La luce della fede (XIII): L’altra parte della storia: morte e risurrezione

Che cosa hanno a che vedere la morte e la risurrezione di Cristo con la pienezza di vita che tanto desideriamo? La morte è l’unico limite al progresso? Perché è tanto decisiva la risurrezione di Gesù? In che cosa consistono il cielo nuovo e la terra nuova?

Forse abbiamo visto un film, letto un libro o anche giocato con un video-gioco in cui appare l’elisir di lunga vita. Con questa espressione, coniata alcuni secoli fa, si cercava di descrivere la ricerca da parte degli alchimisti di un medicamento, chiamato anche “panacea”, che permettesse all’essere umano di vivere per sempre. Ai nostri giorni esiste una corrente di pensiero – chiamata transumanesimo – che costituisce una versione aggiornata di questa aspirazione ed è caratterizzata dal perseguimento dei tre grandi obiettivi che permetterebbero la comparsa di una umanità perfetta: la super longevità, la super conoscenza e il super benessere; in altre parole, la ricerca della pienezza di vita.

Progresso o morte: limite o punto di partenza?

Perché dopo tanti secoli di progresso inseguiamo ancora alcuni obiettivi che continuano a non essere raggiunti? È evidente che l’uomo è un essere insoddisfatto. È colui che, pur avendo raggiunto un livello di vita e di felicità che si può considerare soddisfacente, non si sente mai del tutto soddisfatto: vuole conoscere sempre di più, vivere sempre meglio e farlo per sempre. Grazie allo sviluppo scientifico e tecnologico, le conoscenze si sono ampliate notevolmente, come anche la possibilità di evitare il dolore o di combatterlo. Tuttavia, prima o poi, l’esistenza terrena s’imbatte in un ostacolo che finora nessun essere umano è riuscito a oltrepassare: la morte.

Perché dopo tanti secoli di progresso inseguiamo ancora alcuni obiettivi che continuano a non essere raggiunti?

Essa ci appare come una cosa profondamente ingiusta, qualcosa che non dovrebbe mai accadere. Eppure, se c’è una cosa sicura in questa vita, è che un giorno moriremo. Il nostro essere tende a una perfezione che viene troncata con la morte. Per questo i popoli di ogni tempo e cultura hanno elaborato alcuni modi di affrontare tutto ciò che trascende questa vita, sviluppando il senso religioso che è ancorato alla natura umana. I modi di rappresentarsi l’esistenza di un aldilà sono molto diversi nel panorama religioso dell’umanità, e testimoniano il desiderio umano di infinito; ma nessuno di essi riesce a dimostrare di essere l’unico realmente vero.

In questo ampio orizzonte, il cristianesimo irrompe con una forza inusitata: afferma esserci stato un uomo che ha superato la morte come limite; che, una volta vinta la morte, ha ottenuto una vita che dura per sempre. Quest’uomo è Gesù Cristo. Ma non basta: afferma pure che Gesù ha promesso, a coloro che vivano di lui e seguano il suo esempio, il potere di partecipare a una nuova esistenza che vince la morte.

Quando muore una persona amata, spesso si sentono pronunciare frasi come questa: «la sua scomparsa costituisce una perdita». La morte di un essere umano è ingiusta, perché ognuno è un essere irripetibile, e pertanto la sua scomparsa dal mondo comporta un autentico impoverimento. Se è così per noi, si può dire che la morte di Cristo fu l’avvenimento più ingiusto della storia, perché la sua vita, quale è arrivata sino a noi secondo le testimonianze dell’epoca, mostra una esemplarità fuori dal comune, che è stata riconosciuta anche da quanti hanno del cristianesimo un’opinione negativa.

Ritornare alle radici

Alcuni testi letterari descrivono questa ricerca umana come il tentativo di ritornare a un paradiso perduto, come suggerisce il titolo della famosa opera di John Milton. Con ciò fanno riferimento a diverse tradizioni che parlano di una idilliaca epoca iniziale dell’umanità, che fu troncata da una vicenda che fece perdere all’uomo l’ immortalità e la bontà. La storia di alcuni personaggi della mitologia greca, come per esempio Achille, suggerisce che l’uomo, per essere se stesso e non un elemento indifferenziato nel mondo divino, deve pagare un prezzo: l’accettazione della propria mortalità.

Nel pensiero illuminista appare spesso il concetto che l’essere umano, per poter essere se stesso, ha bisogno di emanciparsi dalla sua origine, dalla sua dipendenza da Dio o da un ambiente familiare che fino allora lo ha protetto. Arrangiarsi da solo vuol dire perdere la paura di affrontare la morte. Le promesse di vita dopo la morte sarebbero, dunque, un ritorno alle origini felici. Si ricordi che alcuni classici della letteratura delle più diverse epoche, dall’Odissea sino al Signore degli anelli, sono impostate sul ritorno dell’eroe a casa.

la storia primordiale non si conclude così, in modo tragico, ma che Dio stesso si preoccupa degli
esseri umani.

