Indonesia - Papua Nuova Guinea - Timor Leste - Singapore
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Incontro con gli assisiti dalle realtà caricative
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Incontro con i Fedeli della Diocesi di Vanimo
Lunedì, 9 settembre 2024
Incontro con i giovani
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Martedì, 10 settembre 2024
Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate, i Seminaristi e i Catechisti
Santa Messa
Mercoledì, 11 settembre 2024
Incontro con i giovani
Giovedì, 12 settembre 2024
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Santa Messa
Venerdì, 13 settembre 2024
Incontro Interreligioso con i giovani
INDONESIA
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Signor Presidente,
distinte Autorità,
eminentissimi Signori Cardinali,
Signori Vescovi,
illustri Rappresentanti delle comunità religiose, delle diverse religioni,
illustri Rappresentanti della società civile,
Membri del Corpo Diplomatico!
Ringrazio cordialmente Lei, Signor Presidente, per il gradito invito a visitare il Paese e per le sue gentili parole di saluto. Rivolgo al Presidente eletto il mio più sentito augurio per un fruttuoso lavoro al servizio dell’Indonesia, immenso arcipelago di migliaia e migliaia di isole bagnate dal mare che collega l’Asia all’Oceania.
Si potrebbe quasi affermare che, come l’oceano è l’elemento naturale che unisce tutte le isole indonesiane, così il mutuo rispetto per le specifiche caratteristiche culturali, etniche, linguistiche e religiose di tutti i gruppi umani di cui si compone l’Indonesia è il tessuto connettivo indispensabile a rendere unito e fiero il popolo indonesiano.
Il vostro motto nazionale “Bhinneka tunggal ika” (“Uniti nelle diversità”, letteralmente “Molti, ma uno”) manifesta bene questa realtà multiforme di popoli diversi saldamente uniti in una sola Nazione. E inoltre mostra che, come la grande biodiversità presente in questo arcipelago è fonte di ricchezza e splendore, analogamente le differenze specifiche contribuiscono a formare un magnifico mosaico, nel quale ogni tessera è insostituibile elemento per comporre una grande opera originale e preziosa. E questo è il vostro tesoro, è la vostra ricchezza più grande.
L’armonia nel rispetto delle diversità si raggiunge quando ogni visione particolare tiene conto delle necessità comuni e quando ogni gruppo etnico e confessione religiosa agiscono in spirito di fraternità, perseguendo il nobile fine di servire il bene di tutti. La consapevolezza di partecipare a una storia condivisa, nella quale ciascuno porta il proprio contributo e dove è fondamentale la solidarietà di ogni parte verso il tutto, aiuta a individuare le giuste soluzioni, a evitare l’esasperazione dei contrasti e a trasformare la contrapposizione in fattiva collaborazione.
Questo saggio e delicato equilibrio, tra la molteplicità delle culture e delle differenti visioni ideologiche e le ragioni che cementano l’unità, va continuamente difeso da ogni sbilanciamento. Si tratta di un lavoro artigianale, ripeto, un lavoro artigianale affidato a tutti, ma in maniera speciale all’azione svolta dalla politica, quando essa si pone come obiettivo l’armonia, l’equità, il rispetto dei diritti fondamentali dell’essere umano, uno sviluppo sostenibile, la solidarietà e il perseguimento della pace, sia all’interno della società sia con gli altri popoli e Nazioni. E da qui la grandezza della politica. Diceva un saggio che la politica è la forma più alta della carità. È bello questo.
Per favorire una pacifica e costruttiva armonia, che assicuri la pace e unisca le forze per sconfiggere gli squilibri e le sacche di miseria, che ancora persistono in alcune zone, la Chiesa desidera incrementare il dialogo interreligioso. Si potranno eliminare in questo modo i pregiudizi e far crescere un clima di rispetto e di fiducia reciproca, indispensabile per affrontare le sfide comuni, tra le quali quella di contrastare l’estremismo e l’intolleranza, i quali – distorcendo la religione – tentano di imporsi servendosi dell’inganno e della violenza. Invece la vicinanza, l’ascoltare l’opinione degli altri, questo crea la fratellanza di una Nazione. E questa è una cosa molto bella, molto bella.
La Chiesa Cattolica si pone al servizio del bene comune e desidera rafforzare la collaborazione con le istituzioni pubbliche e altri soggetti della società civile, ma mai facendo proselitismo, mai; rispetta la fede di ogni persona. E con questo, incoraggia la formazione di un tessuto sociale più equilibrato e per assicurare una distribuzione più efficiente ed equa dell’assistenza sociale.
Permettetemi di fare ora un riferimento al Preambolo della vostra Costituzione del 1945, il quale offre indicazioni preziose sulla direzione del cammino che l’Indonesia democratica e indipendente ha scelto. E questa è una storia molto bella; quando uno la legge, vede che è stata una scelta di tutti.
Per ben due volte in poche righe il Preambolo fa riferimento a Dio onnipotente e alla necessità che la sua benedizione scenda sul nascente Stato dell’Indonesia. Similmente, il testo che apre la vostra Legge fondamentale a due riprese tratta della giustizia sociale, auspicando che si instauri un ordinamento internazionale fondato su di essa, considerata tra i principali obiettivi da realizzare a vantaggio dell’intero popolo indonesiano.
Unità nella molteplicità, giustizia sociale, benedizione divina sono dunque i principi fondamentali, destinati a ispirare e orientare i programmi specifici, sono come la struttura portante, la solida base sulla quale costruire la casa. E come non notare che tali principi si accordano molto bene con il motto di questa mia visita in Indonesia: “Fede, fraternità, compassione”?
Purtroppo, invece, si riscontrano nel mondo attuale alcune tendenze che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale (cfr Lett. enc. Fratelli tutti, 9). In diverse regioni constatiamo il sorgere di violenti conflitti, che sono spesso il risultato di una mancanza di rispetto reciproco, della volontà intollerante di far prevalere a tutti i costi i propri interessi, la propria posizione, o la propria parziale narrazione storica, anche quando ciò comporta sofferenze senza fine per intere collettività e sfocia in vere e proprie guerre sanguinose.
A volte poi si sviluppano violente tensioni all’interno degli Stati, per la ragione che chi detiene il potere vorrebbe tutto uniformare, imponendo la propria visione anche in questioni che dovrebbero essere lasciate all’autonomia dei singoli o dei gruppi.
D’altra parte, malgrado le suadenti dichiarazioni programmatiche, sono molte le situazioni in cui manca un effettivo e lungimirante impegno per costruire la giustizia sociale. Ne deriva che una parte considerevole dell’umanità viene lasciata ai margini, senza i mezzi per un’esistenza dignitosa e senza difesa per far fronte a gravi e crescenti squilibri sociali, che innescano acuti conflitti. E come si risolve questo? Con una legge di morte, cioè limitare le nascite, limitare la ricchezza più grande che ha un Paese, che sono le nascite. Il vostro Paese, invece, ha famiglie di tre, quattro, cinque figli che vanno avanti. E questo si vede nel livello d’età del Paese. Continuate così. È un esempio per tutti i Paesi. Forse questo fa ridere; forse certe famiglie preferiscono avere un gatto, un cagnolino, e non un figlio. Questo non va.
In altri contesti, invece, si ritiene di poter o dover prescindere dal ricercare la benedizione di Dio, giudicandola superflua per l’essere umano e per la società civile, che si dovrebbero promuovere con le loro proprie forze, ma che, così facendo, incontrano spesso la frustrazione e il fallimento. Al contrario, vi sono casi in cui la fede in Dio viene continuamente posta in primo piano, ma spesso per essere purtroppo manipolata e per servire non a costruire pace, comunione, dialogo, rispetto, collaborazione, fraternità, a costruire il Paese, ma per fomentare divisioni e odio.
Fratelli e sorelle, di fronte a queste ombre, rallegra osservare come la filosofia che ispira l’organizzazione dello Stato indonesiano manifesti saggezza ed equilibrio. Faccio mie, a tale proposito, le parole pronunciate da San Giovanni Paolo II, proprio in questo Palazzo, in occasione della sua visita del 1989. Egli tra l’altro affermò: «Nel riconoscere la presenza di una legittima diversità, nel rispettare i diritti umani e politici di tutti i cittadini e nel promuovere la crescita dell’unità nazionale fondata sulla tolleranza e il rispetto per gli altri, voi gettate le fondamenta di quella società giusta e pacifica che tutti gli Indonesiani desiderano per se stessi e che vogliono trasmettere ai propri figli» (Discorso al Presidente della Repubblica indonesiana e alle Autorità, Jakarta, 9 ottobre 1989).
