabetta, ha accompagnato e accompagna la “gravidanza” di questa benedetta terra messicana. Così come si fece presente al piccolo Juanito, allo stesso modo continua a farsi presente a tutti noi, soprattutto a quelli che come lui sentono “di non valere nulla” (cfr Nican Mopohua, 55). Questa scelta particolare, diciamo preferenziale, non è stata contro nessuno, ma a favore di tutti. Il piccolo indio Juan che si chiamava anche “mecapal, cacaxtle, coda, ala, bisognoso lui stesso di esser portato” (cfr ibid.) è diventato “il messaggero, molto degno di fiducia”.

In quell’alba di dicembre del 1531, si compiva il primo miracolo che poi sarà la memoria vivente di tutto ciò che questo Santuario custodisce. In quell’alba, in quell’incontro, Dio risvegliò la speranza di suo figlio Juan, la speranza di un popolo. In quell’alba Dio ha risvegliato e risveglia la speranza dei più piccoli, dei sofferenti, degli sfollati e degli emarginati, di tutti coloro che sentono di non avere un posto degno in queste terre. In quell’alba Dio si è avvicinato e si avvicina al cuore sofferente ma resistente di tante madri, padri, nonni che hanno visto i loro figli partire, li hanno visti persi o addirittura strappati dalla criminalità.

In quell’alba, Juanito sperimenta nella sua vita che cos’è la speranza, che cos’è la misericordia di Dio. Lui è scelto per sorvegliare, curare, custodire e favorire la costruzione di questo Santuario. A più riprese disse alla Vergine che lui non era la persona adatta, anzi, se voleva portare avanti quel lavoro doveva scegliere altri perché lui non era istruito, letterato o appartenente al novero di coloro che avrebbero potuto farlo. Maria, risoluta – con la risolutezza che nasce dal cuore misericordioso del Padre – gli disse no, che lui sarebbe stato il suo messaggero.

Così egli riesce a far emergere qualcosa che non sapeva esprimere, una vera e propria immagine trasparente di amore e di giustizia: nella costruzione dell’altro santuario, quello della vita, quello delle nostre comunità, società e culture, nessuno può essere lasciato fuori. Tutti siamo necessari, soprattutto quelli che normalmente non contano perché non sono “all’altezza delle circostanze” o perché non “apportano il capitale necessario” per la costruzione delle stesse. Il santuario di Dio è la vita dei suoi figli, di tutti e in tutte le condizioni, in particolare dei giovani senza futuro esposti a una infinità di situazioni dolorose, a rischio, e quella degli anziani senza riconoscimento, dimenticati in tanti angoli. Il santuario di Dio sono le nostre famiglie che hanno bisogno del minimo necessario per potersi formare e sostenere. Il santuario di Dio è il volto di tanti che incontriamo nel nostro cammino…

Venendo in questo santuario ci può accadere la stessa cosa che accadde a Juan Diego. Guardare la Madre a partire dai nostri dolori, dalle nostre paure, disperazioni, tristezze, e dirle: “Che cosa posso dare io se non sono una persona istruita?”. Guardiamo la Madre con occhi che dicono: “Sono tante le situazioni che ci tolgono la forza, che ci fanno sentire che non c’è spazio per la speranza, per il cambiamento, per la trasformazione”.

Per questo credo che oggi ci farà bene un po’ di silenzio, e guardarla, guardarla molto e con calma, e dirle come fece quell’altro figlio che la amava molto:

“Guardarti semplicemente - Madre -,
tenendo aperto solo lo sguardo;
guardarti tutta senza dirti nulla,
e dirti tutto, muto e riverente.
Non turbare il vento della tua fronte;
solo cullare la mia solitudine violata
nei tuoi occhi di Madre innamorata
e nel tuo nido di terra trasparente.
Le ore precipitano; percossi,
mordono gli uomini stolti l’immondizia
della vita e della morte, con i loro rumori.
Guardarti, Madre; contemplarti appena,
il cuore tacito nella tua tenerezza,
nel tuo casto silenzio di gigli” (Inno liturgico).