Si parlava prima della ricerca di una esistenza permanente, di un benessere e di una conoscenza supremi. Ebbene, in realtà la fede cristiana dice che esattamente questo era ciò che l’essere umano possedeva nelle sue origini remote, quando fu creato da Dio in uno stato di innocenza, che la dottrina della Chiesa chiama «giustizia originale»[1]: oltre che dell’amicizia con Dio, l’uomo godeva dei doni di integrità, conoscenza, impassibilità e immortalità.

Fu il peccato, la disobbedienza a Dio (cfr. Gn 3, 6), ciò che provocò l’espulsione dal paradiso, e per conseguenza la perdita dell’accesso all’albero della vita (cfr. Gn 3, 22-24). La Bibbia precisa immediatamente che la storia primordiale non si conclude così, in modo tragico, ma che Dio stesso si preoccupa degli esseri umani coprendo la loro nudità con dei vestiti improvvisati (cfr. Gn 3, 21) e promettendo loro un futuro di redenzione (cfr. Gn 3, 15).

Infatti Gesù Cristo, che si presenta come «l’ultimo Adamo» (1 Cor 15, 45), nuovo inizio dell’umanità, rimanendo nello stesso tempo nella sua condizione divina, assume la condizione umana (cfr. Fil 2, 5-11), con i relativi effetti di mortalità, sofferenza ed esposizione alla tentazione, e realizza nella propria vita il progetto di Dio, in piena obbedienza al Padre fino alla donazione della propria vita.

Grazie a questo atto supremo di amore, vince la morte con la sua risurrezione, riaprendo le porte del paradiso agli uomini, che ora possono accedere nuovamente all’albero della vita - i sacramenti -, la cui sorgente e vertice è l’alimento eucaristico[2]. In Lui, in qualche modo, il Cielo di Dio, il Paradiso, si unisce alla terra che noi abitiamo, mentre aspettiamo la sua promessa manifestazione gloriosa alla fine dei tempi[3].

La risurrezione: il mistero di Dio nel mondo

La fede cristiana, pertanto, parla di un aldilà che si fa presente nel nostro aldiquà, di un Cielo che, essendo promessa di qualcosa di completamente nuovo, non assimilabile alle categorie spazio-temporali del nostro mondo, nello stesso tempo sarà qualcosa che risponde a un desiderio profondo radicato nella nostra natura. È vero che Gesù, dopo la sua risurrezione, è asceso ai cieli, da dove ritornerà; quegli stessi cieli che hanno accolto Maria, che fu concepita senza peccato e dunque partecipa in modo eminente del mistero di suo Figlio; però è anche vero che questi cieli non sono altro che il mistero di Dio che, mentre trascende questo mondo, rimane completamente al suo interno, a tal punto che, paradossalmente, ora Gesù è più vicino a noi di quando percorreva le strade della Palestina[4].

Questa speranza è credibile perché Gesù ha dato la sua vita.

Con la sua risurrezione e la sua promessa Gesù ha introdotto nel mondo della nostra esperienza, spesso negativa perché segnata dalle conseguenze del peccato nella nostra vita (ignoranza, dolore, morte…), una speranza nuova, reale, in quanto l’esistenza e la risurrezione di Gesù sono avvenute nella nostra storia e, nello stesso tempo, in qualche modo la superano, perché le danno accesso a ciò che sta al di là di essa, nell’altra parte della storia.

Questa speranza è credibile perché Gesù ha dato la sua vita, e non c’è nulla di più credibile a questo mondo che l’esempio, il quale, essendo esempio di santità – vale a dire, di carità –, è assolutamente incontestabile. «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Perciò, dagli inizi del cristianesimo ai giorni nostri, il martirio costituisce la più grande dimostrazione della credibilità e della veracità di una fede per la quale si è capaci di dare la vita.

In tal modo si comprende che la vita eterna promessa da Gesù, per un verso è già cominciata in questo mondo per colui che crede e, nello stesso tempo, riceverà una pienezza trasfigurante che non riusciamo ancora a sognare.

«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9). Se la immaginiamo in base alle categorie di questo mondo, potremmo essere invasi dal sospetto di una vita noiosa che consisterebbe in «un continuo susseguirsi di giorni del calendario»[5]. Però non si tratta di un duplicato di questa vita, ma piuttosto di un dono sorprendente per il quale vale la pena abbandonare la vita, perché amiamo e ci fidiamo di chi dice che ci farà felici: «Bene, servo buono e fedele [...]; prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25, 21.23).

