Il significato della sofferenza nella prospettiva evangelica

Riportiamo un articolo di Gino Concetti del 17 luglio 2002 uscito su L’Osservatore Romano, in occasione della presentazione del volume che riporta tutti gli interventi al Convegno su “Il significato del dolore nell’insegnamento del beato Josemaría Escrivá”, tenutosi a Roma in occasione del Centenario del Beato Josemaría Escrivá.

Il dolore, la sofferenza fisica è una componente indissolubilmente congiunta alla natura umana; dalle origini, ne ha accompagnato lo sviluppo fino ad oggi e così continuerà nel futuro. Ma mentre in passato gli interrogativi «filosofici» vertevano sulla «ragione», sul perché della sofferenza nell’uomo e nel mondo, nel corso della seconda metà del secolo ventesimo si è acuita una «insofferenza» alla sofferenza, quasi a volerla espellerla ad ogni costo e costi quale costi.

E così sono sorte le diverse teorie che hanno tentato di «privilegiare» la libertà della persona umana, la sua autonomia decisionale.

Il più grave e aberrante risultato è che di fronte all’impossibilità, alla incapacità dell’uomo «tecnologico» di vincere o almeno neutralizzare la sofferenza, il dolore si è giunti, da parte di alcune correnti radicali a sposare l’autodeterminazione di legittimare la morte come decisione sovrana dell’individuo. L’eutanasia è uno dei punti forti di questa cultura.

In un precedente passato non pochi colpiti da sofferenza inguaribile assumevano un atteggiamento di ribellione a Dio che -secondo loro - puniva anziché agire come un padre buono, come un premuroso samaritano. Questa «tendenza» è stata sottolineata dal Concilio Vaticano II che nella Gaudium et spes, recensiva il dolore invincibile e insopportabile come una delle cause dell’ateismo contemporaneo.

In seguito è stato compiuto un ulteriore passo in avanti sulla via della secolarizzazione e della razionalizzazione. Il «laico», l’«ateo» non si ribella a Dio in cui non crede, ma in coerenza con la sua ragione, priva dì luce trascendente, ha optato per «governare» egli stesso la sofferenza come punto terminale o epilogo della vita dell’individuo. Il darsi la morte o chiedere che venga procurata da altri è stato rivendicato come uno dei diritti di libertà dell’ultima generazione. In pubblicazioni recenti il fronte della «dolce morte» ha accresciuto la sua consistenza e la sua «legittimazione» sul piano del diritto «positivo». Mentre la Chiesa, in tutti i suoi atti magisteriali, ha ripetuto e ripete che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana.

In questo contesto di contrapposizione radicale tra vita-dolore-mezzo di santificazione e di salvezza e dolore-morte come liberazione totale e definitiva ottenuta su richiesta, in modo violento, è da credere che non siano stati senza segni profetici i progetti di quei santi che hanno voluto la costruzione di «santuari della vita».

La mente corre subito alla «Casa sollievo della sofferenza» di Padre Pio da Pietrelcina e alle strutture sanitarie volute dal beato Josemaría Escrivá di cui sarà celebrato prossimamente il rito di canonizzazione.

I «santuari» della vita non eliminano la sofferenza, la mitigano e ne combattono le conseguenze con mezzi scientifici. Ma la loro finalità è altamente umanitaria e s’inserisce nella dinamica della missione affidata da Gesù ai suoi discepoli: di guarire gli ammalati e di curare gli infermi. La sofferenza, che fa parte della natura umana, diventa disumana solo se la si considera un atto punitivo di Dio.

Non è questo l’insegnamento di Gesù. Lo ha ribadito con forza e con la massima autorità Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Salvifici doloris dell’11 febbraio 1984. «Il Vangelo della sofferenza - scrive il Papa - significa non solo la presenza della sofferenza nel Vangelo, come uno dei temi della Buona Novella, ma la rivelazione, altresì, della forza salvifica e del significato della sofferenza nella missione messianica di Cristo e, in seguito, nella missione e nella vocazione della Chiesa. Cristo non nasconde ai propri ascoltatori la necessità della sofferenza». Ha profetizzato che la sofferenza, la persecuzione avrebbero contraddistinto la missione del discepolo impegnato nella testimonianza e nella diffusione del Vangelo.