Anche se a volte, nel corso delle vicende storiche, i principi ispiratori sopra richiamati non sempre hanno avuto la forza di imporsi in ogni circostanza, essi rimangono validi e affidabili, come un faro che mostra la direzione da percorrere e avverte circa i più pericolosi errori da evitare.
Signor Presidente, Signore e Signori,
auspico che tutti, nel loro quotidiano agire, sappiano trarre ispirazione da questi principi e renderli effettivi nell’adempimento ordinario dei rispettivi doveri, perché opus justitiae pax, la pace è frutto della giustizia. L’armonia infatti si ottiene quando ciascuno si impegna non solo per i propri interessi e la propria visione, ma in vista del bene di tutti, per costruire ponti, per favorire accordi e sinergie, per unire le forze allo scopo di sconfiggere ogni forma di miseria morale, economica, sociale, e promuovere pace e concordia.
Cari fratelli e sorelle, continuate sulla vostra strada, che è così bella e così giusta. E così porto la benedizione a tutto il popolo: Dio benedica l’Indonesia con la pace, per un futuro ricco di speranza. Dio benedica tutti voi!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Ci sono cardinali, ci sono vescovi, ci sono preti, ci sono suore, ci sono le laiche, i laici, ci sono i bambini, ma tutti siamo fratelli. Non è più importate il Papa, il cardinale, il vescovo… Tutti fratelli. Ognuno ha il suo compito per far crescere il popolo di Dio. Capito?
Saluto il Cardinale, i Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, le consacrate e i consacrati, i seminaristi e i catechisti presenti. Ringrazio il Presidente della Conferenza Episcopale per le sue parole, e anche i fratelli e le sorelle che hanno condiviso con noi le loro testimonianze.
Come è stato ricordato, il motto scelto per questa Visita Apostolica è “Fede, fraternità, compassione”. Penso che siano tre virtù che esprimono bene sia il vostro cammino di Chiesa sia la vostra indole di popolo, etnicamente e culturalmente molto varia, ma al tempo stesso caratterizzata da una connaturale tensione all’unità e alla convivenza pacifica, come testimoniano i principi tradizionali della Pancasila. Vorrei riflettere insieme con voi su queste tre parole.
La prima è fede. L’Indonesia è un grande Paese, con enormi ricchezze naturali, a livello di flora, di fauna, di risorse energetiche e di materie prime, e così via. Una ricchezza così grande potrebbe facilmente trasformarsi, letta con superficialità, in motivo di orgoglio e di presunzione, ma, se considerata con mente e cuore aperti, può essere invece un richiamo a Dio, alla sua presenza nel cosmo, nella sua vita e nella nostra vita, come ci insegna la Sacra Scrittura (cfr Gen 1; Sir 42,15-43,33). È il Signore, infatti, che dona tutto questo. Non c’è un centimetro del meraviglioso territorio indonesiano, né un istante della vita di ognuno dei suoi milioni di abitanti che non sia dono del Signore, segno del suo amore gratuito e preveniente di Padre. E guardare a tutto questo con umili occhi di figli ci aiuta a credere, a riconoscerci piccoli e amati (cfr Sal 8), e a coltivare sentimenti di gratitudine e di responsabilità.
Ce ne ha parlato Agnes, a proposito del nostro rapporto con il creato e con i fratelli, specialmente i più bisognosi, da vivere con uno stile personale e comunitario improntato al rispetto, alla civiltà e all’umanità, con sobrietà e carità francescana.
Dopo la fede, la seconda parola del motto è fraternità. Una poetessa del novecento ha usato un’espressione molto bella per descrivere questo atteggiamento: ha scritto che essere fratelli vuol dire amarsi riconoscendosi «diversi come due gocce d’acqua». [1] Bello! Ed è proprio così. Non ci sono due gocce d’acqua uguali l’una all’altra, né ci sono due fratelli, nemmeno gemelli, completamente identici. Vivere la fraternità, allora, vuol dire accogliersi a vicenda riconoscendosi uguali nella diversità.
Anche questo è un valore caro alla tradizione della Chiesa indonesiana, che si manifesta nell’apertura con cui essa si relaziona alle varie realtà che la compongono e la circondano, a livello culturale, etnico, sociale e religioso, valorizzando l’apporto di tutti e donando generosamente il suo in ogni contesto. Questo, fratelli e sorelle, è importante, perché annunciare il Vangelo non vuol dire imporre o contrapporre la propria fede a quella degli altri, non vuol dire fare proselitismo, vuol dire donare e condividere la gioia dell’incontro con Cristo (cfr 1 Pt 3,15-17), sempre con grande rispetto e affetto fraterno per chiunque. E in questo vi invito a mantenervi sempre così: aperti e amici di tutti – quell’espressione mi piace tanto: “mano nella mano”, andare così, come ha detto don Maxi –, profeti di comunione, in un mondo dove sembra invece stia crescendo sempre più la tendenza a dividersi, imporsi e provocarsi a vicenda (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 67). E su questo voglio dirvi una cosa: voi sapete chi è la persona che nel mondo fa la più grandi divisioni? Lo sapete chi è? Il grande divisore, che sempre divide, divide… Gesù unisce e questo divide. È il diavolo. State attenti!
È importante cercare di arrivare a tutti, come ci ha ricordato Suor Rina, con l’auspicio di poter tradurre in Bahasa Indonesia, oltre ai testi della Parola di Dio, anche gli insegnamenti della Chiesa, per renderli accessibili a più persone possibile. E lo ha evidenziato anche Nicholas, descrivendo la missione del catechista con l’immagine di un “ponte” che unisce. Questo mi ha colpito, e mi ha fatto pensare allo spettacolo meraviglioso, nel grande arcipelago indonesiano, di migliaia di “ponti del cuore” che uniscono tutte le isole, e ancora di più a milioni di tali “ponti” che uniscono tutte le persone che vi abitano! Ecco un’altra bella immagine della fraternità: un ricamo immenso di fili d’amore che attraversano il mare, superano le barriere e abbracciano ogni diversità, facendo di tutti «un cuore solo e un’anima sola» (cfr At 4,32). Il linguaggio del cuore, non dimenticate!
E veniamo alla terza parola: compassione, che è molto legata alla fraternità. Compassione vuol dire patire con l’altro, condividere i sentimenti: è una bella parola! Come sappiamo, infatti, la compassione non consiste nel dispensare elemosine a fratelli e sorelle bisognosi guardandoli dall’alto in basso, guardandoli dalle proprie sicurezze e dai propri privilegi, ma al contrario, compassione significa farci vicini gli uni agli altri, spogliandoci di tutto ciò che può impedirci di chinarci per entrare davvero in contatto con chi sta a terra, e così sollevarlo e ridargli speranza (cfr Lett. enc. Fratelli tutti, 70). E questo è importante: toccare la povertà. Quando io confesso, domando sempre alle persone adulte: “Tu fai elemosina?”, e mi dicono di sì, generalmente, perché è gente buona. Ma la seconda domanda è: “Tu, quando fai l’elemosina, tocchi la mano del mendicante? Guardi nei suoi occhi? O gli butti la moneta da lontano per non toccarlo? Questa è una cosa che dobbiamo imparare tutti: la compassione significa soffrire, patire, accompagnare nei sentimenti chi sta soffrendo e abbracciarlo, accompagnarlo. E non solo: vuol dire anche abbracciarne i sogni e desideri di riscatto e di giustizia, prendersene cura, farsene promotori e cooperatori, coinvolgendo anche altri, allargando la “rete” e i confini in un grande dinamismo espansivo di carità (cfr ivi, 203). E questo non vuol dire essere comunista, questo vuol dire carità, vuol dire amore.
