Lunedì 15 gennaio 2018: Roma-Santiago
8.00 Partenza in aereo da Roma/Fiumicino per Santiago
Incontro con i giornalisti durante il volo verso il Cile
20.10 Arrivo all’aeroporto internazionale di Santiago Cerimonia di benvenuto
21.00 Arrivo del Santo Padre alla Nunziatura Apostolica
Martedì 16 gennaio 2018: Santiago
8.20 Incontro con le Autorità, con la Società civile e con il Corpo Diplomatico nel Palacio de la Moneda
9.00 Visita di cortesia al Presidente nel Salon Azul del Palacio de la Moneda
10.30 Santa Messa nel Parque O’Higgins
16.00 Breve visita al Centro Penitenciario Femenino di Santiago
17.15 Incontro con i Sacerdoti, Religiosi/e, Consacrati e Seminaristi nella Cattedrale di Santiago
18.15 Incontro con i Vescovi nella Sagrestia della Cattedrale
19.15 Visita privata al Santuario di San Alberto Hurtado, SJ Incontro privato con i sacerdoti della Compagnia di Gesù
Mercoledì 17 gennaio 2018: Santiago-Temuco-Santiago
8.00 Partenza in aereo dall’aeroporto di Santiago per Temuco
10.30 Santa Messa nell’aeroporto di Maquehue
12.45 Pranzo con alcuni abitanti dell’Araucanía nella casa “Madre de la Santa Cruz”
15.30 Partenza in aereo dall’aeroporto di Temuco per Santiago
17.00 Arrivo all’aeroporto di Santiago
17.30 Incontro con i giovani nel Santuario di Maipú
18.30 Trasferimento in auto chiusa alla Pontificia Università Cattolica del Cile
19.00 Visita alla Pontificia Università Cattolica del Cile
Giovedì 18 gennaio 2018: Santiago-Iquique-Lima
8.05 Partenza in aereo dall’aeroporto di Santiago per Iquique
10.35 Arrivo all’aeroporto internazionale di Iquique
11.30Santa Messa nel Campus Lobito
14.00 Pranzo con il Seguito Papale nella “Casa de retiros del Santuario Nuestra Señora de Lourdes” dei Padri Oblati
16.45 Arrivo all’aeroporto di Iquique Cerimonia di congedo
17.05 Partenza in aereo dall’aeroporto di Iquique per Lima
17.20 Arrivo all’aeroporto di Lima Cerimonia di benvenuto
Venerdì 19 gennaio 2018: Lima - Puerto Maldonado - Lima
8.30 Partenza in aereo da Lima per Puerto Maldonado
10.15 Arrivo all’aeroporto di Puerto Maldonado
10.30 Incontro con i popoli dell'Amazzonia nel Coliseo Regional Madre de Dios
11.30Incontro con la popolazione nell’Istituto Jorge Basadre
12.15Visita all’Hogar El Principito
13.15 Pranzo con i rappresentanti dei popoli dell’Amazzonia nel Centro Pastorale Apaktone 14.35 Partenza in aereo per Lima
16.10 Arrivo all’aeroporto di Lima
16.20 Visita alla Cappella della Base Aerea
16.45 Incontro con le Autorità, con la Società civile e con il Corpo Diplomatico nel Cortile d’Onore
17.15 Visita di cortesia al Presidente nel Salone degli Ambasciatori del Palacio de Gobierno
17.55 Incontro privato con i membri della Compagnia di Gesù nella chiesa di San Pedro
Sabato 20 gennaio 2018: Lima - Trujillo - Lima
7.40 Partenza in aereo per Trujillo
9.10 Arrivo all’aeroporto di Trujillo
10.00 Santa Messa sulla spianata costiera di Huanchaco
12.15 Giro in papamobile nel quartiere “Buenos Aires”
15.00 Breve visita alla Cattedrale
16.45 Celebrazione Mariana – Virgen de la Puerta nella Plaza de Armas
18.15 Partenza in aereo per Lima
19.40 Arrivo all’aeroporto di Lima
Domenica 21 gennaio 2018: Lima - Roma
9.15 Preghiera dell'Ora Media con Religiose di vita contemplativa nel Santuario del Señor de los Milagros
10.30 Preghiera alle Reliquie dei Santi peruviani nella Cattedrale di Lima
10.50 Incontro con i Vescovi nel Palazzo Arcivescovile
12.00 Angelus nella Plaza de Armas
12.30 Pranzo con il Seguito Papale nella Nunziatura Apostolica
16.15 Santa Messa nella Base Aerea “Las Palmas”
18.30 Arrivo in aeroporto Cerimonia di congedo
18.45 Partenza in aereo per Roma/Ciampino
Conferenza stampa del Santo Padre durante il volo di ritorno dal Perù
Lunedì 22 gennaio 2018: Roma
14.15 Arrivo all’aeroporto di Roma/Ciampino
FUSO ORARIO
Roma: + 1h UTC Santiago (CILE): -3h UTC Temuco (CILE): -3h UTC Iquique (CILE): -3h UTC Lima (PERÙ): -5h UTC Puerto Maldonado (PERÙ): -5h UTC Trujillo (PERÙ): -5h UTC
Incontro con i giornalisti durante il volo verso il Cile
Greg Burke: Santità, grazie. Grazie prima di tutto per il pensiero di stamattina: tutti abbiamo ricevuto la cartolina [con l’immagine del bambino] di Nagasaki. E grazie soprattutto per la possibilità di viaggiare con Lei. Siamo pieni: 70 persone, inclusi, credo, 12 di Cile e Perù, quindi 12 nuovi. Approfitto per dire loro che è un saluto, non sono 70 domande, quando adesso facciamo il giro. Tutto qua. Forse Lei vuole dire qualcosa…
Papa Francesco: Buongiorno! Vi auguro buon viaggio. Mi hanno detto dall’Alitalia che il volo Roma-Santiago è il volo diretto più lungo che ha l’Alitalia: quindici ore e quaranta, o venti, non so… Avremo tempo per riposare, lavorare, tante cose. Grazie per il vostro lavoro che sarà impegnativo: tre giorni in un Paese, tre giorni nell’altro… Per me non sarà tanto difficile nel Cile perché ho studiato lì un anno, ho tanti amici, e conosco bene – mah, bene… conosco di più –. Invece in Perù conosco meno, perché ci sono andato due o tre volte per convegni, incontri. Poi, Greg parlava di questo che vi ho dato [la cartolina]: questa l’ho trovata per caso. È stata scattata nel 1945, sul retro ci sono i dati. È un bambino, con il suo fratellino morto sulle spalle, mentre aspetta il suo turno davanti al crematorio, a Nagasaki, dopo la bomba. Io mi sono commosso quando ho visto questa [foto], e ho osato scrivere soltanto “Il frutto della guerra”. E ho pensato di farla ristampare e darla, perché un’immagine del genere commuove più di mille parole. Per questo ho voluto condividerla con voi. E grazie per il vostro lavoro!