E nel silenzio, in questo rimanere a contemplarla, sentire ancora una volta che ci ripete: “Che c’è, figlio mio, il piccolo di tutti? Che cosa rattrista il tuo cuore?” (cfr Nican Mopohua, 107.118) «Non ci sono forse qui io, io che ho l’onore di essere tua madre?» (ibid., 119).

Lei ci dice che ha “l’onore” di essere nostra madre. Questo ci dà la certezza che le lacrime di coloro che soffrono non sono sterili. Sono una preghiera silenziosa che sale fino al cielo e che in Maria trova sempre posto sotto il suo manto. In lei e con lei, Dio si fa fratello e compagno di strada, porta con noi le croci per non lasciarci schiacciare da nostri dolori.

“Non sono forse tua madre? Non sono qui? Non lasciarti vincere dai tuoi dolori, dalle tue tristezze” – ci dice. Oggi di nuovo torna ad inviarci, come Juanito; oggi di nuovo torna a ripeterci: sii mio messaggero, sii mio inviato per costruire tanti nuovi santuari, accompagnare tante vite, asciugare tante lacrime. Basta che cammini per le strade del tuo quartiere, della tua comunità, della tua parrocchia come mio messaggero, mia messaggera; innalza santuari condividendo la gioia di sapere che non siamo soli, che lei è con noi. Sii mio messaggero – ci dice – dando da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, da’ un posto ai bisognosi, vesti chi è nudo e visita i malati. Soccorri il prigioniero, non lasciarlo solo, perdona chi ti ha fatto del male, consola chi è triste, abbi pazienza con gli altri e, soprattutto, implora e prega il nostro Dio. E in silenzio le diciamo quello che ci sale dal cuore.

“Non sono forse tua madre? Non sono forse qui?” – ci dice ancora Maria. Vai a costruire il mio santuario, aiutami a risollevare la vita dei miei figli, tuoi fratelli.


INCONTRO CON I VESCOVI DEL MESSICO

Cattedrale, Città del Messico
Sabato, 13 febbraio 2016

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Cari fratelli,

sono contento di potervi incontrare il giorno dopo il mio arrivo in questo Paese, che, seguendo i passi dei miei Predecessori, anch’io sono venuto a visitare.

Non potevo non venire! Potrebbe il Successore di Pietro, chiamato dal lontano sud latinoamericano, fare a meno di posare lo sguardo sulla Vergine “Morenita”?

Vi ringrazio per avermi accolto in questa Cattedrale, “casita”, “piccola casa” diventata grande ma sempre “sacra”, che la Vergine di Guadalupe domandò, e per le gentili parole di benvenuto che mi avete rivolto.

Sapendo che qui si trova il cuore segreto di ogni messicano, entro con passo delicato, come bisogna entrare nella casa e nell’anima di questo popolo, e vi sono profondamente grato di aprirmi la porta. So che guardando gli occhi della Vergine raggiungo lo sguardo della vostra gente che, in Lei, ha imparato a manifestarsi. So che nessun’altra voce può parlare tanto profondamente del cuore messicano come può parlarmene la Vergine; Ella custodisce i suoi desideri più alti, le sue più recondite speranze; Ella raccoglie le sue gioie e le sue lacrime; Ella comprende i suoi numerosi idiomi e risponde loro con tenerezza di Madre perché sono i suoi figli.

Sono contento di stare con voi, qui nelle vicinanze del “Monte del Tepeyac”, come agli albori dell’evangelizzazione di questo Continente e vi chiedo per favore di permettermi che tutto quanto vi dirò possa dirlo partendo dalla Guadalupana. Come vorrei che fosse Lei stessa a recarvi, fino al profondo delle vostre anime di Pastori, e, per mezzo di voi, a ciascuna delle vostre Chiese particolari presenti in questo vasto Messico, tutto ciò che fluisce intensamente dal cuore del Papa.

Come fece san Juan Diego e fecero le successive generazioni dei figli della Guadalupana, anche il Papa da tempo nutriva il desiderio di vederla. Più ancora, vorrei io stesso essere raggiunto dal suo sguardo materno. Ho riflettuto molto sul mistero di questo sguardo e vi prego, accogliete ciò che sgorga dal mio cuore di Pastore in questo momento.