C’è chi ha paura della compassione, ci sono persone che hanno paura della compassione, perché la considera una debolezza – soffrire con l’altro una debolezza – ed esalta invece, come se fosse una virtù, la scaltrezza di chi fa i propri interessi mantenendosi a distanza da tutti, non lasciandosi “toccare” da niente e da nessuno, pensando così di essere più lucido e libero nel raggiungere i propri scopi. Purtroppo io ricordo una persona molto ricca, ricchissima, a Buenos Aires, ma che aveva il vizio di prendere, prendere, prendere, sempre più soldi. È morto e ha lasciato un’eredità enorme. Sapete quali erano le battute che faceva la gente? “Poveretto, non hanno potuto chiudere la bara!”. Voleva prendersi tutto e non ha preso niente. Fa ridere, ma non dimenticate una cosa: il diavolo entra dalle tasche, sempre! È vero. Il fatto di avere le ricchezze come sicurezza è un modo falso di guardare alla realtà. Ciò che manda avanti il mondo non sono i calcoli di interesse – che finiscono in genere col distruggere il creato e dividere le comunità – ma la carità che si dona. Questo porta avanti: la carità che si dona. E la compassione non offusca la visione reale della vita, anzi, ci fa vedere meglio le cose, nella luce dell’amore, cioè ci fa vedere meglio le cose con gli occhi del cuore. E vorrei ripeterlo, per favore, state attenti, non dimenticate: il diavolo entra dalle tasche!
Il portale di questa Cattedrale, nella sua architettura, mi sembra riassuma molto bene quanto abbiamo detto, in chiave mariana. Esso infatti è sorretto, al centro dell’arco a sesto acuto, da una colonna sulla quale è posta una statua della Vergine Maria. Ci mostra così la Madre di Dio prima di tutto come modello di fede, mentre simbolicamente sostiene, col suo piccolo “sì” (cfr Lc 1,38), tutto l’edificio della Chiesa. Il suo corpo fragile, appoggiato alla colonna, alla roccia che è Cristo, sembra infatti portare con Lui su di sé il peso di tutta la costruzione, come a dire che essa, opera del lavoro e dell’ingegno dell’uomo, non può sostenersi da sola. Maria appare poi come immagine di fraternità, nel gesto di accogliere, in mezzo al portale principale, tutti coloro che vogliono entrare. È la madre che accoglie. E infine è anche icona di compassione, nel suo vigilare e proteggere il popolo di Dio che, con le gioie e i dolori, le fatiche e le speranze si raduna nella casa del Padre. È la madre della compassione.
Cari fratelli e sorelle, mi piace concludere questa conversazione riprendendo ciò che San Giovanni Paolo II, in visita qui alcuni decenni orsono, ha detto proprio rivolgendosi ai vescovi, ai sacerdoti,ai religiosi e alle religiose. Citava il versetto del Salmo: «Laetentur insulae multae» – «Gioiscano le isole tutte» (Sal 96,1) e invitava i suoi ascoltatori a realizzarlo, «rendendo testimonianza alla gioia della Risurrezione e dando la […] vita cosicché anche le isole più lontane possano “gioire” udendo il Vangelo, di cui voi siete veri predicatori, insegnanti e testimoni» (Incontro con i Vescovi, il clero e i religiosi dell’Indonesia, Jakarta, 10 ottobre 1989).
Anch’io vi rinnovo questa esortazione, e vi incoraggio a continuare la vostra missione forti nella fede, aperti a tutti nella fraternità e vicini a ciascuno nella compassione. Forti, aperti e vicini, con la fortezza della fede. L’apertura per accogliere tutti, tutti! Mi colpisce tanto quella parabola del Vangelo, quando gli invitati a nozze non hanno voluto venire e non sono venuti. Che cosa fa il Signore? Si amareggia? No, ha capito qualcosa quell’uomo e manda i suoi servi: “Andate agli incroci delle strade e portate tutti, tutti, tutti dentro. Tutti dentro, con questo stile tanto bello che è andare avanti con la fratellanza, con la compassione, con l’unità… Tutti. E penso a tante isole, tante isole… E il Signore dice alla gente buona, a voi: “Tutti, tutti” – “Ma, Signore, quello…” – “Tutti, tutti”. Anzi, il Signore dice: “buoni e cattivi”, tutti!
Anch’io vi rinnovo questa esortazione e vi incoraggio a continuare la vostra missione, forti nella fede, aperti a tutti nella fraternità e vicini a ciascuno nella compassione. Fede, fraternità e compassione. Tre parole che vi lascio, e voi dopo ci pensate. Fede, fraternità e compassione. Vi benedico, vi ringrazio per il tanto bene che fate ogni giorno in tutte queste belle isole! Prego per voi. Prego ma, per favore, vi chiedo di pregare per me. E state attenti a una cosa: pregate a favore, non contro! Grazie.
[1] W. Szymborska, “Nulla due volte accade”, in La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Milano, 2009, p. 45.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono felice di trovarmi qui, nella più grande Moschea dell’Asia, insieme a tutti voi. Saluto il Grande Imam e lo ringrazio per le parole che mi ha rivolto, ricordando che questo luogo di culto e di preghiera è anche “una grande casa per l’umanità”, in cui ciascuno può entrare per fermarsi con sé stesso, per dare spazio a quell’anelito di infinito che porta nel cuore, per cercare l’incontro con il divino e vivere la gioia dell’amicizia con gli altri.
Mi piace ricordare che questa Moschea è stata progettata dall’architetto Friedrich Silaban, che era cristiano e si aggiudicò la vittoria del concorso. Ciò attesta che, nella storia di questa Nazione e nella cultura che vi si respira, la Moschea, come anche gli altri luoghi di culto, sono spazi di dialogo, di rispetto reciproco, di armonica convivenza tra le religioni e le diverse sensibilità spirituali. Questo è un grande dono, che ogni giorno siete chiamati a coltivare, perché l’esperienza religiosa sia punto di riferimento di una società fraterna e pacifica e mai motivo di chiusura e di scontro.
A tale proposito mi piace ricordare la costruzione di un tunnel sotterraneo – il “tunnel dell’amicizia” – che collega la Moschea Istiqlal e la Cattedrale di Santa Maria dell’Assunzione. Si tratta di un segno eloquente, che permette a questi due grandi luoghi di culto di essere non soltanto l’uno “di fronte” all’altro, ma anche l’uno “collegato” all’altro. Questo passaggio infatti permette un incontro, un dialogo, una reale possibilità di «scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, […] di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 87). Vi incoraggio a proseguire su questa strada: che tutti, tutti insieme, ciascuno coltivando la propria spiritualità e praticando la propria religione, possiamo camminare alla ricerca di Dio e contribuire a costruire società aperte, fondate sul rispetto reciproco e sull’amore vicendevole, capaci di isolare le rigidità, i fondamentalismi e gli estremismi, che sono sempre pericolosi e mai giustificabili.
Non si tratta soltanto di una reciproca cortesia, di qualcosa di formale, no! Si tratta invece di un comune cammino di amicizia che avete iniziato da tempo, sostenuti da chi nel Paese ha avuto responsabilità civili e politiche, incoraggiato dai diversi leader religiosi, ma che è stato possibile soprattutto per la bella disposizione d’animo del popolo indonesiano, per la vostra apertura interiore, per l’accoglienza che sapete offrirvi reciprocamente, per la capacità che avete di armonizzare le diversità.
In questa prospettiva, simboleggiata dal tunnel sotterraneo, vorrei lasciarvi due consegne, per incoraggiare il cammino dell’unità e dell’armonia che già avete intrapreso.
La prima è: guardare sempre in profondità, perché solo lì si può trovare ciò che unisce al di là delle differenze. Infatti, mentre in superficie ci sono gli spazi della Moschea e della Cattedrale, ben definiti e frequentati dai rispettivi fedeli, sotto terra, lungo il tunnel, quelle stesse persone diverse si incontrano e possono accedere al mondo religioso dell’altro. Questa immagine ci ricorda una cosa importante: che gli aspetti visibili delle religioni – i riti, le pratiche e così via – sono un patrimonio tradizionale che va tutelato e rispettato; ma ciò che sta “sotto”, quello che scorre in modo sotterraneo, proprio come il “tunnel dell’amicizia”, potremmo dire la radice comune a tutte le sensibilità religiose è una sola: la ricerca dell’incontro con il divino, la sete di infinito che l’Altissimo ha posto nel nostro cuore, la ricerca di una gioia più grande e di una vita più forte di ogni morte, che anima il viaggio della nostra vita e ci spinge a uscire dal nostro io per andare incontro a Dio. Ecco, ricordiamoci questo: guardando in profondità, cogliendo ciò che scorre nell’intimo della nostra vita, il desiderio di pienezza che abita il profondo del nostro cuore, noi ci scopriamo tutti fratelli, tutti pellegrini, tutti in cammino verso Dio, al di là di ciò che ci differenzia.