Incontro con le Autorità, con la Società civile e con il Corpo Diplomatico nel Palacio de la Moneda
E’ una gioia per me potermi trovare nuovamente sul suolo latino-americano e iniziare la visita a questa amata terra cilena, che mi ha ospitato e formato durante la mia gioventù; vorrei che questo tempo con voi fosse anche un tempo di gratitudine per tanto bene ricevuto. Mi torna alla mente quella strofa, che ho ascoltato poco fa, del vostro inno nazionale: “Puro, o Cile, è il tuo cielo azzurro / e pure brezze ti attraversano / e la tua campagna ricamata di fiori / è la copia felice dell’Eden”: un vero canto di lode per la terra che abitate, colma di promesse e di sfide, ma specialmente carica di futuro. In un certo senso quello che ha detto la Signora Presidente.
Grazie, Signora Presidente, per le parole di benvenuto che mi ha rivolto. Nella Sua persona desidero salutare e abbracciare il popolo cileno, dall’estremo nord della regione di Arica e Parinacota fino all’arcipelago sud «e al suo dissolversi in penisole e canali»[1]. La vostra diversità e ricchezza geografica ci permette di cogliere la ricchezza della polifonia culturale che vi caratterizza.
Ringrazio per la loro presenza i membri del Governo, i Presidenti del Senato, della Camera dei Deputati e della Corte Suprema, come pure le altre Autorità dello Stato e i loro collaboratori. Saluto il Presidente eletto qui presente, Signor Sebastián Piñera Echenique, che ha ricevuto recentemente il mandato del popolo cileno di governare i destini del Paese nei prossimi quattro anni.
Il Cile si è distinto negli ultimi decenni per lo sviluppo di una democrazia che gli ha consentito un notevole progresso. Le recenti elezioni politiche sono state una manifestazione della solidità e maturità civica raggiunta, e ciò acquista un particolare rilievo quest’anno nel quale si commemorano i 200 anni della dichiarazione di indipendenza. Momento particolarmente importante, poiché segnò il vostro destino come popolo, fondato sulla libertà e sul diritto, chiamato anche ad affrontare diversi periodi turbolenti riuscendo tuttavia – non senza dolore – a superarli. In questo modo voi avete saputo consolidare e irrobustire il sogno dei vostri padri fondatori.
In questo senso, ricordo le emblematiche parole del Card. Silva Henríquez quando in un Te Deum affermò: «Noi – tutti – siamo costruttori dell’opera più bella: la patria. La patria terrena che prefigura e prepara la patria senza frontiere. Tale patria non comincia oggi, con noi; e tuttavia non può crescere e fruttificare senza di noi. Perciò la riceviamo con rispetto, con gratitudine, come un compito iniziato da molti anni, come un’eredità che ci inorgoglisce e al tempo stesso ci impegna».[2]
Ogni generazione deve far proprie le lotte e le conquiste delle generazioni precedenti e condurle a mete ancora più alte. E’ il cammino. Il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno. Non è possibile accontentarsi di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi a goderlo in modo che tale situazione ci porti a disconoscere che molti nostri fratelli soffrono ancora situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti.
Voi, pertanto, avete davanti una sfida grande e appassionante: continuare a lavorare perché la democrazia, il sogno dei vostri padri, ben al di là degli aspetti formali, sia veramente un luogo d’incontro per tutti. Che sia un luogo nel quale tutti, senza eccezioni, si sentano chiamati a costruire casa, famiglia e nazione. Un luogo, una casa, una famiglia, chiamata Cile: generoso, accogliente, che ama la sua storia, che lavora per il presente della sua convivenza e guarda con speranza al futuro. Ci fa bene ricordare qui le parole di San Alberto Hurtado: «Una Nazione, più che per le sue frontiere, più che la sua terra, le sue catene montuose, i suoi mari, più che la sua lingua o le sue tradizioni, è una missione da compiere».[3] È futuro. E quel futuro si gioca, in gran parte, nella capacità di ascolto che hanno il suo popolo e le sue autorità.
