Il debito dell'Opus Dei con Giovanni Paolo II

Venticinque anni di pontificato visti da monsignor Javier Echevarría, successore di san Josemaría Escrivá: «L'attività del papa è così ampia e la sua figura così significativa a tutti i livelli, da scavalcare già di per sé qualsiasi altro tipo di giudizio». Intervista concessa a “Il Secolo XIX” il 22 giugno 2003.

Elevato agli onori dell'altare il 6 ottobre dell'anno scorso, il 26 giugno si celebra la festa canonica dedicata a san Josemaría Escrivá, Fondatore dell'Opus Dei. Un santo dei nostri giorni, che ha voluto l'Opera come traccia di un cammino per dare senso e dignità al lavoro e alla vita quotidiana.

Il suo successore, monsignor Javier Echevarría, coordina la presenza e l'attività dell'Opera in tutti i Paesi del mondo. Un "padre e madre" per centinaia di migliaia di credenti impegnati a percorrere quel cammino di quotidiana santificazione. Un uomo vicino al Papa, dentro la Chiesa, monsignor Echevarría è un testimone privilegiato di questi venticinque anni di pontificato di Giovanni Paolo II, delle sfide della Chiesa per la pace e la dignità dell'uomo, per la salvaguardia delle radici e della cultura cristiane.

Venticinque anni di pontificato sono venticinque anni della storia del mondo. Che giudizio dà della missione del Papa?

«L'attività del papa è così ampia e la sua figura così significativa a tutti i livelli, da scavalcare già di per sé qualsiasi altro tipo di giudizio. Giovanni Paolo II rappresenta qualcosa di unico nell'attuale momento storico. La sua autorità morale è universalmente riconosciuta, il suo prestigio è immenso e nessuno può nemmeno far finta di ignorare i suoi interventi a favore della dignità della persona umana, del rispetto della vita, della pace, delle popolazioni povere del pianeta. Egli ha di nuovo mostrato con i fatti, come i suoi predecessori, che il Papa è davvero "il servo dei servi di Dio", instancabile difensore della verità, avvocato di tutti gli uomini e di tutte le donne, nella cui dignità crede con tutte le sue forze. In realtà, in tutto questo è in gioco qualcosa di più grande del solo prestigio della persona. In questi venticinque anni Giovanni Paolo II ha reso Cristo presente nel nostro tempo, ha portato l'umanità a cercare in Gesù le risposte alle domande di fondo sul senso dell'esistenza umana. Ecco la motivazione ultima della sua autorevolezza».

Ma in realtà sembra sempre inascoltato. Perché?

«Certi interventi del papa sono in netto contrasto con la mentalità e la cultura dominanti e possono dunque sembrare inattuali, per quanto doverosi. Necessari ma destinati a soccombere. Tale apparente inattualità non è sinonimo di irrilevanza. I maestri non si lasciano mai ingabbiare dai tempi. Questi interventi vanno recepiti non secondo un'ottica di parte, ma come atti di esercizio del magistero. Indicano una direzione da seguire: difficile per tutti, ma storicamente ineluttabile se vogliamo davvero la salvezza della nostra civiltà. Propongono valori sui quali ogni discussione va superata: la promozione della pace, la difesa della vita, l'affermazione della giustizia, l'offerta e la richiesta di perdono. Qui sta la difficoltà: nella necessità di non scegliere l'uno per lasciar perdere l'altro. Il bene è indivisibile».

L'Opus Dei deve molto a questo Papa?

«Il messaggio diffuso da san Josemaría fin dal 1928, poi confermato dal Concilio Vaticano II, è reso particolarmente attraente dalla riscoperta della straordinaria bellezza della santità cristiana, un ideale da ricercare e praticare in tutti i momenti: quelli sereni e quelli segnati dai problemi e dal dolore. Un ideale che è alla portata di ognuno di noi. La vita ordinaria può sembrare a volte banale. Ma se cerchiamo Cristo, il quotidiano si trasforma in cammino verso Dio e verso la felicità. Provo gratitudine verso tutti i Papi perché tutti, da Pio XII a oggi, hanno dimostrato un grande affetto per l'Opus Dei. Siamo particolarmente grati a Giovanni Paolo II perché durante il suo pontificato hanno avuto luogo diversi eventi di speciale importanza per l'Opera, come ad esempio la canonizzazione di san Josemaría».