Il secondo invito è: avere cura dei legami. Il tunnel è stato costruito da una parte all’altra per creare un collegamento tra due luoghi diversi e distanti. Questo fa il passaggio sotterraneo: collega, cioè crea un legame. A volte noi pensiamo che l’incontro tra le religioni sia una questione che riguarda il cercare a tutti i costi dei punti in comune tra le diverse dottrine e professioni religiose. In realtà, può succedere che un approccio del genere finisca per dividerci, perché le dottrine e i dogmi di ogni esperienza religiosa sono diversi. Quello che realmente ci avvicina è creare un collegamento tra le nostre diversità, avere cura di coltivare legami di amicizia, di attenzione, di reciprocità. Sono relazioni in cui ciascuno si apre all’altro, in cui ci impegniamo a ricercare insieme la verità imparando dalla tradizione religiosa dell’altro; a venirci incontro nelle necessità umane e spirituali. Sono legami che ci permettono di lavorare insieme, di marciare uniti nel perseguire qualche obiettivo, nella difesa della dignità dell’uomo, nella lotta alla povertà, nella promozione della pace. L’unità nasce dai vincoli personali di amicizia, dal rispetto reciproco, dalla difesa vicendevole degli spazi e delle idee altrui. Che possiate sempre avere cura di questo!
Cari fratelli e sorelle, “promuovere l’armonia religiosa per il bene dell’umanità” è l’ispirazione che siamo chiamati a seguire e che dà anche il titolo alla Dichiarazione congiunta preparata per questa occasione. In essa assumiamo con responsabilità le gravi e talvolta drammatiche crisi che minacciano il futuro dell’umanità, in particolare le guerre e i conflitti, purtroppo alimentati anche dalle strumentalizzazioni religiose, ma anche la crisi ambientale, diventata un ostacolo per la crescita e la convivenza dei popoli. E davanti a questo scenario, è importante che i valori comuni a tutte le tradizioni religiose siano promossi e rafforzati, aiutando la società a «sconfiggere la cultura della violenza e dell’indifferenza» (Dichiarazione congiunta di Istiqlal) e a promuovere la riconciliazione e la pace.
Vi ringrazio per questo cammino comune che portate avanti. L’Indonesia è un grande Paese, un mosaico di culture, di etnie e tradizioni religiose, una ricchissima diversità, che si rispecchia anche nella varietà dell’ecosistema e dell’ambiente circostante. E se è vero che ospitate la più grande miniera d’oro del mondo, sappiate che il tesoro più prezioso è la volontà che le differenze non diventino motivo di conflitto ma si armonizzino nella concordia e nel rispetto reciproco. Non smarrite questo dono! Non impoveritevi mai di questa ricchezza così grande, anzi, coltivatela e trasmettetela soprattutto ai più giovani. Che nessuno ceda al fascino dell’integralismo e della violenza, che tutti siano invece affascinati dal sogno di una società e di un’umanità libera, fraterna e pacifica!
Grazie per il vostro sorriso gentile, che sempre splende sui vostri volti ed è segno della vostra bellezza e della vostra apertura interiore. Dio vi conceda questo dono. Con il suo aiuto e la sua benedizione andate avanti, Bhinneka Tunggal Ika, uniti nella diversità. Grazie!
Incontro con gli assisiti dalle realtà caricative
Carissimi fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono molto contento di incontrarvi. Saluto tutti voi, in particolare il presidente della Conferenza episcopale indonesiana, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto. Ringrazio anche Mimi e Andrew per ciò che hanno condiviso. È molto bello che i vescovi indonesiani abbiano scelto di celebrare i 100 anni della loro Conferenza nazionale con voi. Grazie, grazie! Grazie a voi per questa scelta. Grazie, Presidente! Si vede che il tuo spirito certosino ci aiuta a fare queste cose.
Voi siete piccole stelle luminose nel cielo di questo arcipelago, le membra più preziose di questa Chiesa, i suoi “tesori”, come fin dai primi secoli del cristianesimo insegnava il diacono martire San Lorenzo. E in proposito voglio sottolineare che condivido pienamente ciò che ha detto Mimi: Dio ha creato gli esseri umani con capacità uniche per arricchire la diversità del nostro mondo – sei stata brava, Mimi, grazie! –; e lei stessa ce lo ha dimostrato parlandoci in modo meraviglioso di Gesù, “nostro faro di speranza”. Grazie per questo!
Affrontare insieme le difficoltà, fare tutti del nostro meglio portando ognuno il proprio contributo irripetibile, ci arricchisce e ci aiuta a scoprire giorno per giorno quanto vale il nostro stare insieme, nel mondo, nella Chiesa, in famiglia, come ci ha ricordato Andrew, al quale facciamo anche i complimenti per la sua partecipazione ai Giochi Paralimpici: bravo! Facciamo un bell’applauso ad Andrew. E facciamone uno anche a tutti noi, chiamati a diventare insieme campioni dell’amore nelle grandi olimpiadi della vita. Un applauso a tutti noi!
Carissimi, tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri, e questo non è un male. Ci aiuta, infatti, a capire sempre meglio che l’amore è la cosa più importante della nostra esistenza (cfr 1 Cor 13,13), ad accorgerci di quante persone buone ci sono attorno a noi. Ci ricorda, poi, quanto il Signore ci vuole bene, a tutti, al di là di qualsiasi limite e difficoltà. Ciascuno di noi è unico ai suoi occhi, agli occhi del Signore, e Lui non si dimentica mai di noi, mai. Ricordiamolo, per tenere viva la nostra speranza e per impegnarci a nostra volta, senza mai stancarci, a fare della nostra vita un dono per gli altri (cfr Gv 15,12-13).
Grazie! Grazie per questo incontro e per quello che voi fate, tutti insieme. Vi benedico e prego per voi. E per favore, anche voi non dimenticatevi di pregare per me. Grazie. Oggi vorrei fare gli auguri a quella mamma che non è potuta venire, è a letto, ma oggi compie 87 anni. Le mandiamo gli auguri, da qui, tutti insieme.
L’incontro con Gesù ci chiama a vivere due atteggiamenti fondamentali, che ci permettono di diventare suoi discepoli. Il primo atteggiamento: ascoltare la Parola; il secondo: vivere la Parola. Prima ascoltare, perché tutto nasce dall’ascolto, dall’aprirsi a Lui, dall’accogliere il dono prezioso della sua amicizia. Ma poi è importante vivere la Parola ricevuta, per non essere ascoltatori vani che illudono sé stessi (cfr Gc 1,22); per non rischiare di ascoltare soltanto con le orecchie senza che il seme della Parola scenda nel cuore e cambi il nostro modo di pensare, di sentire, di agire, e questo non è buono. La Parola che ci viene donata e che ascoltiamo chiede di diventare vita, di trasformare la vita, di incarnarsi nella nostra vita.
Questi due atteggiamenti essenziali: ascoltare la Parola e vivere la Parola, possiamo contemplarli nel Vangelo che è stato appena proclamato.
Anzitutto, ascoltare la Parola. L’Evangelista racconta che tanta gente accorreva da Gesù e «la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio» (Lc 5,1). Cercano Lui, hanno fame e sete della Parola del Signore e la sentono risuonare nelle parole di Gesù. Dunque, questa scena, che si ripete tante volte nel Vangelo, ci dice che il cuore dell’uomo è sempre alla ricerca di una verità capace di sfamare e saziare il suo desiderio di felicità; che non possiamo accontentarci delle sole parole umane, dei criteri di questo mondo, dei giudizi terreni; sempre abbiamo bisogno di una luce che venga dall’alto a illuminare i nostri passi, di un’acqua viva che possa dissetare i deserti dell’anima, di una consolazione che non deluda perché proviene dal cielo e non dalle effimere cose di quaggiù. In mezzo allo stordimento e alla vanità delle parole umane, fratelli e sorelle, c’è bisogno della Parola di Dio, l’unica che è bussola per il nostro cammino, l’unica che tra tante ferite e smarrimenti è in grado di ricondurci al significato autentico della vita.