Uno sguardo di tenerezza

Anzitutto, la Vergine Morenita ci insegna che l’unica forza capace di conquistare il cuore degli uomini è la tenerezza di Dio. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, che è la forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia.

Un inquieto e illustre scrittore di questa terra, disse che a Guadalupe non si chiede l’abbondanza dei raccolti o la fertilità della terra, bensì si cerca un grembo in cui gli uomini, sempre orfani e diseredati, vanno cercando una protezione, una casa.

A distanza di secoli dall’evento fondante di questo Paese e dell’evangelizzazione del Continente, è stata forse diluita, è stata forse dimenticata la necessità di un grembo a cui anela il cuore del popolo che vi è stato affidato?

Conosco la lunga e dolorosa storia che avete attraversato, non senza versare tanto sangue, non senza impietose e strazianti convulsioni, non senza violenza e incomprensioni. A ragione il mio venerato e santo Predecessore, che in Messico era come a casa sua, ha voluto ricordare che «come fiumi talvolta occulti e sempre copiosi, da tre realtà che a volte si incontrano e altre rivelano le loro differenze complementari, senza mai confondersi del tutto: l’antica e ricca sensibilità dei popoli indigeni che amarono Juan de Zumárraga e Vasco de Quiroga, che molti di questi popoli continuano a chiamare padri, il cristianesimo radicato nell’anima dei messicani e la moderna razionalità, di taglio europeo, che tanto ha voluto esaltare l’indipendenza e la libertà» (Giovanni Paolo II,Discorso nella cerimonia di benvenuto in Messico, 22 gennaio 1999).

E in questa storia, il grembo materno che continuamente ha generato il Messico, benché a volte sembrasse una rete che raccoglieva 153 pesci (cfr Gv 21,11), non si dimostrò mai infecondo, e le minacciose fratture si sono sempre ricomposte.

Perciò, vi invito a partire nuovamente da questa necessità di un grembo che promana dall’anima del vostro popolo. Il grembo della fede cristiana è capace di riconciliare il passato spesso segnato da solitudine, isolamento ed emarginazione, con il futuro continuamente relegato ad un domani che sfugge. Solo in quel grembo si può, senza rinunciare alla propria identità, «scoprire la profonda verità della nuova umanità, in cui tutti sono chiamati ad essere figli di Dio» (Giovanni Paolo II, Omelia per la canonizzazione di san Juan Diego, 31 luglio 2002).

Chinatevi quindi, fratelli, con delicatezza e rispetto, sull’anima profonda della vostra gente, scendete con attenzione e decifrate il suo misterioso volto. Il presente, spesso dissolto in dispersione e festa, non è forse anche propedeutico a Dio che è l’unico e pieno presente? La familiarità con il dolore e la morte non sono forme di coraggio e vie verso la speranza? La percezione che il mondo sia sempre e solamente da redimere non è antidoto all’autosufficienza prepotente di quanti credono di poter prescindere da Dio?

Naturalmente, per tutto questo è necessario uno sguardo capace di riflettere la tenerezza di Dio. Siate pertanto Vescovi di sguardo limpido, di anima trasparente, di volto luminoso. Non abbiate paura della trasparenza. La Chiesa non ha bisogno dell’oscurità per lavorare. Vigilate affinché i vostri sguardi non si coprano con le penombre della nebbia della mondanità; non lasciatevi corrompere dal volgare materialismo né dalle illusioni seduttrici degli accordi sottobanco; non riponete la vostra fiducia nei “carri e cavalli” dei faraoni attuali, perché la nostra forza è la “colonna di fuoco” che rompe dividendole in due le acque del mare, senza fare grande rumore (cfr Es 14,24-25).

Il mondo nel quale il Signore ci chiama a svolgere la nostra missione è diventato molto complesso. E anche la prepotente idea del “cogito”, che non negava che vi fosse almeno una roccia sopra la spiaggia dell’essere, oggi è dominata da una concezione della vita considerata da molti più che mai vacillante, mutevole e anomica, perché manca di un sostrato solido. Le frontiere, così intensamente invocate e sostenute, sono diventate permeabili alla novità di un mondo in cui la forza di alcuni non può più sopravvivere senza la vulnerabilità di altri. L’irreversibile ibridazione della tecnologia rende vicino ciò che è lontano ma, purtroppo, rende distante ciò che dovrebbe essere vicino.

