Commento al Vangelo: 29 aprile, Santa Caterina da Siena

Vangelo e commento del 29 aprile, festa di Santa Caterina da Siena, Vergine e Dottore della Chiesa, patrona d'Italia e d'Europa.

Vangelo (Mt 11,25-30)

In quel tempo Gesù disse:

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Parola del Signore.


Commento

Tra i diversi santi c’è una spettacolare sintonia, e non c’è da stupirsene, perché la santità è comunione con il Dio tre volte Santo, fonte di ogni santità. In santa Caterina da Siena e in san Josemaría Escrivá non è difficile notare — nel contesto delle diversità di epoca, nazionalità, fattori culturali, vocazione specifica — una straordinaria sintonia, che indusse nel 1964 il Fondatore a nominare la Santa senese intercessore dell’Opus Dei per l’apostolato dell’opinione pubblica, ovvero le iniziative e le azioni che i fedeli dell'Opus Dei compiono nel campo della comunicazione, a qualsiasi livello. Oggi, 29 aprile, nel nostro Paese festeggiamo santa Caterina come compatrona d’Italia, e dal 1999, per decreto di san Giovanni Paolo II, anche l’Europa la festeggia come propria compatrona.

Il Vangelo proprio della festa (Mt 11,25-30) è composto da due parti. Nella prima (vv. 25-27) l’evangelista Matteo ci apre uno squarcio sulla preghiera di Gesù, e in specifico sulla sua preghiera “di lode” (o “di ringraziamento”), una forma di preghiera che forse trascuriamo rispetto a quella di richiesta. La lode e la gratitudine del Figlio di Dio, fattosi per noi e come noi Figlio dell’Uomo, è indirizzata al Padre, Signore «del cielo e della terra» (espressione biblica che sta a indicare la totalità della creazione), a motivo della rivelazione della conoscenza del mistero di Dio e del mondo donata all’umanità, tramite il Vangelo del suo Cristo.

Questa rivelazione non privilegia «sapienti» e «dotti» (cioè individui intellettualmente superdotati); anzi più espressivamente Gesù dice che questa conoscenza viene loro «nascosta». Primi ricettori della rivelazione cristiana sono invece «i piccoli». L’originale greco, «nepioi» (bambini di tre o quattro anni, poco più che infanti), allude metaforicamente a quanti «ritornano a essere bambini», perché solo essi entreranno nel Regno dei Cieli (cf. Mt 18,3). E nel seguito di questa sua preghiera di lode, Gesù ribadisce solennemente la predilezione divina per i piccoli, attribuendola alla paterna «benevolenza» (eudokia): «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza». Destinatari di tale benevolenza sono «uomini e le donne amati dal Signore» (anthropois eudokias, Lc 2,14), quelli cioè che, come i santi, hanno saputo svuotarsi della propria presunzione per essere gratificati dal dono di Dio, hanno saputo svuotarsi di tutto per ricevere il tutto della Rivelazione divina: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». Se dunque vogliamo accogliere il dono di Dio con frutto, facciamoci piccoli! E, se vogliamo, facciamo nostra quella litania dell’umiltà: «Non valgo nulla, non posso nulla, non ho nulla, non sono nulla…» (San Josemaría, Via Crucis, XIII stazione, 5). Lungi dal menomare la nostra autostima, questa pratica ci restituirà speranza in quei momenti in cui sentiamo tutta la nostra piccolezza di fronte alle sfide quotidiane, ci unirà alla preghiera della Vergine Maria («Ha posto gli occhi sulla pochezza della sua serva», Lc 1,48), e ci otterrà le grazie di cui abbiamo di volta in volta bisogno.

Nella seconda parte del Vangelo odierno (vv 28-30) Gesù si rivolge a tutti quelli che si riconoscono «stanchi e oppressi» e bisognosi di «ristoro». Le espressioni dell’originale sono particolarmente precise. «Stanchi» non si riferisce a chi nel lavoro ha esaurito le proprie forze, ma a chi sta faticando qui e adesso, “in atto”; infatti il participio presente greco kopiontes indica con precisione chi sta “lavorando intensamente”, “sgobbando”. Così pure «oppressi» significa letteralmente «sovraccarichi di pesi».

Gesù c’invita a recarci da lui, non quando “non ne possiamo più” dalla fatica, ma nel bel mezzo del nostro lavoro, c’invita a condividere con Lui le nostre fatiche: «Prendete il mio giogo sopra di voi […]. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». In santi come Caterina da Siena vediamo come la vita contemplativa e quella attiva non siano momenti a sé stanti, ma dimensioni vitalmente comunicanti. E ciò ancora una volta corrisponde all’insegnamento di san Josemaría, come espresso per esempio in questi passi di Solco: «Ricordo la tua gioia nel sentirmi dire che tra orazione e lavoro non ci deve essere soluzione di continuità» (471). «Pertanto, non mi stanco di ripetere che dobbiamo essere anime contemplative in mezzo al mondo, che cercano di trasformare il loro lavoro in orazione» (497). La santa senese morì ad appena trentatré anni, dopo aver consumato la propria vita terrena in preghiere, penitenze e iniziative per l’edificazione e l’unità della Chiesa. Il santo aragonese lasciò questo mondo a settantatré anni, facendo proprio quanto aveva sempre desiderato per sé e per i suoi figli: «[Accogliere] con gioia il dovere di lavorare in questo mondo, e per molti anni, perché Gesù ha pochi amici sulla terra. Non ricusiamo il dovere di vivere, di spenderci — spremuti ben bene — al servizio di Dio e della Chiesa» (Amici di Dio, 297). E proprio nel bel mezzo di quest’impegno, di questo compimento del dovere, imparando da Gesù «mite e umile di cuore», troviamo costantemente in Lui quel «ristoro» (anapausis, ricarica), che non ci lascia mai con le batterie scariche, ma carichi di desideri e di energie, per cambiare in meglio — appassionatamente — questo mondo, e renderci degni della vita eterna.

Domenico Saretto