Fratelli e sorelle, non dimentichiamo questo: il primo compito del discepolo – noi tutti siamo discepoli! – non è quello di indossare l’abito di una religiosità esteriormente perfetta, di fare cose straordinarie o impegnarsi in imprese grandiose. No. Il primo compito, il primo passo, invece, consiste nel sapersi mettere in ascolto dell’unica Parola che salva, quella di Gesù, come possiamo vedere nell’episodio evangelico, quando il Maestro sale sulla barca di Pietro per distanziarsi un po’ dalla riva e così predicare meglio alla gente (cfr Lc 5,3). La nostra vita di fede inizia quando umilmente accogliamo Gesù sulla barca della nostra esistenza, gli facciamo spazio, ci mettiamo in ascolto della sua Parola e da essa ci facciamo interrogare, scuotere e cambiare.
Allo stesso tempo, fratelli e sorelle, la Parola del Signore chiede di incarnarsi concretamente in noi: siamo perciò chiamati a vivere la Parola. Ripetere soltanto la Parola, senza viverla, ci fa diventare come pappagalli: sì, la dico, ma non si capisce, non si vive. Infatti, dopo che ha finito di predicare alle folle dalla barca, Gesù si rivolge a Pietro e lo esorta a rischiare scommettendo su quella Parola: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca» (v. 4). La Parola del Signore non può restare una bella idea astratta o suscitare soltanto l’emozione di un momento; essa ci chiede di cambiare il nostro sguardo, di lasciarci trasformare il cuore a immagine di quello di Cristo; la Parola ci chiama a gettare con coraggio le reti del Vangelo in mezzo al mare del mondo, “correndo il rischio”, sì, correndo il rischio di vivere l’amore che Lui ci ha insegnato e ha vissuto per primo. Anche a noi, fratelli e sorelle, il Signore, con la forza bruciante della sua Parola, chiede di prendere il largo, di staccarci dalle rive stagnanti delle cattive abitudini, delle paure e delle mediocrità, per osare una nuova vita. La mediocrità piace al diavolo! Perché entra in noi e ci rovina.
Certo, gli ostacoli e le scuse per dire di no non mancano mai; ma guardiamo ancora all’atteggiamento di Pietro: veniva da una notte difficile, in cui non aveva pescato nulla, era arrabbiato, era stanco, era deluso; eppure, invece di rimanere paralizzato in quel vuoto e bloccato dal proprio fallimento, dice: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (v. 5). Sulla tua parola getterò le reti. E allora accade l’inaudito, il miracolo di una barca che si riempie di pesci fino quasi ad affondare (cfr v. 7).
Fratelli e sorelle, dinanzi ai tanti compiti della nostra vita quotidiana; davanti alla chiamata, che tutti avvertiamo, a costruire una società più giusta, ad andare avanti sulla via della pace e del dialogo – quella via che qui in Indonesia da tempo è stata tracciata –, possiamo sentirci a volte inadeguati, sentire il peso di tanto impegno che non sempre porta i frutti sperati oppure dei nostri errori che sembrano arrestare il cammino. Ma con la stessa umiltà e la stessa fede di Pietro, anche a noi è chiesto di non restare prigionieri dei nostri fallimenti. Questa è una cosa molto brutta, perché i fallimenti ci prendono e noi possiamo diventare prigionieri dei fallimenti. No, per favore: non restiamo prigionieri dei nostri fallimenti; invece di rimanere con lo sguardo fisso sulle nostre reti vuote, guardiamo a Gesù e fidiamoci di Lui. Non guardare le tue reti vuote, guarda Gesù, guarda Gesù! Lui ti farà camminare, Lui ti farà andare bene, fidati di Gesù! Sempre possiamo rischiare di prendere il largo e gettare nuovamente le reti, anche quando abbiamo attraversato la notte del fallimento, il tempo della delusione in cui non abbiamo preso nulla. Adesso farò un piccolo momento di silenzio e ognuno di voi pensi ai propri fallimenti. [pausa] E guardando questi fallimenti, rischiamo, andiamo avanti con il coraggio della Parola di Dio.
Santa Teresa di Calcutta, della quale oggi celebriamo la memoria e che instancabilmente si è presa cura dei più poveri e si è fatta promotrice di pace e di dialogo, diceva: “Quando non abbiamo nulla da dare, diamogli quel nulla. E ricorda: anche se non dovessi raccogliere niente, non stancarti mai di seminare”. Fratello e sorella, non stancarti mai di seminare, perché questo è vita.
Questo, fratelli e sorelle, vorrei dire anche a voi, a questa Nazione, a questo meraviglioso e variegato arcipelago: non stancatevi di prendere il largo, non stancatevi di gettare le reti, non stancatevi di sognare, non stancatevi di sognare e costruire ancora una civiltà della pace! Osate sempre il sogno della fraternità, che è un vero tesoro fra voi. Sulla Parola del Signore vi incoraggio a seminare amore, a percorrere fiduciosi la strada del dialogo, a praticare ancora la vostra bontà e gentilezza col sorriso tipico che vi contraddistingue. Vi hanno detto che voi siete un popolo sorridente? Non perdete il sorriso, per favore, e andate avanti! E siate costruttori di pace. Siate costruttori di speranza!
Questo è il desiderio espresso di recente dai Vescovi del Paese, ed è l’augurio che anch’io vorrei rivolgere a tutto il popolo indonesiano: camminare insieme per il bene della società e della Chiesa! Siate costruttori di speranza. Sentite bene:siate costruttori di speranza! Quella speranza del Vangelo che non delude (cfr Rm 5,5), non delude mai, e che ci apre alla gioia senza fine. Grazie tante.
PAPUA NUOVA GUINEA
Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico
Signor Governatore Generale,
Signor Primo Ministro,
distinti Rappresentanti della società civile,
Signori Ambasciatori,
Signore e signori!
Sono lieto di essere oggi qui con voi e di poter visitare la Papua Nuova Guinea. Ringrazio il Governatore Generale per le sue cordiali parole di benvenuto e ringrazio tutti voi per la calorosa accoglienza. Rivolgo il mio saluto all’intero popolo del Paese, augurandogli pace e prosperità. E fin d’ora esprimo la mia gratitudine alle Autorità per l’aiuto che offrono a molte attività della Chiesa nello spirito di mutua collaborazione per il bene comune.
Nella vostra Patria, un arcipelago con centinaia di isole, si parlano più di ottocento lingue, in corrispondenza ad altrettanti gruppi etnici: questo evidenzia una straordinaria ricchezza culturale e umana; e vi confesso che si tratta di un aspetto che mi affascina molto, anche sul piano spirituale, perché immagino che questa enorme varietà sia una sfida per lo Spirito Santo, che crea l’armonia delle differenze!
Il vostro Paese, poi, oltre che di isole e di idiomi, è ricco anche di risorse della terra e delle acque. Questi beni sono destinati da Dio all’intera collettività e, anche se per il loro sfruttamento è necessario coinvolgere più vaste competenze e grandi imprese internazionali, è giusto che nella distribuzione dei proventi e nell’impiego della mano d’opera si tengano nel dovuto conto le esigenze delle popolazioni locali, in modo da produrre un effettivo miglioramento delle loro condizioni di vita.
Questa ricchezza ambientale e culturale rappresenta al tempo stesso una grande responsabilità, perché impegna tutti, i governanti insieme ai cittadini, a favorire ogni iniziativa necessaria a valorizzare le risorse naturali e umane, in modo tale da dar vita a uno sviluppo sostenibile ed equo, che promuova il benessere di tutti, nessuno escluso, attraverso programmi concretamente eseguibili e mediante la cooperazione internazionale, nel mutuo rispetto e con accordi vantaggiosi per tutti i contraenti.
Condizione necessaria per ottenere tali risultati duraturi è la stabilità delle istituzioni, la quale è favorita dalla concordia su alcuni punti essenziali tra le differenti concezioni e sensibilità presenti nella società. Accrescere la solidità istituzionale e costruire il consenso sulle scelte fondamentali rappresenta infatti un requisito indispensabile per uno sviluppo integrale e solidale. Esso richiede inoltre una visione di lungo periodo e un clima di collaborazione tra tutti, pur nella distinzione dei ruoli e nella differenza delle opinioni.
Auspico, in particolare, che cessino le violenze tribali, che causano purtroppo molte vittime, non permettono di vivere in pace e ostacolano lo sviluppo. Faccio pertanto appello al senso di responsabilità di tutti, affinché si interrompa la spirale di violenza e si imbocchi invece risolutamente la via che conduce a una fruttuosa collaborazione, a vantaggio dell’intero popolo del Paese.