Riconducendo la sofferenza nella prospettiva evangelica, non significa che chi vive e agisce al di fuori di tale prospettiva, possa presumere di porre fine alla sofferenza ponendo fine alla propria vita minata da male incurabile e da dolori insopportabili.

Tutta la vasta tematica connessa alla sofferenza e alla terapia del dolore è stata oggetto di un approfondito dibattito, promosso dall’Università Campus Bio-Medico per onorare la memoria del Fondatore dell’Opus Dei, il beato Josemaría Escrivá, in occasione del primo centenario della nascita: Il significato del dolore nell’insegnamento del beato Josemaría Escrivá (Roma 2001, Edizioni Universitarie dell’associazione RUI 2002). Edizione curata da Isabella Ceccarini, Stefano Grossi Gondi, Paola Raschielli.

Complessivamente 26 sono i contributi raccolti nell’interessante volume, diviso in quattro parti: l’incontro con il dolore, i giovani e il dolore, la cultura e il dolore, testimonianze.

Gli interventi sono preceduti dalla presentazione dell’attuale Rettore dell’Università, Vincenzo Lorenzelli e da una relazione introduttiva di Paola Binetti. Il Rettore sottolinea il ruolo specifico dell’Università nel consesso delle facoltà di medicina oggi esistenti. «Noi — scrive - non ci proponiamo come una nuova università, ma come una università nuova dotata di una mission ed è su questa mission che vogliamo perseguire il nostro lavoro di didattica, di ricerca e di assistenza». Rilevandone la prerogativa, il rettore specifica: «Quello che caratterizza il nostro modo di fare formazione è proprio l’attenzione alla persona nella sua interezza, affinché chi assiste non dimentichi mai di aver davanti un essere umano che soffre, prima che un malato dal punto di vista organico».

Paola Binetti - nel suo acuto saggio - osserva che il dolore «per poter essere accettato richiede prima di tutto un’attribuzione di significati, possibile solo quando sul piano relazionale scatta una condivisione di valori e di affetti. Diventa così il punto nevralgico di un crocevia in cui si incontrano tutti gli aspetti della formazione, da quelli prevalentemente scientifico-culturali a quelli relazionali e valoriali. Il dolore lo si comprende solo quando si è disposti a lasciarsi coinvolgere dalla sofferenza dell’altro, rinunciando al distacco puramente razionale di chi contempla un evento e accettando di condividerne, almeno in parte, il costo umano».

È il «carisma» del beato Josemaría Escrivá, il quale constata che mai potrà scomparire il dolore dalla scena umana, scrive: «Davanti a queste amarezze, solamente il cristiano possiede una risposta autentica, una risposta definitiva, ed è questa: “Cristo Crocifisso, Dio che soffre e che muore, Dio che dona il suo Cuore aperto da una lancia come pegno d’amore per tutti... Dio nostro Signore non causa il dolore delle creature, ma lo tollera, perché dal peccato originale in poi il dolore è parte della condizione umana. Tuttavia il suo Cuore, pieno d’amore per gli uomini, lo ha portato a prendere su di sé, con la croce, tutte le pene umane: la nostra sofferenza, la nostra tristezza, la nostra angoscia, la fame e la sete di giustizia”».

Nel Cristo - sorgente di salvezza e di grazia - tutto l’uomo è stato redento, e tutti gli uomini, in ogni elemento, e di ogni condizione. La potenza della sua resurrezione ha distrutto il peccato e ha ridato a tutti e a ciascuno la vita «finalmente liberata dalla corruzione della morte».

In questa prospettiva la sanità è il luogo «terapeutico» della guarigione, e il servizio medico è la diaconia», il «ministero» di Cristo buon samaritano.

L’Osservatore Romano // Gino Concetti