E precisamente in questo mondo, Dio vi chiede di avere uno sguardo che sappia intercettare la domanda che grida nel cuore della vostra gente, l’unica che possiede nel proprio calendario una “festa del grido”. A quel grido bisogna rispondere che Dio esiste ed è vicino mediante Gesù. Che solo Dio è la realtà sulla quale si può costruire, perché «Dio è la realtà fondante, non un Dio solo pensato o ipotetico, ma il Dio dal volto umano» (Benedetto XVI, Discorso inaugurale della V Conferenza generale del CELAM, 13 magio 2007).

Nei vostri sguardi, il Popolo messicano ha il diritto di trovare le tracce di quelli che “hanno visto il Signore” (cfr Gv 20,25), di quelli che sono stati con Dio. Questo è l’essenziale. Non perdete, dunque, tempo ed energie nelle cose secondarie, nelle chiacchiere e negli intrighi, nei vani progetti di carriera, nei vuoti piani di egemonia, negli sterili club di interessi o di consorterie. Non lasciatevi fermare dalle mormorazioni e dalle maldicenze. Introducete i vostri sacerdoti nella comprensione del ministero sacro. A noi ministri di Dio basta la grazia di “bere il calice del Signore”, il dono di custodire la parte della sua eredità che ci è affidata, benché siamo amministratori inesperti. Lasciamo al Padre di assegnarci il posto che ha preparato per noi (cfr Mt 20,20-28). Possiamo forse essere veramente occupati in altre cose se non in quelle del Padre? Al di fuori delle “cose del Padre” (cfr Lc 2,48-49) perdiamo la nostra identità e, colpevolmente, rendiamo vana la sua grazia.

Se il nostro sguardo non testimonia di aver visto Gesù, allora le parole che ricordiamo di Lui risultano soltanto delle figure retoriche vuote. Forse esprimono la nostalgia di quelli che non possono dimenticare il Signore, ma comunque sono solo il balbettare di orfani accanto al sepolcro. Parole alla fine incapaci di impedire che il mondo resti abbandonato e ridotto alla propria potenza disperata.

Penso alla necessità di offrire un grembo materno ai giovani. Che i vostri sguardi siano capaci di incrociarsi con i loro sguardi, di amarli e di cogliere ciò che essi cercano con quella forza con cui molti come loro hanno lasciato barche e reti sull’altra riva del mare (cfr Mc 1,17-18), hanno abbandonato banchi delle imposte pur di seguire il Signore della vera ricchezza (cfr Mt 9,9).

Mi preoccupano tanti che, sedotti dalla vuota potenza del mondo, esaltano le chimere e si rivestono dei loro macabri simboli per commercializzare la morte in cambio di monete che alla fine tarme e ruggine consumano e per cui i ladri scassinano e rubano (cfrMt 6,20). Vi prego di non sottovalutare la sfida etica e anti-civica che il narcotraffico rappresenta per la gioventù e per l’intera società messicana, compresa la Chiesa.

Le proporzioni del fenomeno, la complessità delle sue cause, l’immensità della sua estensione come metastasi che divora, la gravità della violenza che disgrega e delle sue sconvolte connessioni, non permettono a noi, Pastori della Chiesa, di rifugiarci in condanne generiche – forme di nominalismo – bensì esigono un coraggio profetico e un serio e qualificato progetto pastorale per contribuire, gradualmente, a tessere quella delicata rete umana, senza la quale tutti saremmo fin dall’inizio distrutti da tale insidiosa minaccia. Solo cominciando dalle famiglie; avvicinandoci e abbracciando la periferia umana ed esistenziale dei territori desolati delle nostre città; coinvolgendo le comunità parrocchiali, le scuole, le istituzioni comunitarie, la comunità politica, le strutture di sicurezza; solo così si potrà liberare totalmente dalle acque in cui purtroppo annegano tante vite, sia la vita di chi muore come vittima, sia quella di chi davanti a Dio avrà sempre le mani macchiate di sangue, per quanto abbia il portafoglio pieno di denaro sporco e la coscienza anestetizzata.

