Nella mia vita l’Opera c’è sempre stata: per me è sempre stata una cosa normale. Durante l’adolescenza rifiutavo questa normalità: al lavoro fatto ogni giorno per amore preferivo le rivoluzioni che puntavano a mettere tutto a “ferro e fuoco”. Mi interessava di più chi voleva essere Che Guevara che san Josemaría.
Pensavo che i miei genitori, entrambi soprannumerari, fossero i tipici “borghesi”. Non mi sembrava possibile che si potesse essere benestanti e cristiani radicali allo stesso tempo. Percepivo lontanissimi il loro modo di vestire o il fatto che ogni due settimane mio padre andasse dal barbiere.
La Nave della legalità
La mia visione del mondo è cambiata grazie a un viaggio che mi ha regalato la scuola sulla “Nave della legalità”, che ogni anno, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, riunisce simbolicamente a Palermo tutte le scuole per sostenere i valori per cui sono morti i giudici Falcone, Borsellino e tutte le vittime della mafia.

Il mio liceo aveva selezionato i migliori studenti, che avrebbero partecipato a questa iniziativa: uno di loro si ammalò il giorno prima, e quasi per caso venni scelta io. Quindi c’erano i migliori della mia scuola, più la sottoscritta.
Scoprire la vita di professionisti normali, come Paolo Borsellino, che aveva fatto giurisprudenza, e che avevano avuto il coraggio di fare il loro dovere fino alla fine e nonostante il pericolo, mi regalò un nuovo scenario per le vicende della mia vita.
Una volta tornata da quel viaggio, realizzai che i miei genitori così “imborghesiti” non erano: si svegliavano presto per avere tempo per pregare, lavorare bene e incontrare i propri amici dedicando a ognuno il tempo necessario. Non era da tutti…

Dopo questa nuova scoperta, iniziai a domandarmi quale fosse la mia vocazione, esclusa la via della rivoluzione politica. Considerai di diventare suora missionaria della carità, l’ordine di santa Teresa di Calcutta, ma una mia amica mi fece notare che non avrei potuto possedere la macchina fotografica, che è il mio modo di vivere il mondo. Con un’amica d'infanzia, mentre eravamo per turismo in un convento di clausura, scherzai dicendo che sarebbe stato bello rimanere lì. Ma lei, non-credente convinta, mi fece notare che così non avrei potuto parlare di Dio con gli altri in giro.
Fedeli alla terra
Dopo almeno quattordici anni di riflessioni, decisi di chiedere l’ammissione all’Opus Dei come soprannumeraria. Durante gli studi del dottorato c’era una frase di un’opera di Nietzsche che continuava a riecheggiare nel mio cuore: “Restate fedeli alla terra, fratelli miei, con tutta la forza della vostra virtù!” Questo mi sembrava il vero manifesto da seguire: per me la terra è casa, da servire con l’amore di Dio nel quotidiano.

Mentre approfondivo il messaggio di san Josemaría, in quei mesi rimasi colpita da José Escrivá, il padre di san Josemaría, come modello di uomo e lavoratore. Quando un suo ex collega non mantenne la parola data, causando il fallimento della sua attività, José preferì rischiare la rovina economica piuttosto che mettere a repentaglio altre persone con il fallimento della società, saldando di tasca propria tutti i debiti e gli stipendi dei collaboratori. Di lui il fondatore dell’Opus Dei ricordava:
“Vidi un coraggio che fu per me una scuola, perché poi ho sentito tante volte che mi veniva a mancare la terra sotto i piedi e che mi cadeva il cielo addosso (…). Mio padre è morto esausto. Aveva sempre il sorriso sulle labbra ed era di una simpatia particolare”.
Oggi mi pare sempre più chiaro che ciò che rende felici è proprio dare la vita per quello che si ama, giorno per giorno.

Nella preghiera chiesi proprio a José Escrivá di incontrare un uomo simile a lui: l’ho trovato, e, ironia della sorte, proprio di nome José. Presto ci siamo sposati e due anni fa è nato Giuseppe, di cui al momento non sappiamo ancora ogni quanto tempo… vorrà andare dal barbiere!