In che modo l'Opus Dei accompagna l'impegno del Papa? Ad esempio, sulla Costituzione europea e sul riconoscimento delle radici cristiane dell'Europa il Papa ha alzato la voce. Qual è l'impegno dell'Opera in questo senso?

«Il compito e l'impegno della Prelatura dell'Opus Dei è quello di fornire formazione cristiana ai propri fedeli e a quanti altri lo desiderano e lo chiedono. Una formazione spirituale coerente suscita la responsabilità personale, il desiderio di offrire il proprio contributo alla costruzione di una società più umana e cristiana. Ignorare le radici cristiane dell'Europa equivarrebbe a negarne la realtà e la storia: è quanto ha fatto presente la Commissione degli episcopati dell'Unione Europea. In questo suo operare la Chiesa non insegue privilegi; al contrario, tenta di mettersi sempre in una dinamica di servizio e di apertura. Si tratta di rispettare la realtà, senza piegarsi a pregiudizi anticlericali che appartengono al passato. La culla dell'Europa è il cristianesimo. In questo contesto, l'Opera sottolinea l'idea della responsabilità personale di ciascuno, in particolare di ogni cittadino cristiano, di contribuire all'evangelizzazione della cultura con il proprio lavoro, con spirito di iniziativa, sapendo andare controcorrente se necessario. E aprendo la strada alle nuove generazioni».

Ma sembra che la Chiesa voglia egemonizzare l'Europa politica...

«Accanto al valore della libertà, va ricordato anche quello del pluralismo. Nessuno pensi che i cattolici stiano promuovendo un "modello unico" per l'Europa, né sul versante culturale né su quello politico. All'interno del Vecchio continente convivono culture molto diverse tra loro, pur con comuni radici cristiane, che nessuno vuole uniformare. Rispetto verso la realtà e verso la storia, dunque, in un clima di libertà e pluralismo».

Il valore della libertà comunica quello della pace. Si potrà mai vivere in pace in Palestina?

«In Terra Santa si combatte per una terra... Questa è la verità. Si combatte per una questione di giustizia. Tra palestinesi e israeliani ci sono uomini e donne capaci di convivere fraternamente. La pace è una benedizione del cielo che ha bisogno sulla terra di uomini e donne di buona volontà. Occorre costruire la pace. La pace è un lavoro. La pace autentica, inseparabile dalla giustizia, scaturisce da una cordiale comprensione tra le persone. E questo richiede la disposizione a comprendere e a perdonare, oltre all'impegno a conoscersi e a stimarsi. San Josemaría non si stancava di ripetere che solo dalla pace nelle coscienze può nascere la pace nei popoli e tra i popoli. E aggiungeva che la violenza non serve mai né a vincere né a convincere. Chi la usa ne esce sempre sconfitto».

Troppo spesso le guerre nascono a causa di grandi povertà, come avviene in Africa. Proprio l'Africa ha bisogno d'aiuto. L'Opus Dei si è impegnata a favore delle situazioni più povere dell'Africa?

«Quando il Papa, l'anno scorso, rese pubblica la volontà di canonizzare san Josemaría, fu costituito un comitato organizzatore che, fra l'altro, promosse la costituzione di un fondo di solidarietà per l'Africa attraverso i contributi dei partecipanti alla canonizzazione. Così nacque il Progetto Harambee 2002. Alla costituzione del fondo hanno partecipato fino ad ora anche vari enti ed istituzioni, oltre a più di centomila persone, la maggior parte con piccoli contributi. I fondi raccolti serviranno a sostenere diciotto progetti educativi nell'Africa subsahariana. Fra questi vi è un centro per il reinserimento sociale di bambini costretti a combattere nella guerra civile della Sierra Leone. E' solo una goccia in un mare di necessità. Ma il Progetto Harambee 2002 è servito per canalizzare, nel momento della canonizzazione, la naturale gioia di chi ha ricevuto molte grazie attraverso san Josemaría, nel desiderio di ricordare coloro che si trovano in difficoltà. Perché la vita è fatta di questo: gioia e dolore, salute e malattia, forza e debolezza. Vivremo sempre tra luci e ombre. L'importante è mettere la vita al servizio degli altri».

Paolo Cavallo // Il Secolo XIX