Con lo sguardo rivolto a Maria di Guadalupe, dirò una seconda cosa:

Uno sguardo capace di tessere

Nel manto dell’anima messicana Dio ha tessuto, con il filo delle impronte meticce della sua gente, il volto della sua manifestazione nella “Morenita”. Dio non ha bisogno di colori spenti per disegnare il suo volto. I disegni di Dio non sono condizionati dai colori e dai fili, bensì sono determinati dalla irreversibilità del suo amore che vuole tenacemente imprimersi in noi.

Siate, pertanto, Vescovi capaci di imitare questa libertà di Dio scegliendo ciò che è umile per manifestare la maestà del suo volto, e di imitare questa pazienza divina nel tessere, col filo sottile dell’umanità che incontrate, quell’uomo nuovo che il vostro paese attende. Non lasciatevi prendere dalla vana ricerca di cambiare popolo, come se l’amore di Dio non avesse abbastanza forza per cambiarlo.

Riscoprite poi la saggia e umile costanza con cui i Padri della fede di questa Patria hanno saputo introdurre le generazioni successive nella semantica del mistero divino. Imparando prima e poi insegnando la grammatica necessaria per dialogare con quel Dio, nascosto nei secoli della loro ricerca e fattosi vicino nella persona del suo Figlio Gesù, che oggi tanti riconoscono nell’immagine insanguinata e umiliata, come figura del proprio destino. Imitate la sua condiscendenza e la sua capacità di abbassarsi. Non comprenderemo mai abbastanza il fatto che con i fili meticci della nostra gente Dio ha intessuto il volto col quale si è fatto conoscere! Mai saremo abbastanza grati a questo suo chinarsi, a questa “synkatábasis”.

Uno sguardo di singolare delicatezza vi chiedo per i popoli indigeni, per loro e le loro affascinanti culture, non di rado massacrate. Il Messico ha bisogno delle sue radici amerinde per non rimanere in un enigma irrisolto. Gli indigeni del Messico aspettano ancora che venga loro riconosciuta effettivamente la ricchezza del loro contributo e la fecondità della loro presenza per ereditare quella identità che vi fa diventare una Nazione unica e non solamente una tra le altre.

Si è parlato molte volte del presunto destino incompiuto di questa Nazione, del “labirinto della solitudine” nel quale sarebbe imprigionata, della geografia come destino che la intrappola. Per alcuni, tutto questo sarebbe ostacolo per il disegno di un volto unitario, di una identità adulta, di una posizione singolare nel concerto delle nazioni e di una missione condivisa.

Per altri, anche la Chiesa in Messico sarebbe condannata a scegliere tra il soffrire l’inferiorità in cui fu relegata in alcuni periodi della sua storia, come quando la sua voce fu fatta tacere e si cercò di amputare la sua presenza, o l’avventurarsi nei fondamentalismi par recuperare certezze provvisorie – come quel “cogito” famoso – dimenticando di avere inscritta nel cuore la sete di Assoluto e di essere chiamata in Cristo a riunire tutti e non solo una parte (cfr Lumen gentium, 1).

Non stancatevi, invece, di ricordare al vostro Popolo quanto sono potenti le radici antiche che hanno permesso la viva sintesi cristiana di comunione umana, culturale e spirituale che si è forgiata qui. Ricordate che le ali del vostro Popolo si sono spiegate già più volte al di sopra di non poche vicissitudini. Custodite la memoria del lungo cammino fin qui percorso – siate “deuteronomici” – e sappiate suscitare la speranza di nuove mete, perché il domani sarà una terra “ricca di frutti” anche se ci pone sfide non indifferenti (cfr Nm 13,27-28).

Che i vostri sguardi, riposati sempre e solamente in Cristo, siano capaci di contribuire all’unità del vostro Popolo; di favorire la riconciliazione delle sue differenze e l’integrazione delle sue diversità; di promuovere la soluzione dei suoi problemi endogeni; di ricordare la misura alta che il Messico può raggiungere se impara ad appartenere a sé stesso prima che ad altri; di aiutare a trovare soluzioni condivise e sostenibili alle sue miserie; di motivare l’intera Nazione a non accontentarsi di meno di quanto si attende dal modo messicano di abitare il mondo.