Tale capacità di ascolto acquista un grande valore in questa Nazione, dove la pluralità etnica, culturale e storica esige di essere custodita da ogni tentativo di parzialità o supremazia e che mette in gioco la capacità di lasciar cadere dogmatismi esclusivisti in una sana apertura al bene comune (che se non presenta un carattere comunitario non sarà mai un bene). È indispensabile ascoltare: ascoltare i disoccupati, che non possono sostenere il presente e ancor meno il futuro delle loro famiglie; ascoltare i popoli autoctoni, spesso dimenticati, i cui diritti devono ricevere attenzione e la cui cultura protetta, perché non si perda una parte dell’identità e della ricchezza di questa Nazione. Ascoltare i migranti, che bussano alle porte di questo Paese in cerca di una vita migliore e, a loro volta, con la forza e la speranza di voler costruire un futuro migliore per tutti. Ascoltare i giovani, nella loro ansia di avere maggiori opportunità, specialmente sul piano educativo e, così, sentirsi protagonisti del Cile che sognano, proteggendoli attivamente dal flagello della droga che si prende il meglio delle loro vite. Ascoltare gli anziani, con la loro saggezza tanto necessaria e il carico della loro fragilità. Non li possiamo abbandonare. Ascoltare i bambini, che si affacciano al mondo con i loro occhi pieni di meraviglia e innocenza e attendono da noi risposte reali per un futuro di dignità. E qui non posso fare a meno di esprimere il dolore e la vergogna, vergogna che sento davanti al danno irreparabile causato a bambini da parte di ministri della Chiesa. Desidero unirmi ai miei fratelli nell’episcopato, perché è giusto chiedere perdono e appoggiare con tutte le forze le vittime, mentre dobbiamo impegnarci perché ciò non si ripeta.
Con questa capacità di ascolto siamo invitati – oggi in modo speciale – a prestare un’attenzione preferenziale alla nostra casa comune. Ascoltare la nostra casa comune: far crescere una cultura che sappia prendersi cura della terra e a tale scopo non accontentarci solo di offrire risposte specifiche ai gravi problemi ecologici e ambientali che si presentano; in questo si richiede l’audacia di offrire «uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico»[4] che privilegia l’irruzione del potere economico nei confronti degli ecosistemi naturali e, di conseguenza, del bene comune dei nostri popoli. La saggezza dei popoli autoctoni può offrire un grande contributo. Da loro possiamo imparare che non c’è vero sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra e a tutto quello e tutti quelli che la circondano. Il Cile possiede nelle proprie radici una saggezza capace di aiutare ad andare oltre la concezione meramente consumistica dell’esistenza per acquisire un atteggiamento sapienziale di fronte al futuro.
L’anima del carattere cileno – la Presidente ha detto che era diffidente – l’anima del carattere cileno è vocazione ad essere, quella caparbia volontà di esistere.[5] Vocazione alla quale tutti sono chiamati e rispetto alla quale nessuno può sentirsi escluso o dispensabile. Vocazione che richiede un’opzione radicale per la vita, specialmente in tutte le forme nelle quali essa si vede minacciata.
Ringrazio nuovamente per l’invito a poter venire ad incontrarmi con voi, con l’anima di questo popolo; e prego affinché la Vergine del Carmelo, Madre e Regina del Cile, continui ad accompagnare e a far crescere i sogni di questa benedetta Nazione. Grazie!
[1] Gabriela Mistral, Elogios de la tierra de Chile.
[2] Omelia nel Te Deum Ecumenico (4 novembre 1970).
[3] Te Deum (settembre 1948).
[4] Lett. enc. Laudato si’, 111.
[5] Cfr Gabriela Mistral, Breve descripción de Chile, in Anales de la Universidad de Chile (14), 1934.
Santa Messa nel Parque O’Higgins
«Vedendo le folle» (Mt 5,1). In queste prime parole del Vangelo che abbiamo appena ascoltato troviamo l’atteggiamento con cui Gesù vuole venirci incontro, il medesimo atteggiamento con cui Dio ha sempre sorpreso il suo popolo (cfr Es 3,7). Il primo atteggiamento di Gesù è vedere, guardare il volto dei suoi. Quei volti mettono in movimento l’amore viscerale di Dio. Non sono state idee o concetti a muovere Gesù... sono stati i volti, le persone; è la vita che grida alla Vita che il Padre ci vuole trasmettere. Vedendo le folle, Gesù incontra il volto della gente che lo seguiva e la cosa più bella è vedere che la gente, a sua volta, incontra nello sguardo di Gesù l’eco delle sue ricerche e aspirazioni. Da tale incontro nasce questo elenco di beatitudini che sono l’orizzonte verso il quale siamo invitati e sfidati a camminare. Le beatitudini non nascono da un atteggiamento passivo di fronte alla realtà, né tantomeno possono nascere da uno spettatore che diventa un triste autore di statistiche su quanto accade. Non nascono dai profeti di sventura che si accontentano di seminare delusioni. Nemmeno da miraggi che ci promettono la felicità con un “clic”, in un batter d’occhi. Al contrario, le beatitudini nascono dal cuore compassionevole di Gesù che si incontra con il cuore compassionevole e bisognoso di compassione di uomini e donne che desiderano e anelano a una vita beata; di uomini e donne che conoscono la sofferenza, che conoscono lo smarrimento e il dolore che si genera quando “trema la terra sotto i piedi” o “i sogni vengono sommersi” e il lavoro di tutta una vita viene spazzato via; ma che ancora di più conoscono la tenacia e la lotta per andare avanti; ancora di più conoscono il ricostruire e il ricominciare. Com’è esperto il cuore cileno di ricostruzioni e di nuovi inizi! Come siete esperti voi del rialzarsi dopo tanti crolli! A questo cuore fa appello Gesù; perché questo cuore riceva le beatitudini! Le beatitudini non nascono da atteggiamenti di facile critica né dagli “sproloqui a buon mercato” di coloro che credono di sapere tutto ma non vogliono impegnarsi con