Quando due persone elaborano un progetto comune di vita sanno che dedicarsi alla felicità dell’altro sarà ciò che li farà felici.

Quando due persone elaborano un progetto comune di vita, si assicurano l’un l’altro che saranno felici, non perché pensano che l’altra persona sarà un mezzo per raggiungere la felicità, ma perché dedicarsi alla felicità dell’altro sarà ciò che li farà felici. Non c’è dubbio che Dio è già felice in quanto comunione trinitaria di Persone; ma contemporaneamente vuole renderci partecipi della sua felicità della quale già questa esistenza terrena, vissuta con amore, è una anticipazione. Proprio per questo sant’Agostino diceva che «amando il prossimo pulisci l’occhio per vedere Dio»[6].

Un nuovo cielo e una nuova terra

Per vedere Dio occorre continuare a essere creature di anima e corpo e, pertanto, che vi sia una risurrezione finale in cui, essendo Dio creatore di tutto, anche la materia, l’universo e i nostri corpi, trasfigurati, possano partecipare della gloria divina, a cui di fatto già partecipa l’umanità di Cristo, che esiste per sempre in Dio.

Si tratta di una cosa molto importante per una corretta interpretazione delle implicazioni del cristianesimo nella società, nella storia e nella cultura: «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 21, 1) non saranno qualcosa di completamente differente, ma in un modo o nell’altro l’impegno nel costruire un mondo migliore accompagnerà l’uomo nell’eternità.

Pertanto, l’uomo è padre di se stesso[7], in quanto le sue decisioni lo configurano, e questo vuol dire che l’eternità si costruisce con il suo operare in questo mondo, perché le sue azioni lo modellano. Ecco perché risusciterà non soltanto un corpo in un senso puramente materiale, ma tutto il suo essere con il bagaglio di tutta la sua storia[8]. Ed ecco perché appare così appropriato l’invito a «vivere ogni istante con slancio di eternità»[9].

Guardando Cristo si può comprendere che è ragionevole la promessa della risurrezione.

Nessun’altra dottrina come quella della risurrezione suscitò nei primi secoli l’ironia dei pagani, come capitò a san Paolo: «ti sentiremo su questo un’altra volta», «la troppa scienza ti ha dato al cervello!» (At 17, 32; 26, 24). Eppure il dualismo tra materia e spirito, che caratterizzava la visione del mondo dei greci, non offriva prospettive di salvezza dalla dimensione materiale, considerata una fonte del male.

Neppure le teorie, antiche e nuove, che promettono una reincarnazione soddisfano perché, pur sembrando che diano valore alla necessità che la materia sia presente nel destino dell’uomo, non rispettano l’identità reale dell’uomo nell’indissolubile unione di corpo e anima.

Guardando Cristo si può comprendere che è ragionevole la promessa della risurrezione, sebbene non stia in potere dell’uomo raggiungerla, perché si tratta di un puro dono. Perciò il cristianesimo è una proposta sensata che, senza risolvere del tutto in questa vita gli enigmi che circondano l’esistenza, offre una speranza ragionevole di una vita imperitura, per la quale vale la pena seguire Gesù e dare la vita per Lui.

Santiago Sanz


[1] Cfr. San Giovanni Paolo II, Il peccato dell’uomo e lo stato di giustizia originale, Udienza generale, 3-IX-1986.

[2] Cfr. J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Assisi, Cittadella, 2008.

[3] Cfr. S. Hahn, La cena del Cordero. La Misa, el cielo en la tierra, Rialp, Madrid 2016.

[4] Cfr. J. Ratzinger / Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

[5] Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 30-XI-2007, n. 12.

[6] Sant’Agostino, In Evangelium Ioannis Tractatus, 17, 8.

[7] Cfr. San Gregorio di Nissa, De vita Moysis, 2, 3.

[8] Cfr. R. Guardini, Le cose ultime. La dottrina cristiana sulla morte, la purificazione dopo la morte, la resurrezione, il giudizio e l'eternità, Vita e Pensiero, 1997.

[9] San Josemaría, Amici di Dio, n. 239.

Letture raccomandate

Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 30-XI-2007.

R. Guardini, Le cose ultime. La dottrina cristiana sulla morte, la purificazione dopo la morte, la resurrezione, il giudizio e l'eternità, Vita e Pensiero, 1997.

J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Assisi, Cittadella, 2008.

P. O’Callaghan – J.J. Alviar, Breve y sencillo curso de escatología, in www.collationes.org, Roma 2013.