Una terza riflessione:

Uno sguardo attento e vicino, non addormentato

Vi prego di non cadere nella paralisi di dare vecchie risposte alle nuove domande. Il vostro passato è un pozzo di ricchezze da scavare, che può ispirare il presente e illuminare il futuro. Guai a voi se dormite sugli allori! Occorre non disperdere l’eredità ricevuta custodendola con un lavoro costante. Siete seduti sulle spalle di giganti: vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici fedeli “sino alla fine”, che hanno dato la vita affinché la Chiesa potesse compiere la propria missione. Dall’alto di tale podio siete chiamati a gettare uno sguardo ampio sul campo del Signore per programmare la semina e aspettare il raccolto.

Vi invito a stancarvi, a stancarvi senza paura nel compito di evangelizzare e di approfondire la fede, mediante una catechesi mistagogica che sappia far tesoro della religiosità popolare della vostra gente. Il nostro tempo richiede attenzione pastorale alle persone e ai gruppi che sperano di poter andare incontro al Cristo vivo. Solamente una coraggiosa conversione pastorale – e sottolineo conversione pastorale – delle nostre comunità può cercare, generare e nutrire i discepoli odierni di Gesù (cfr Documento di Aparecida, 226, 360, 370).

Pertanto, è necessario per i nostri Pastori superare la tentazione della distanza – e lascio ad ognuno di voi di fare la lista delle distanze che possono esistere in questa Conferenza Episcopale; non le conosco, ma superare la tentazione della distanza – e del clericalismo, della freddezza e dell’indifferenza, del comportamento trionfale e dell’autoreferenzialità. Guadalupe ci insegna che Dio è familiare, vicino nel suo volto, che la prossimità e la condiscendenza – questo abbassarsi e avvicinarsi – possono fare più della forza, di qualsiasi tipo di forza.

Come insegna la bella tradizione guadalupana, la “Morenita” custodisce gli sguardi di coloro che la contemplano, riflette il volto di coloro che la incontrano. Occorre imparare che c’è qualcosa di irripetibile in ciascuno di coloro che ci guardano alla ricerca di Dio. Tocca a noi non renderci impermeabili a tali sguardi. Custodire in noi ognuno di loro, conservandoli nel cuore, proteggendoli.

Solo una Chiesa capace di proteggere il volto degli uomini che vanno a bussare alla sua porta è capace di parlare loro di Dio. Se non decifriamo le loro sofferenze, se non ci accorgiamo dei loro bisogni, nulla potremo offrire. La ricchezza che abbiamo scorre solamente quando incontriamo la pochezza di coloro che vanno elemosinando, e proprio tale incontro si realizza nel nostro cuore di Pastori.

E il primo volto che vi supplico di custodire nel vostro cuore è quello dei vostri sacerdoti. Non lasciateli esposti alla solitudine e all’abbandono, preda della mondanità che divora il cuore. Siate attenti e imparate a leggere i loro sguardi per gioire con loro quando si sentono felici di raccontare ciò che “hanno fatto e insegnato” (cfr Mc 6,30), e anche per non tirarsi indietro quando si sentono un po’ umiliati e non possono far altro che piangere perché “hanno rinnegato il Signore” (cfr Lc 22,61-62), e anche, perché no, per sostenerli, in comunione con Cristo, quando qualcuno, già abbattuto, uscirà con Giuda “nella notte” (cfr Gv 13,30). In queste situazioni, che non manchi mai la vostra paternità di Vescovi verso i vostri sacerdoti. Incoraggiate la comunione tra di loro; fate sì che possano perfezionare i loro doni; inseriteli nelle grandi cause perché il cuore dell’apostolo non è stato fatto per piccole cose.

Il bisogno di familiarità abita nel cuore di Dio. Nostra Signora di Guadalupe chiese solamente una “casetta sacra”. I nostri popoli latinoamericani capiscono bene il linguaggio diminutivo – una “casetta” sacra – e molto volentieri lo usano. Forse hanno bisogno del diminutivo perché altrimenti si sentirebbero perduti. Si sono adattati a sentirsi sminuiti e si sono abituati a vivere nella modestia.