Nel clima generato da questi atteggiamenti, potrà trovare un assetto definitivo anche la questione dello status dell’isola di Bougainville, evitando il riaccendersi di antiche tensioni.
Consolidando la concordia sui fondamenti della società civile, e con la disponibilità di ciascuno a sacrificare qualcosa delle proprie posizioni a vantaggio del bene di tutti, si potranno mettere in moto le forze necessarie a migliorare le infrastrutture, ad affrontare i bisogni sanitari ed educativi della popolazione e ad accrescere le opportunità di lavoro dignitoso.
Tuttavia, anche se a volte ce ne dimentichiamo, l’essere umano ha bisogno, oltre che del necessario per vivere, di una grande speranza nel cuore, che lo faccia vivere bene, gli dia il gusto e il coraggio di intraprendere progetti di ampio respiro e gli consenta di elevare lo sguardo verso l’alto e verso vasti orizzonti.
L’abbondanza dei beni materiali, senza questo respiro dell’anima, non basta a dar vita a una società vitale e serena, laboriosa e gioiosa, anzi, la fa ripiegare su sé stessa. L’aridità del cuore le fa perdere l’orientamento e dimenticare la giusta scala dei valori; le toglie slancio e la blocca fino al punto – come accade in alcune società opulente – che essa smarrisce la speranza nell’avvenire e non trova più ragioni per trasmettere la vita.
Per questo è necessario orientare lo spirito verso realtà più grandi; occorre che i comportamenti siano sostenuti da una forza interiore, che li metta al riparo dal rischio di corrompersi e di perdere lungo la strada la capacità di riconoscere il significato del proprio operare e di eseguirlo con dedizione e costanza.
I valori dello spirito influenzano in notevole misura la costruzione della città terrena e di tutte le realtà temporali, infondono un’anima – per così dire –, ispirano e irrobustiscono ogni progetto. Lo ricordano anche il logo e il motto di questa mia visita in Papua Nuova Guinea. Il motto dice tutto con una sola parola: “Pray” – “Pregare”. Forse qualcuno, troppo osservante del “politicamente corretto”, potrà stupirsi di questa scelta; ma in realtà si sbaglia, perché un popolo che prega ha un futuro, attingendo forza e speranza dall’alto. E anche l’emblema dell’uccello del paradiso, nel logo del viaggio, è simbolo di libertà: di quella libertà che niente e nessuno può soffocare perché è interiore, ed è custodita da Dio che è amore e vuole che i suoi figli siano liberi.
Per tutti coloro che si professano cristiani – la grande maggioranza del vostro popolo – auspico vivamente che la fede non si riduca mai all’osservanza di riti e di precetti, ma che consista nell’amore, nell’amare Gesù Cristo e seguirlo, e che possa farsi cultura vissuta, ispirando le menti e le azioni e diventando un faro di luce che illumina la rotta. In questo modo, la fede potrà aiutare anche la società nel suo insieme a crescere e a individuare buone ed efficaci soluzioni alle sue grandi sfide.
Illustri Signore e Signori, sono venuto qui per incoraggiare i fedeli cattolici a proseguire il loro cammino e per confermarli nella professione della fede; sono venuto a gioire con loro per i progressi che vanno facendo e a condividere le loro difficoltà; sono qui, come direbbe San Paolo, quale «collaboratore della vostra gioia» (2 Cor 1,24).
Mi congratulo con le comunità cristiane per le opere di carità che svolgono nel Paese, e le esorto a cercare sempre la collaborazione con le istituzioni pubbliche e con tutte le persone di buona volontà, a partire dai fratelli appartenenti ad altre confessioni cristiane e ad altre religioni, a favore del bene comune di tutti i cittadini della Papua Nuova Guinea.
La fulgida testimonianza del Beato Pietro To Rot – come affermò San Giovanni Paolo II durante la Messa per la Beatificazione – “insegna a mettersi generosamente al servizio degli altri per garantire che la società si sviluppi in onestà e giustizia, in armonia e solidarietà” (cfr Omelia, Port Moresby, 17 gennaio 1995). Il suo esempio, insieme a quelli del Beato Giovanni Mazzucconi, del PIME, e di tutti i missionari che hanno annunciato il Vangelo in questa vostra terra, vi doni forza e speranza.
San Michele Arcangelo, Patrono della Papua Nuova Guinea, vegli sempre su di voi e vi difenda da ogni pericolo, protegga le Autorità e tutte le genti di questo Paese.
Eccellenza, Lei ha parlato delle donne. Non dimentichiamo che sono loro a portare avanti un Paese. Le donne hanno la forza di dare vita, di costruire, di far crescere un Paese. Non dimentichiamo le donne, che sono al primo posto dello sviluppo umano e spirituale.
Eccellenza, Signore e Signori!
Inizio con gioia la mia visita in mezzo a voi. Vi ringrazio di avermi aperto le porte del vostro bel Paese, così lontano da Roma eppure così vicino al cuore della Chiesa cattolica. Perché nel cuore della Chiesa c’è l’amore di Gesù Cristo, che sulla croce ha abbracciato tutti gli uomini. Il suo Vangelo è per tutti i popoli, non è legato a nessun potere terreno, ma è libero per fecondare ogni cultura e far crescere nel mondo il Regno di Dio. Il Vangelo si incultura e le culture vanno evangelizzate. Possa questo Regno di Dio trovare piena accoglienza in questa terra, così che tutte le popolazioni della Papua Nuova Guinea, con la varietà delle loro tradizioni, vivano insieme in armonia e diano al mondo un segno di fraternità. Grazie tante.
Cari fratelli e sorelle, buonasera!
Vi saluto tutti con affetto: vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi e catechisti. Ringrazio il Presidente della Conferenza Episcopale per le sue parole, come pure James, Grace, Suor Lorena e don Emmanuel per le loro testimonianze.
Sono contento di stare qui, in questa bella chiesa salesiana: i salesiani sanno fare bene le cose. Complimenti. Questo è un Santuario diocesano dedicato a Maria Aiuto dei Cristiani: Maria Ausiliatrice – io sono stato battezzato nella parrocchia di Maria Ausiliatrice a Buenos Aires – un titolo tanto caro a San Giovanni Bosco; Maria Helpim, come con affetto la invocate qui. Quando, nel 1844, la Madonna ispirò a don Bosco di costruire a Torino una chiesa in suo onore, gli fece questa promessa: “Qui è la mia casa, da qui la mia gloria”. Maria gli promise che, se avesse avuto il coraggio di cominciare la costruzione di quel Santuario, grandi grazie ne sarebbero seguite. E così è successo: la chiesa è stata costruita, ed è meravigliosa – ma è più bella quella di Buenos Aires! – ed è diventata centro di irradiazione del Vangelo, di formazione dei giovani e di carità, è diventata punto di riferimento per tanta gente.
Così il bel Santuario in cui ci troviamo, che si ispira a quella storia, può essere un simbolo anche per noi, particolarmente in riferimento a tre aspetti del nostro cammino cristiano e missionario, come hanno sottolineato le testimonianze che abbiamo ascoltato: il coraggio di cominciare, la bellezza di esserci e la speranza di crescere.
Primo: il coraggio di cominciare. I costruttori di questa chiesa hanno iniziato l’impresa facendo un grande atto di fede, che ha portato i suoi frutti, e che però è stato possibile solo grazie a tanti altri inizi coraggiosi, di chi li ha preceduti. I missionari sono arrivati in questo Paese alla metà del XIX secolo e i primi passi del loro lavoro non sono stati facili, anzi alcuni tentativi sono falliti. Ma loro non si sono arresi: con grande fede e con zelo apostolico hanno continuato a predicare il Vangelo e a servire i fratelli, ricominciando molte volte dove non avevano avuto successo, con tanti sacrifici.