niente e con nessuno, e finiscono così per bloccare ogni possibilità di generare processi di trasformazione e di ricostruzione nelle nostre comunità, nella nostra vita. Le beatitudini nascono dal cuore misericordioso che non si stanca di sperare. E sperimenta che la speranza «è il nuovo giorno, lo sradicamento dell’immobilità, lo scuotersi da una prostrazione negativa” (Pablo Neruda, El habitante y su esperanza, 5). Gesù, dicendo beato il povero, colui che ha pianto, l’afflitto, il sofferente, colui che ha perdonato…, viene a sradicare l’immobilità paralizzante di chi crede che le cose non possono cambiare, di chi ha smesso di credere nel potere trasformante di Dio Padre e nei suoi fratelli, specialmente nei suoi fratelli più fragili, nei suoi fratelli scartati. Gesù, proclamando le beatitudini viene a scuotere quella prostrazione negativa chiamata rassegnazione che ci fa credere che si può vivere meglio se evitiamo i problemi, se fuggiamo dagli altri, se ci nascondiamo o rinchiudiamo nelle nostre comodità, se ci addormentiamo in un consumismo tranquillizzante (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 2). Quella rassegnazione che ci porta a isolarci da tutti, a dividerci, a separarci, a farci ciechi di fronte alla vita e alla sofferenza degli altri. Le beatitudini sono quel nuovo giorno per tutti quelli che continuano a scommettere sul futuro, che continuano a sognare, che continuano a lasciarsi toccare e sospingere dallo Spirito di Dio. Quanto ci fa bene pensare che Gesù dal Cerro Renca o da Puntilla viene a dirci: “Beati...”. Sì, beato tu e tu, ognuno di noi. Beati voi che vi lasciate contagiare dallo Spirito di Dio e lottate e lavorate per questo nuovo giorno, per questo nuovo Cile, perché vostro sarà il regno dei cieli. «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). E di fronte alla rassegnazione che come un ruvido brusio mina i nostri legami vitali e ci divide, Gesù ci dice: beati quelli che si impegnano per la riconciliazione. Felici quelli che sono capaci di sporcarsi le mani e lavorare perché altri vivano in pace. Felici quelli che si sforzano di non seminare divisione. In questo modo, la beatitudine ci rende artefici di pace; ci invita ad impegnarci perché lo spirito della riconciliazione guadagni spazio fra noi. Vuoi gioia? Vuoi felicità? Felici quelli che lavorano perché altri possano avere una vita gioiosa. Desideri pace? Lavora per la pace. Non posso fare a meno di evocare quel grande Pastore che ebbe Santiago, il quale in un Te Deum disse: « “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia” [...] E se qualcuno ci domanda: “Cos’è la giustizia?”, o se per caso pensa che consista solo nel “non rubare”, gli diremo che esiste un’altra giustizia: quella che esige che ogni uomo sia trattato come uomo» (Card. Raúl Silva Henríquez, Omelia nel Te Deum Ecumenico, 18 settembre 1977). Seminare la pace a forza di prossimità, a forza di vicinanza! A forza di uscire di casa e osservare i volti, di andare incontro a chi si trova in difficoltà, a chi non è stato trattato come persona, come un degno figlio di questa terra. Questo è l’unico modo che abbiamo per tessere un futuro di pace, per tessere di nuovo una realtà che si può sfilacciare. L’operatore di pace sa che molte volte bisogna vincere grandi o sottili meschinità e ambizioni, che nascono dalla pretesa di crescere e “farsi un nome”, di acquistare prestigio a spese degli altri. L’operatore di pace sa che non basta dire: non faccio del male a nessuno, perché, come diceva Sant'Alberto Hurtado: «Va molto bene non fare il male, ma è molto male non fare il bene” (Meditación radial, abril 1944). Costruire la pace è un processo che ci riunisce e stimola la nostra creatività per dar vita a relazioni capaci di vedere nel mio vicino non un estraneo, uno sconosciuto, ma un figlio di questa terra. Affidiamoci alla Vergine Immacolata che dal Cerro San Cristóbal custodisce e accompagna questa città. Che lei ci aiuti a vivere e a desiderare lo spirito delle beatitudini; affinché in tutti gli angoli di questa città si oda come un sussurro: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Breve visita al Centro Penitenciario Femenino di Santiago
Care sorelle e fratelli, Grazie. Grazie per quello che avete fatto, e grazie per l’opportunità che mi offrite di potervi visitare: per me è importante condividere questo tempo con voi e poter essere più vicino a tanti nostri fratelli che oggi sono privi della libertà. Grazie Suor Nelly per le Sue parole e specialmente per la testimonianza che la vita trionfa sempre sulla morte. Sempre. Grazie Janeth per aver avuto il coraggio di condividere con tutti noi i tuoi dolori e quella coraggiosa richiesta di perdono. Quanto abbiamo da imparare da questo tuo atteggiamento pieno di coraggio e umiltà! Ti cito: “Chiediamo perdono a tutti quelli che abbiamo ferito con i nostri delitti”. Grazie perché ci ricordi questo atteggiamento senza il quale noi ci disumanizziamo. Tutti noi dobbiamo chiedere perdono, io per primo, tutti. Questo ci umanizza. Senza questo atteggiamento di chiedere perdono, perdiamo la coscienza di aver sbagliato e che ogni giorno siamo chiamati a ricominciare, in un modo o nell’altro. In questo momento il cuore mi fa anche ricordare la frase di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7) [il Papa sente che alcune detenute la citano insieme con lui]… la conoscete bene! E sapete cosa dico spesso nelle omelie quando parlo del fatto che tutti abbiamo qualcosa dentro, o per debolezza, o perché sempre cadiamo, e l’abbiamo molto nascosto? Dico alle persone: “Tutti siamo peccatori, abbiamo tutti dei peccati. Non so: c’è qualcuno qui che non ha peccati? Alzi la mano…”. Nessuno ha il coraggio di alzare la mano! Egli ci invita – Gesù – ad abbandonare la logica semplicistica di dividere la realtà in buoni e cattivi, per