La Chiesa, quando si raduna in una maestosa Cattedrale, non potrà fare a meno di comprendersi come una “piccola casa”, in cui i suoi figli possono sentirsi a proprio agio. Davanti a Dio si può rimanere solo se si è piccoli, se si è orfani, se si è mendicanti. Il protagonista della storia di salvezza è il mendicante.

“Casetta” familiare e al tempo stesso “sacra”, perché la prossimità si riempie della grandezza onnipotente. Siamo custodi di questo mistero! A volte abbiamo perso questo senso dell’umile misura divina e ci stanchiamo di offrire ai nostri la “casetta” in cui possano sentirsi in intimità con Dio. Può anche darsi che avendo trascurato un po’ il senso della sua grandezza si sia perso parte del timore reverenziale nei confronti di un tale amore. Dove abita Dio, l’uomo non può accedere senza essere ammesso, ed entra solamente “togliendosi i sandali” (cfr Es 3,5) per confessare la propria insufficienza.

E questo aver dimenticato di “togliersi i sandali” per entrare, non è probabilmente alla radice della perdita del senso della sacralità della vita umana, della persona, dei valori essenziali, della saggezza accumulata lungo i secoli, del rispetto per la natura? Senza recuperare, nella coscienza degli uomini e della società, queste radici profonde, anche al lavoro generoso in favore dei legittimi diritti umani mancherà la linfa vitale che può venire solo da una sorgente che l’umanità non potrà mai darsi da sé stessa.

E, sempre guardando la Madre, per concludere:

Uno sguardo d’insieme e di unità

Solo guardando la “Morenita”, il Messico ha di sé una visione completa. Pertanto vi invito a comprendere che la missione che la Chiesa oggi vi affida – e sempre vi ha affidato – richiede questo sguardo che abbracci la totalità. E questo non si può realizzare isolatamente, bensì solo in comunione.

La Guadalupana è cinta di una cintura che annuncia la sua fecondità. E’ la Vergine che porta in grembo il Figlio atteso dagli uomini. E’ la Madre che sta generando l’umanità del nuovo mondo nascente. E’ la Sposa che prefigura la maternità feconda della Chiesa di Cristo. Voi avete la missione di cingere l’intera Nazione messicana con la fecondità di Dio. Nessun pezzo di questa cinta può essere disprezzato.

L’Episcopato messicano ha compiuto passi notevoli in questi anni conciliari; sono aumentati i suoi membri; è stata promossa una formazione permanente, continua e qualificata; l’ambiente fraterno non è mancato; lo spirito di collegialità è cresciuto; gli interventi pastorali hanno influito sulle vostre Chiese e sulla coscienza nazionale; i lavori pastorali condivisi sono stati fruttuosi nei campi essenziali della missione ecclesiale come la famiglia, le vocazioni e la presenza sociale.

Mentre ci rallegriamo per il cammino di questi anni, vi chiedo di non lasciarvi scoraggiare dalle difficoltà e di non risparmiare ogni possibile sforzo per promuovere, tra di voi e nelle vostre diocesi, lo zelo missionario, soprattutto verso le parti più bisognose dell’unico corpo della Chiesa messicana. Riscoprire che la Chiesa è missione è fondamentale per il suo futuro, perché solo l’entusiasmo, lo stupore convinto degli evangelizzatori ha la forza di trascinare. Vi prego, pertanto, di curare specialmente la formazione e la preparazione dei laici, superando ogni forma di clericalismo e coinvolgendoli attivamente nella missione della Chiesa, soprattutto rendendo presente, con la testimonianza della propria vita, il vangelo di Cristo nel mondo.

A questo Popolo messicano gioverà molto una testimonianza unificante della sintesi cristiana e una visione condivisa dell’identità e del destino della sua gente. In questo senso, sarebbe molto importante che la Pontificia Università del Messico fosse sempre più al centro degli sforzi ecclesiali per assicurare quello sguardo di universalità senza il quale la ragione, rassegnata a modelli parziali, rinuncia alla sua più alta aspirazione di ricerca della verità.