Ce lo ricordano queste vetrate – che adesso non si vedono perché è notte –, attraverso le quali la luce del sole ci sorride nei volti dei Santi e Beati: donne e uomini di ogni provenienza, legati alla storia della vostra comunità: Pietro Chanel, protomartire dell’Oceania, Giovanni Mazzucconi e Pietro To Rot, martiri della Nuova Guinea, e poi Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo II, Mary McKillop, Maria Goretti, Laura Vicuña, Zeffirino Namuncurà, Francesco di Sales, Giovanni Bosco, Maria Domenica Mazzarello. Tutti fratelli e sorelle che, in modi e tempi diversi, cominciando e ricominciando tante volte opere e cammini, hanno contribuito a portare il Vangelo tra voi, con una variopinta ricchezza di carismi, animati dallo stesso Spirito e dalla stessa carità di Cristo (cfr 1 Cor 12,4-7; 2 Cor 5,14). È grazie a loro, alle loro “partenze” e “ripartenze” – i missionari sono donne e uomini di “partenza”, e se tornano, di “ripartenza”: questa è la vita del missionario, partire e ripartire –, è grazie a loro che siamo qui e che oggi, nonostante le sfide che pure non mancano, continuiamo ad andare avanti, senza paura – non so se sempre –, sapendo che non siamo soli, che è il Signore che agisce, in noi e con noi (cfr Gal 2,20), rendendoci, come loro, strumenti della sua grazia (cfr 1 Pt 4,10). Questa è la nostra vocazione: essere strumenti.
E in proposito, anche alla luce di ciò che abbiamo sentito, vorrei raccomandarvi una via importante verso cui dirigere le vostre “partenze”: quella delle periferie di questo Paese. Penso alle persone appartenenti alle fasce più disagiate delle popolazioni urbane, come anche a quelle che vivono nelle zone più remote e abbandonate, dove a volte manca il necessario. E ancora penso a quelle emarginate e ferite, sia moralmente che fisicamente, dal pregiudizio e dalla superstizione, a volte fino a rischio della vita, come ci hanno ricordato James e Suor Lorena. A questi fratelli e sorelle la Chiesa desidera essere particolarmente vicina, perché in loro Gesù è presente in modo speciale (cfr Mt 25,31-40), e dove c’è Lui, il nostro capo, ci siamo anche noi, sue membra, appartenenti allo stesso corpo, «ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture» (Ef 4,16). E per favore, non dimenticatevi: vicinanza, vicinanza! Voi sapete che i tre atteggiamenti più belli sono la vicinanza, la compassione e la tenerezza. Se una consacrata o un consacrato, un prete, un vescovo, i diaconi non sono vicini, non sono compassionevoli e non sono teneri, non hanno lo Spirito di Gesù. Non dimenticate questo: vicinanza, compassione, tenerezza.
E questo ci porta al secondo aspetto: la bellezza di esserci. Possiamo vederla simboleggiata nelle conchiglie kina, con cui è ornato il presbiterio di questa chiesa, e che sono segno di prosperità. Esse ci ricordano che qui il tesoro più bello agli occhi del Padre siamo noi, stretti attorno a Gesù, sotto il manto di Maria, spiritualmente uniti a tutti i fratelli e le sorelle che il Signore ci ha affidato e che non possono essere qui, accesi dal desiderio che il mondo intero possa conoscere il Vangelo e condividerne con noi la forza e la luce.
James chiedeva come si fa a trasmettere ai giovani l’entusiasmo della missione. Non penso che ci siano “tecniche” per questo. Un modo collaudato, però, è proprio quello di coltivare e condividere con loro la nostra gioia di essere Chiesa (cfr Benedetto XVI, Omelia nella Messa di Inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007) casa accogliente fatta di pietre vive, scelte e preziose, poste dal Signore le une accanto alle altre e cementate dal suo amore (cfr 1 Pt 2,4-5). Così, come ci ha ricordato Grace, richiamando l’esperienza del Sinodo, stimandoci e rispettandoci a vicenda e mettendoci al servizio gli uni degli altri, possiamo mostrare a loro e a chiunque ci incontri quanto è bello seguire insieme Gesù e annunciare il suo Vangelo.
La bellezza di esserci, allora, non si sperimenta tanto in occasione dei grandi eventi e nei momenti di successo, quanto piuttosto nella fedeltà e nell’amore con cui ogni giorno ci si impegna a crescere insieme.
E così giungiamo al terzo e ultimo aspetto: la speranza di crescere. In questa Chiesa c’è un’interessante “catechesi in immagini” del passaggio del Mar Rosso, con le figure di Abramo, Isacco e Mosè: i Patriarchi resi fecondi dalla fede, che per aver creduto hanno ricevuto in dono una numerosa discendenza (cfr Gen 15,5; 26,3-5; Es 32,7-14). E questo è un segno importante, perché incoraggia anche noi, oggi, ad avere fiducia nella fecondità del nostro apostolato, continuando a gettare piccoli semi di bene nei solchi del mondo. Sembrano minuscoli, come un granello di senape, ma se ci fidiamo e non smettiamo di spargerli, per grazia di Dio germoglieranno, daranno un raccolto abbondante (cfr Mt 13,3-9) e produrranno alberi capaci di accogliere gli uccelli del cielo (cfr Mc 4,30-32). Lo dice San Paolo, quando ci ricorda che la crescita di ciò che noi seminiamo non è opera nostra, ma del Signore (cfr 1Cor 3,7), e lo insegna la Madre Chiesa, quando sottolinea che, pur attraverso i nostri sforzi, è Dio «a far sì che venga il suo regno sulla terra» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 42). Perciò noi continuiamo ad evangelizzare, pazientemente, senza lasciarci scoraggiare da difficoltà e incomprensioni, nemmeno quando queste si presentano là dove meno vorremmo incontrarle: in famiglia, ad esempio, come abbiamo sentito.
Cari fratelli e sorelle, ringraziamo insieme il Signore per come il Vangelo attecchisce e si diffonde in Papua Nuova Guinea e nelle Isole Salomone. Continuate così la vostra missione, come testimoni di coraggio, di bellezza e di speranza! E non dimenticate lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. Sempre avanti con questo stile del Signore! Vi ringrazio per quello che fate, vi benedico tutti di cuore e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me, perché ne ho bisogno, grazie!
La prima parola che oggi il Signore ci rivolge è: «Coraggio, non temete!» (Is 35,4). Il profeta Isaia lo dice a tutti coloro che sono smarriti di cuore. Egli in questo modo incoraggia il suo popolo e, pur in mezzo alle difficoltà e alle sofferenze, lo invita a levare lo sguardo in alto, verso un orizzonte di speranza e di futuro: Dio viene a salvarci, Egli verrà e, in quel giorno, «si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi» (Is 35,5).
Questa profezia si realizza in Gesù. Nel racconto di San Marco vengono messe in evidenza soprattutto due cose: la lontananza del sordomuto e la vicinanza di Gesù. La lontananza del sordomuto. Quest’uomo si trova in una zona geografica che, con il linguaggio di oggi, chiameremmo “periferia”. Il territorio della Decapoli si trova oltre il Giordano, lontano dal centro religioso che è Gerusalemme. Ma quell’uomo sordomuto vive anche un altro tipo di lontananza; egli è lontano da Dio, è lontano dagli uomini perché non ha la possibilità di comunicare: è sordo e quindi non può ascoltare gli altri, è muto e quindi non può parlare con gli altri. Quest’uomo è tagliato fuori dal mondo, è isolato, è prigioniero della sua sordità e del suo mutismo e, perciò, non può aprirsi agli altri per comunicare.
E allora possiamo leggere questa condizione di sordomuto anche in un altro senso, perché può accaderci di essere tagliati fuori dalla comunione e dell’amicizia con Dio e con i fratelli quando, più che le orecchie e la lingua, ad essere bloccato è il cuore. Ci sono una sordità interiore e un mutismo del cuore che dipendono da tutto ciò che ci chiude in noi stessi, ci chiude a Dio, ci chiude agli altri: l’egoismo, l’indifferenza, la paura di rischiare e di metterci in gioco, il risentimento, l’odio, e l’elenco potrebbe continuare. Tutto ciò ci allontana da Dio, ci allontana dai fratelli, e anche da noi stessi; e ci allontana dalla gioia di vivere.
A questa lontananza, fratelli e sorelle, Dio risponde con il contrario, con la vicinanza di Gesù. Nel suo Figlio, Dio vuole mostrare anzitutto questo: che Egli è il Dio vicino, il Dio compassionevole, che si prende cura della nostra vita, che supera tutte le distanze. E nel brano del Vangelo, infatti, vediamo Gesù che si reca in quei territori periferici, uscendo dalla Giudea per andare incontro ai pagani (cfr Mc 7,31).