entrare in quell’altra dinamica capace di assumere la fragilità, i limiti e anche il peccato, per aiutarci ad andare avanti. Quando sono entrato, mi aspettavano le mamme con i loro figli. Sono stati loro a darmi il benvenuto, che si può esprimere in due parole: madre e figli. Madre: molte di voi sono madri e sapete cosa significa dare la vita. Avete saputo “portare” nel vostro seno una vita e l’avete data alla luce. La maternità non è e non sarà mai un problema, è un dono, è uno dei più meravigliosi regali che potete avere. Oggi siete di fronte a una sfida molto simile: si tratta ancora di generare vita. Oggi a voi è chiesto di dare alla luce il futuro. Di farlo crescere, di aiutarlo a svilupparsi. Non solo per voi, ma per i vostri figli e per tutta la società. Voi, donne, avete una capacità incredibile di adattarvi alle situazioni e di andare avanti. Vorrei oggi fare appello alla capacità di generare futuro. Capacità di generare futuro che vive in ognuna di voi. Quella capacità che vi permette di lottare contro i tanti determinismi “cosificatori”, cioè che trasformano le persone in cose, che finiscono per uccidere la speranza. Nessuno di noi è una cosa: siamo tutti persone, e come persone abbiamo questa dimensione della speranza. Non lasciamoci “cosificare”. Non sono un numero, non sono il detenuto numero tale, sono Tizio o Caio che porta dentro di sé la speranza e vuole dare alla luce speranza. Essere private della libertà, come ci diceva bene Janeth, non è sinonimo di perdita di sogni e di speranze. E’ vero, è molto duro, è doloroso, ma non vuol dire perdere la speranza. Non vuol dire smettere di sognare. Essere privato della libertà non è la stessa cosa che essere privo di dignità, no, non è la stessa cosa. La dignità non si tocca, a nessuno. Si cura, si custodisce, si accarezza. Nessuno può essere privato della dignità. Voi siete private della libertà. Da qui consegue che bisogna lottare contro ogni tipo di cliché, di etichetta che dica che non si può cambiare, o che non ne vale la pena, o che il risultato è sempre lo stesso. Come dice il tango argentino: “Dai, avanti così, che tutto è uguale, che là all’inferno ci ritroveremo…”. No, non è tutto lo stesso. Care sorelle, no! Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore – anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto – darà sempre frutto e vi verrà ricompensato. La seconda parola è figli: essi sono forza, sono speranza, sono stimolo. Sono il ricordo vivo che la vita si costruisce guardando avanti e non indietro. Oggi siete private della libertà, ma ciò non vuol dire che questa situazione sia definitiva. Niente affatto. Sempre guardare l’orizzonte, in avanti, verso il reinserimento nella vita ordinaria della società. Una pena senza futuro, una condanna senza futuro non è una condanna umana: è una tortura. Ogni pena che una persona si trova a scontare per pagare un debito con la società, deve avere un orizzonte, l’orizzonte di reinserirmi di nuovo e quindi di prepararmi al reinserimento. Questo esigetelo, da voi stesse e dalla società. Guardate sempre l’orizzonte, guardate sempre avanti verso il reinserimento nella vita ordinaria della società. Per questo, apprezzo e invito a intensificare tutti gli sforzi possibili affinché i progetti come “Espacio Mandela” e “Fundación Mujer levántate” possano crescere e rafforzarsi. Il nome di questa Fondazione mi fa ricordare quel passo evangelico in cui molti prendevano in giro Gesù perché diceva che la figlia del capo della sinagoga non era morta, ma addormentata. Lo deridevano per questo. Di fronte allo scherno, l’atteggiamento di Gesù è paradigmatico: entrando dove stava la ragazza, la prese per mano e le disse: «Fanciulla, io ti dico: alzati!» (Mc 5,41). Per tutti era morta, per Gesù no. Questo tipo di iniziative sono segno vivo di Gesù che entra nella vita di ognuno di noi, che va oltre ogni scherno, che non dà per persa nessuna battaglia, ci prende per mano e ci invita ad alzarci. Che bello che ci siano cristiani e persone di buona volontà, che ci siano persone di qualunque credenza, di qualunque scelta religiosa nella vita, o anche non religiosa, ma di buona volontà, che seguono le orme di Gesù, che hanno il coraggio di entrare ed essere segno di quella mano tesa cha fa rialzare. Io te lo chiedo: alzati! Sempre rialzarsi. Tutti sappiamo che molte volte, purtroppo, la pena del carcere si riduce soprattutto a un castigo, senza offrire strumenti adeguati per attivare processi. E’ quello che dicevo della speranza: guardare avanti, generare processi di reinserimento. Questo dev’essere il vostro sogno: il reinserimento. E se è lungo portare avanti questo cammino, fare il meglio possibile perché sia più breve. Ma sempre reinserimento. La società ha l’obbligo – l’obbligo! – di reinserire tutte voi. Quando dico “reinserire tutte voi”, dico reinserire ognuna di voi, ognuna con un processo personale di reinserimento: una con un cammino, un’altra con un altro, una per un tempo più lungo, un’altra più corto; ma una persona che è in cammino verso il reinserimento. Questo dovete mettervelo in testa e dovete esigerlo. E questo vuol dire generare un processo, attivare un processo. E questi spazi che promuovono programmi di apprendistato lavorativo e di accompagnamento per ricomporre legami sono segno di speranza e di futuro. Adoperiamoci perché crescano. La sicurezza pubblica non va ridotta solo a misure di maggior controllo ma soprattutto va costruita con misure di prevenzione, col lavoro, l’educazione e più vita comunitaria. Con questi pensieri voglio benedire tutte voi e anche salutare gli operatori pastorali, i volontari, il personale e, in modo speciale, i funzionari della Gendarmeria e le loro famiglie. Prego per voi. Voi avete un compito delicato e complesso, e per questo auspico che le Autorità possano assicurarvi anche le