La missione è vasta e portarla avanti richiede molteplici vie. E con la più viva insistenza vi esorto a conservare la comunione e l’unità tra di voi. Questo è essenziale, fratelli. Questo non c’è nel testo, ma mi viene adesso. Se dovete litigare, litigate; se avete delle cose da dirvi, ditevele; però da uomini, in faccia, e come uomini di Dio che poi vanno a pregare insieme, a fare discernimento insieme; e se avete passato il limite, a chiedervi perdono, ma mantenete l’unità del corpo episcopale. Comunione e unità tra di voi. La comunione è la forma vitale della Chiesa e l’unità dei suoi Pastori dà prova della sua veracità. Il Messico e la sua vasta e multiforme Chiesa hanno bisogno di Vescovi servitori e custodi dell’unità edificata sulla Parola del Signore, alimentata con il suo Corpo e guidata dal suo Spirito che è il respiro vitale della Chiesa.

Non c’è bisogno di “prìncipi”, bensì di una comunità di testimoni del Signore. Cristo è la sua unica luce; è la sorgente di acqua viva; dal suo respiro promana lo Spirito che distende le vele della barca ecclesiale. In Cristo glorificato, che la gente di questo popolo ama onorare come Re, accendete uniti la luce, ricolmatevi della sua presenza che non si estingue; respirate a pieni polmoni l’aria buona del suo Spirito. A voi spetta seminare Cristo nel territorio, tenere accesa la sua luce umile che rischiara senza abbagliare, assicurare che con le sue acque si sazi la sete delle vostra gente, alzare le vele affinché il soffio dello Spirito le dispieghi e non s’incagli la barca della Chiesa in Messico.

Ricordate che la Sposa, la Sposa di ognuno di voi, la Madre Chiesa, sa bene che il Pastore amato (Ct 1,7) sarà trovato solo dove i pascoli sono erbosi e i ruscelli cristallini. La Sposa non si fida dei compagni dello Sposo che, a volte per incuranza o incapacità, conducono il gregge per luoghi aridi e pieni di rocce. Guai a noi pastori, compagni del Supremo Pastore, se lasciamo vagare la sua Sposa perché nella tenda che abbiamo fatto lo Sposo non si trova.

Permettetemi un’ultima parola per esprimere l’apprezzamento del Papa per tutto quanto state facendo per affrontare la sfida della nostra epoca rappresentata dalle migrazioni. Sono milioni i figli della Chiesa che oggi vivono nella diaspora o in transito peregrinando verso il nord in cerca di nuove opportunità. Molti di loro lasciano alle spalle le proprie radici per avventurarsi, anche nella clandestinità che implica ogni tipo di rischio, alla ricerca della “luce verde” che considerano come loro speranza. Tante famiglie si dividono; e non sempre l’integrazione nella presunta “terra promessa” è così facile come si pensa.

Fratelli, i vostri cuori siano capaci di seguirli e raggiungerli al di là delle frontiere. Rafforzate la comunione con i vostri fratelli dell’episcopato statunitense affinché la presenza materna della Chiesa mantenga vive le radici della loro fede, della fede di quel popolo, le ragioni della loro speranza e la forza della loro carità. Non succeda ad essi che appendendo le loro cetre, ammutolisca la loro gioia, dimenticandosi di Gerusalemme e trasformandosi in “esiliati di sé stessi” (cfr Sal 136/137). Testimoniate uniti che la Chiesa è custode di una visione unitaria dell’uomo e non può accettare che sia ridotto a mera “risorsa umana”.

Non sarà vana la premura delle vostre diocesi nel versare il poco balsamo che possiedono sui piedi feriti di quanti attraversano i loro territori e di spendere per loro il denaro duramente raccolto; il Samaritano divino alla fine arricchirà chi non è passato indifferente davanti a Lui quando stava per terra lungo la strada (cfr Lc 10,25-37).

Cari fratelli,

il Papa è sicuro che il Messico e la sua Chiesa arriveranno in tempo all’appuntamento con sé stessi, con la storia, con Dio. Talvolta qualche pietra sulla strada rallenta la marcia e la fatica del tragitto richiederà qualche sosta, ma mai al punto da far perdere la meta. Infatti, può forse arrivare tardi chi ha una Madre che lo aspetta? Chi continuamente può sentire risuonare nel proprio cuore: “Non ci sono qui io, io, che sono tua Madre?”. Grazie.


© Copyright - Libreria Editrice Vaticana

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