Con la sua vicinanza, Gesù guarisce, guarisce il mutismo e la sordità dell’uomo: quando infatti ci sentiamo lontani, oppure scegliamo di tenerci a distanza – a distanza da Dio, a distanza dai fratelli, a distanza da chi è diverso da noi – allora ci chiudiamo, ci barrichiamo in noi stessi e finiamo per ruotare solo intorno al nostro io, sordi alla Parola di Dio e al grido del prossimo e perciò incapaci di parlare con Dio e col prossimo.
E voi, fratelli e sorelle, che abitate questa terra così lontana, forse avete l’immaginazione di essere separati, separati dal Signore, separati dagli uomini, e questo non va, no: voi siete uniti, uniti nello Spirito Santo, uniti nel Signore! E il Signore dice ad ognuno di voi: “Apriti!”. Questa è la cosa più importante: aprirci a Dio, aprirci ai fratelli, aprirci al Vangelo e farlo diventare la bussola della nostra vita.
Anche a voi oggi il Signore dice: “Coraggio, non temere, popolo papuano! Apriti! Apriti alla gioia del Vangelo, apriti all’incontro con Dio, apriti all’amore dei fratelli”. Che nessuno di noi rimanga sordo e muto dinanzi a questo invito. E in questo cammino vi accompagni il Beato Giovanni Mazzucconi: tra tanti disagi e ostilità, egli ha portato Cristo in mezzo a voi, perché nessuno restasse sordo dinanzi al gioioso Messaggio della salvezza, e a tutti si potesse sciogliere la lingua per cantare l’amore di Dio. Che sia così, oggi, anche per voi!
Cari fratelli e sorelle,
prima di concludere questa celebrazione, ci rivolgiamo alla Vergine Maria con la preghiera dell’Angelus. A lei affido il cammino della Chiesa in Papua Nuova Guinea e nelle Isole Salomone. Maria aiuto dei cristiani – Maria Helpim vi accompagni e vi protegga sempre: rafforzi l’unione delle famiglie, renda belli e coraggiosi i sogni dei giovani, sostenga e consoli gli anziani, conforti i malati e i sofferenti!
E da questa terra così benedetta dal Creatore, vorrei insieme a voi invocare, per intercessione di Maria Santissima, il dono della pace per tutti i popoli. In particolare, lo chiedo per questa grande regione del mondo tra Asia, Oceania e Oceano Pacifico. Pace, pace per le Nazioni e anche per il creato. No al riarmo e allo sfruttamento della casa comune! Sì all’incontro tra i popoli e le culture, sì all’armonia dell’uomo con le creature!
Maria Helpim, Regina della pace, aiutaci a convertirci ai disegni di Dio, che sono disegni di pace e di giustizia per la grande famiglia umana!
In questa domenica, in cui ricorre la festa liturgica della Natività di Maria, il nostro pensiero lo rivolgiamo al Santuario di Lourdes, che purtroppo è stato colpito da un’inondazione.
Incontro con i Fedeli della Diocesi di Vanimo
Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!
Ringrazio il Vescovo per le parole che mi ha rivolto. Saluto le Autorità, i sacerdoti, le religiose e i religiosi, i missionari, i catechisti, i giovani, i fedeli – alcuni venuti da molto lontano – e voi, carissimi bambini! Grazie a Maria Joseph, Steven, Suor Jaisha Joseph, David e Maria per quello che avete condiviso. Sono contento di incontrarvi in questa terra meravigliosa, terra giovane e missionaria!
Come abbiamo sentito, dalla metà del XIX secolo la missione qui non si è mai interrotta: religiose, religiosi, catechisti e missionari laici non hanno smesso di predicare la Parola di Dio e di offrire aiuto ai fratelli, nella cura pastorale, nell’istruzione, nell’assistenza sanitaria e in molti altri ambiti, affrontando non poche difficoltà, per essere per tutti strumento “di pace e di amore”, come ha detto Suor Jaisha Joseph.
Così le chiese, le scuole, gli ospedali e i centri missionari testimoniano attorno a noi che Cristo è venuto a portare salvezza a tutti, perché ciascuno fiorisca in tutta la sua bellezza per il bene comune (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 182).
Voi qui siete “esperti” di bellezza, perché siete circondati di bellezza! Vivete in una terra magnifica, ricca di una grande varietà di piante e di uccelli, in cui si resta a bocca aperta davanti ai colori, suoni e profumi, e allo spettacolo grandioso di una natura che esplode di vita, evocando l’immagine dell’Eden!
Ma questa ricchezza il Signore ve l’affida come un segno e uno strumento, perché viviate anche voi così, uniti in armonia con Lui e con i fratelli, rispettando la casa comune e custodendovi a vicenda (cfr Messaggio per la celebrazione della V Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del creato, 1° settembre 2019).
Guardandoci attorno, vediamo quanto è dolce lo scenario della natura. Ma rientrando in noi stessi, ci accorgiamo che c’è uno spettacolo ancora più bello: quello di ciò che cresce in noi quando ci amiamo a vicenda, come hanno testimoniato David e Maria, parlando del loro cammino di sposi, nel sacramento del Matrimonio. E la nostra missione è proprio questa: diffondere ovunque, attraverso l’amore di Dio e dei fratelli, la bellezza del Vangelo di Cristo (cfr Evangelii gaudium, 120)!
Abbiamo sentito come alcuni di voi, per farlo, affrontano lunghi viaggi, per raggiungere anche le comunità più lontane, a volte lasciando la propria casa, come ci ha detto Steven. Fanno una cosa bellissima, ed è importante che non siano lasciati soli, ma che tutta la comunità li sostenga, perché possano svolgere serenamente il loro mandato, specialmente quando devono conciliare le esigenze della missione con le responsabilità della famiglia.
C’è però anche un altro modo in cui possiamo aiutarli, ed è che ciascuno di noi promuova l’annuncio missionario là dove vive (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 23): a casa, a scuola, negli ambienti di lavoro, perché dappertutto, nelle foreste, nei villaggi e nelle città, alla bellezza dei panorami corrisponda la bellezza di una comunità in cui ci si vuole bene, come Gesù ci ha insegnato quando ci ha detto: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35; cfr Mt 22,35-40).
Formeremo così, sempre più, come una grande orchestra – che piace tanto a Maria Joseph, la nostra violinista – capace, con le sue note, di ricomporre le rivalità, di vincere le divisioni – personali, familiari e tribali –; di scacciare dal cuore delle persone la paura, la superstizione e la magia; di porre fine a comportamenti distruttivi come la violenza, l’infedeltà, lo sfruttamento, l’uso di alcool e droghe: mali che imprigionano e rendono infelici tanti fratelli e sorelle, anche qui.
Ricordiamolo: l’amore è più forte di tutto questo e la sua bellezza può guarire il mondo, perché ha le sue radici in Dio (cfr Catechesi, 9 settembre 2020). Diffondiamolo, perciò, e difendiamolo, anche quando il farlo può costarci qualche incomprensione, qualche opposizione. Ce lo ha testimoniato, con le parole e con l’esempio, il Beato Pietro To Rot – sposo, padre, catechista e martire di questa terra –, che ha donato la sua vita proprio per difendere l’unità della famiglia di fronte a chi voleva minarne le fondamenta.
Cari amici, molti turisti, dopo aver visitato il vostro Paese, tornano a casa dicendo di aver visto “il paradiso”. Si riferiscono, in genere, alle attrazioni paesaggistiche e ambientali di cui hanno goduto. Noi però sappiamo che, come abbiamo detto, il tesoro più grande non è quello. Ce n’è un altro, più bello e affascinante, che si trova nei vostri cuori e che si manifesta nella carità con cui vi amate.
È questo il dono più prezioso che potete condividere e far conoscere a tutti, rendendo Papua Nuova Guinea famosa non solo per la sua varietà di flora e di fauna, per le sue spiagge incantevoli e per il suo mare limpido, ma anche e soprattutto per le persone buone che vi si incontrano; e lo dico specialmente a voi, bambini, con i vostri sorrisi contagiosi e con la vostra gioia prorompente, che sprizza in ogni direzione. Siete l’immagine più bella che chi parte da qui può portare con sé e conservare nel cuore!
Vi incoraggio, perciò, ad abbellire sempre più questa terra felice con la vostra presenza di Chiesa che ama. Vi benedico e prego per voi. E vi raccomando: anche voi pregate per me. Grazie.
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