condizioni necessarie per svolgere il vostro lavoro con dignità. Dignità che genera dignità. La dignità si contagia, si contagia più dell’influenza; la dignità si contagia. La dignità genera dignità. A Maria, che è Madre e per la quale siamo figli – e voi siete sue figlie –, chiediamo che interceda per voi, per ognuno dei vostri figli, per le persone che avete nel cuore, e vi copra col suo mantello. E, per favore, vi chiedo di pregare per me, perché ne ho bisogno. Grazie. Care sorelle e fratelli, Grazie. Grazie per quello che avete fatto, e grazie per l’opportunità che mi offrite di potervi visitare: per me è importante condividere questo tempo con voi e poter essere più vicino a tanti nostri fratelli che oggi sono privi della libertà. Grazie Suor Nelly per le Sue parole e specialmente per la testimonianza che la vita trionfa sempre sulla morte. Sempre. Grazie Janeth per aver avuto il coraggio di condividere con tutti noi i tuoi dolori e quella coraggiosa richiesta di perdono. Quanto abbiamo da imparare da questo tuo atteggiamento pieno di coraggio e umiltà! Ti cito: “Chiediamo perdono a tutti quelli che abbiamo ferito con i nostri delitti”. Grazie perché ci ricordi questo atteggiamento senza il quale noi ci disumanizziamo. Tutti noi dobbiamo chiedere perdono, io per primo, tutti. Questo ci umanizza. Senza questo atteggiamento di chiedere perdono, perdiamo la coscienza di aver sbagliato e che ogni giorno siamo chiamati a ricominciare, in un modo o nell’altro. In questo momento il cuore mi fa anche ricordare la frase di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7) [il Papa sente che alcune detenute la citano insieme con lui]… la conoscete bene! E sapete cosa dico spesso nelle omelie quando parlo del fatto che tutti abbiamo qualcosa dentro, o per debolezza, o perché sempre cadiamo, e l’abbiamo molto nascosto? Dico alle persone: “Tutti siamo peccatori, abbiamo tutti dei peccati. Non so: c’è qualcuno qui che non ha peccati? Alzi la mano…”. Nessuno ha il coraggio di alzare la mano! Egli ci invita – Gesù – ad abbandonare la logica semplicistica di dividere la realtà in buoni e cattivi, per entrare in quell’altra dinamica capace di assumere la fragilità, i limiti e anche il peccato, per aiutarci ad andare avanti. Quando sono entrato, mi aspettavano le mamme con i loro figli. Sono stati loro a darmi il benvenuto, che si può esprimere in due parole: madre e figli. Madre: molte di voi sono madri e sapete cosa significa dare la vita. Avete saputo “portare” nel vostro seno una vita e l’avete data alla luce. La maternità non è e non sarà mai un problema, è un dono, è uno dei più meravigliosi regali che potete avere. Oggi siete di fronte a una sfida molto simile: si tratta ancora di generare vita. Oggi a voi è chiesto di dare alla luce il futuro. Di farlo crescere, di aiutarlo a svilupparsi. Non solo per voi, ma per i vostri figli e per tutta la società. Voi, donne, avete una capacità incredibile di adattarvi alle situazioni e di andare avanti. Vorrei oggi fare appello alla capacità di generare futuro. Capacità di generare futuro che vive in ognuna di voi. Quella capacità che vi permette di lottare contro i tanti determinismi “cosificatori”, cioè che trasformano le persone in cose, che finiscono per uccidere la speranza. Nessuno di noi è una cosa: siamo tutti persone, e come persone abbiamo questa dimensione della speranza. Non lasciamoci “cosificare”. Non sono un numero, non sono il detenuto numero tale, sono Tizio o Caio che porta dentro di sé la speranza e vuole dare alla luce speranza. Essere private della libertà, come ci diceva bene Janeth, non è sinonimo di perdita di sogni e di speranze. E’ vero, è molto duro, è doloroso, ma non vuol dire perdere la speranza. Non vuol dire smettere di sognare. Essere privato della libertà non è la stessa cosa che essere privo di dignità, no, non è la stessa cosa. La dignità non si tocca, a nessuno. Si cura, si custodisce, si accarezza. Nessuno può essere privato della dignità. Voi siete private della libertà. Da qui consegue che bisogna lottare contro ogni tipo di cliché, di etichetta che dica che non si può cambiare, o che non ne vale la pena, o che il risultato è sempre lo stesso. Come dice il tango argentino: “Dai, avanti così, che tutto è uguale, che là all’inferno ci ritroveremo…”. No, non è tutto lo stesso. Care sorelle, no! Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore – anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto – darà sempre frutto e vi verrà ricompensato. La seconda parola è figli: essi sono forza, sono speranza, sono stimolo. Sono il ricordo vivo che la vita si costruisce guardando avanti e non indietro. Oggi siete private della libertà, ma ciò non vuol dire che questa situazione sia definitiva. Niente affatto. Sempre guardare l’orizzonte, in avanti, verso il reinserimento nella vita ordinaria della società. Una pena senza futuro, una condanna senza futuro non è una condanna umana: è una tortura. Ogni pena che una persona si trova a scontare per pagare un debito con la società, deve avere un orizzonte, l’orizzonte di reinserirmi di nuovo e quindi di prepararmi al reinserimento. Questo esigetelo, da voi stesse e dalla società. Guardate sempre l’orizzonte, guardate sempre avanti verso il reinserimento nella vita ordinaria della società. Per questo, apprezzo e invito a intensificare tutti gli sforzi possibili affinché i progetti come “Espacio Mandela” e “Fundación Mujer levántate” possano crescere e rafforzarsi. Il nome di questa Fondazione mi fa ricordare quel passo evangelico in cui molti prendevano in giro Gesù perché diceva che la figlia del capo della sinagoga non era morta, ma addormentata. Lo deridevano per questo. Di fronte allo scherno, l’atteggiamento di Gesù è paradigmatico: entrando dove stava la ragazza, la prese per mano e le disse: «Fanciulla, io ti dico: alzati!» (Mc 5,41). Per tutti era morta, per Gesù no. Questo tipo di iniziative sono segno vivo di Gesù che entra nella vita di ognuno di noi, che va oltre ogni scherno, che non dà per persa nessuna battaglia, ci prende per mano e ci invita ad alzarci. Che bello che ci siano cristiani e persone di buona volontà, che ci siano persone di qualunque credenza, di qualunque scelta religiosa nella vita, o anche non religiosa, ma di buona volontà, che seguono le orme di Gesù, che hanno il coraggio di entrare ed essere segno di quella mano tesa cha fa rialzare. Io te lo chiedo: alzati! Sempre rialzarsi. Tutti sappiamo che molte volte, purtroppo, la pena del carcere si riduce soprattutto a un castigo, senza offrire strumenti adeguati per attivare processi. E’ quello che dicevo della speranza: guardare avanti, generare processi di reinserimento. Questo dev’essere il vostro sogno: il reinserimento. E se è lungo portare avanti questo cammino, fare il meglio possibile perché sia più breve. Ma sempre reinserimento. La società ha l’obbligo – l’obbligo! – di reinserire tutte voi. Quando dico “reinserire tutte voi”, dico reinserire ognuna di voi, ognuna con un processo personale di reinserimento: una con un cammino, un’altra con un altro, una per un tempo più lungo, un’altra più corto; ma una persona che è in cammino verso il reinserimento. Questo dovete mettervelo in testa e dovete esigerlo. E questo vuol dire generare un processo, attivare un processo. E questi spazi che promuovono programmi di apprendistato lavorativo e di accompagnamento per ricomporre legami sono segno di speranza e di futuro. Adoperiamoci perché crescano. La sicurezza pubblica non va ridotta solo a misure di maggior controllo ma soprattutto va costruita con misure di prevenzione, col lavoro, l’educazione e più vita comunitaria. Con questi pensieri voglio benedire tutte voi e anche salutare gli operatori pastorali, i volontari, il personale e, in modo speciale, i funzionari della Gendarmeria e le loro famiglie. Prego per voi. Voi avete un compito delicato e complesso, e per questo auspico che le Autorità possano assicurarvi anche le condizioni necessarie per svolgere il vostro lavoro con dignità. Dignità che genera dignità. La dignità si contagia, si contagia più dell’influenza; la dignità si contagia. La dignità genera dignità. A Maria, che è Madre e per la quale siamo figli – e voi siete sue figlie –, chiediamo che interceda per voi, per ognuno dei vostri figli, per le persone che avete nel cuore, e vi copra col suo mantello. E, per favore, vi chiedo di pregare per me, perché ne ho bisogno. Grazie.
Viaggio Apostolico in Cile: Incontro con i Sacerdoti, Religiosi, Religiose, Consacrati e Seminaristi
Cari fratelli e sorelle, buonasera. Sono contento di condividere questo incontro con voi. Mi è piaciuto il modo con cui il Cardinal Ezzati vi ha presentato: “Ecco, ecco le consacrate, i consacrati, i presbiteri, i diaconi permanenti, i seminaristi...”. Eccoli. Mi è venuto in mente il giorno della nostra ordinazione o consacrazione quando, dopo la presentazione, abbiamo detto: «Eccomi, Signore, per fare la tua volontà». In questo incontro desideriamo dire al Signore: «Eccoci», per rinnovare il nostro “sì”. Vogliamo rinnovare insieme la risposta alla chiamata che un giorno scosse il nostro cuore. E per fare questo, credo che ci possa aiutare partire dal brano del Vangelo che abbiamo ascoltato e condividere tre momenti di Pietro e della prima comunità: Pietro e la comunità abbattuta, Pietro e la comunità perdonata e Pietro e la comunità trasfigurata. Gioco con questo binomio Pietro-comunità poiché l’esperienza degli apostoli ha sempre questo duplice aspetto, quello personale e quello comunitario. Vanno insieme e non li possiamo separare. Siamo, sì, chiamati individualmente, ma sempre ad esser parte di un gruppo più grande. Non esiste il “selfie vocazionale”, non esiste. La vocazione esige che la foto te la scatti un altro: che possiamo farci? Le cose stanno così. 1. Pietro abbattuto e la comunità abbattuta Mi è sempre piaciuto lo stile dei Vangeli di non decorare né addolcire gli avvenimenti, e nemmeno di dipingerli belli. Ci presentano la vita com’è e non come dovrebbe essere. Il Vangelo non ha paura di mostrarci i momenti difficili, e perfino conflittuali, che i discepoli hanno attraversato. Ricomponiamo la scena. Avevano ucciso Gesù; alcune donne dicevano che era vivo (cfr Lc 24,22-24). Anche se avevano visto Gesù risorto, l’evento era talmente forte che i discepoli avevano bisogno di tempo per comprendere l’accaduto. Luca dice: “Era così grande la gioia che non potevano crederci”. Avevano bisogno di tempo per comprendere quello che era successo. Comprensione che arriverà a Pentecoste, con l’invio dello Spirito Santo. L’irruzione del Risorto prenderà tempo per calare nel cuore dei suoi. I discepoli ritornano alla loro terra. Vanno a fare quello che sapevano fare: pescare. Non c’erano tutti, solo alcuni. Divisi? Frammentati? Non lo sappiamo. Quello che ci dice la Scrittura è che quelli che c’erano non hanno pescato niente. Hanno le reti vuote. Ma c’era un altro vuoto che pesava inconsciamente su di loro: lo smarrimento e il turbamento per la morte del loro Maestro. Non c’è più, è stato crocifisso. Non solo Lui era stato crocifisso, ma anche loro, perché la morte di Gesù aveva messo in evidenza un vortice di conflitti nel cuore dei suoi amici. Pietro lo aveva rinnegato, Giuda lo aveva tradito, gli altri erano fuggiti o si erano nascosti. Solo un pugno di donne e il discepolo amato erano rimasti. Il resto, se n’era andato. Questione di giorni, e tutto era crollato. Sono le ore dello smarrimento e del turbamento nella vita del discepolo. Nei momenti «in cui il polverone delle persecuzioni, delle tribolazioni, dei dubbi e così via, si alza per avvenimenti culturali e storici, non è facile trovare la strada da seguire. Esistono varie tentazioni che caratterizzano questo momento: discutere di idee, non dare la dovuta attenzione al fatto, fissarsi troppo sui persecutori… e credo che la peggiore di tutte le tentazioni è fermarsi a ruminare la desolazione».[1] Sì, stare a ruminare la desolazione. Questo è quello che è successo ai discepoli. Come ci diceva il Card. Ezzati: «La vita presbiterale e consacrata in Cile ha attraversato e attraversa ore difficili di turbolenza e sfide non indifferenti. Insieme alla fedeltà della stragrande maggioranza, è cresciuta anche la zizzania del male col suo seguito di scandalo e diserzione». Momento di turbolenza. Conosco il dolore che hanno significato i casi di abusi contro minori e seguo con attenzione quanto fate per superare questo grave e doloroso male. Dolore per il danno e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie, che hanno visto tradita la fiducia che avevano posto nei ministri della Chiesa. Dolore per la sofferenza delle comunità ecclesiali; e dolore anche per voi, fratelli, che oltre alla fatica della dedizione avete vissuto il danno provocato dal sospetto e dalla messa in discussione, che in alcuni o in molti può aver insinuato il dubbio, la paura e la sfiducia. So che a volte avete subito insulti sulla metropolitana o camminando per la strada; che andare “vestiti da prete” in molte zone si sta “pagando caro”. Per questo vi invito a chiedere a Dio che ci dia la lucidità di chiamare la realtà col suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare quello che Lui ci sta dicendo, e non ruminare la desolazione. Mi piacerebbe poi aggiungere un altro aspetto importante. Le nostre società stanno cambiando. Il Cile di oggi è molto diverso da quello che conobbi al tempo della mia giovinezza, quando mi formavo. Stanno nascendo nuove e varie forme culturali che non si adattano ai contorni conosciuti. E dobbiamo riconoscere che, tante volte, non sappiamo come inserirci in queste nuove situazioni. Spesso sogniamo le “cipolle d’Egitto” e ci dimentichiamo che la terra promessa sta davanti, e non dietro. Che la promessa è di ieri, ma per domani. E allora possiamo cadere nella tentazione di chiuderci e isolarci per difendere le nostre posizioni che finiscono per essere nient’altro che bei monologhi. Possiamo essere tentati di pensare che tutto va male, e invece di professare una “buona novella”, ciò che professiamo è solo apatia e disillusione. Così chiudiamo gli occhi davanti alle sfide pastorali credendo che lo Spirito non abbia nulla da dire. Così ci dimentichiamo che il Vangelo è un cammino di conversione, ma non solo “degli altri”, ma anche nostra. Ci piaccia o no, siamo invitati ad affrontare la realtà così come ci si presenta. La realtà personale, comunitaria e sociale. Le reti – dicono i discepoli – sono vuote, e possiamo comprendere i sentimenti che questo genera. Tornano a casa senza grandi avventure da raccontare; tornano a casa a mani vuote; tornano a casa abbattuti. Cosa è rimasto di quei discepoli forti, coraggiosi, vivaci, che si sentivano scelti e avevano lasciato tutto per seguire Gesù (cfr Mc 1,16-20)? Cosa è rimasto di quei discepoli sicuri di sé, che sarebbero andati in prigione e avrebbero dato persino la vita per il loro Maestro (cfr Lc 22,33), che per difenderlo volevano scagliare il fuoco sulla terra (cfr Lc 9,54); che per Lui avrebbero sguainato la spada e dato battaglia (cfr Lc 22,49-51)? Cosa è rimasto del Pietro che rimproverava il suo Maestro su come avrebbe dovuto condurre la propria vita (cfr Mc 8,31-33), il suo programma di redenzione? La desolazione. 2. Pietro perdonato – la comunità perdonata È l’ora della verità nella vita della prima comunità. È l’ora in cui Pietro si confrontò con parte di sé stesso. Con la parte della sua verità che molte volte non voleva vedere. Fece l’esperienza del suo limite, della sua fragilità, del suo essere peccatore. Pietro l’istintivo, l’impulsivo capo e salvatore, con una buona dose di autosufficienza e un eccesso di fiducia in sé stesso e nelle sue possibilità, dovette sottomettersi alla propria debolezza e al proprio peccato. Lui era tanto peccatore quanto gli altri, era tanto bisognoso quanto gli altri, era tanto fragile quanto gli altri. Pietro deluse Colui al quale aveva giurato protezione. Un’ora cruciale nella vita di Pietro. Come discepoli, come Chiesa, ci può accadere lo stesso: ci sono momenti in cui ci confrontiamo non con le nostre glorie, ma con la nostra debolezza. Ore cruciali nella vita dei discepoli, ma quella è anche l’ora in cui nasce l’apostolo. Lasciamoci guidare dal testo. «Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”» (Gv 21,15). Dopo mangiato, Gesù invita Pietro a fare due passi e l’unica parola è una domanda, una domanda di amore: Mi ami? Gesù non usa né il rimprovero né la condanna. L’unica cosa che vuole fare è salvare Pietro. Lo vuole salvare dal pericolo di restare rinchiuso nel suo peccato, di restare a “masticare” la desolazione frutto del suo limite; salvarlo dal pericolo di venir meno, a causa dei suoi limiti, a tutto il bene che aveva vissuto con Gesù. Gesù lo vuole salvare dalla chiusura e dall’isolamento. Lo vuole salvare da quell’atteggiamento distruttivo che è il vittimismo o, al contrario, dal cadere in un “tanto è tutto uguale” che finisce per annacquare qualsiasi impegno nel relativismo più dannoso. Vuole liberarlo dal considerare chiunque gli si oppone come se fosse un nemico, o dal non accettare con serenità le contraddizioni o le critiche. Vuole liberarlo dalla tristezza e specialmente dal malumore. Con quella domanda, Gesù invita Pietro ad ascoltare il proprio cuore e imparare a discernere. Perché «non era di Dio difendere la verità a costo della carità, né la carità a costo della verità, né l’equilibrio a costo di entrambe. Occorre discernere. Gesù vuole evitare che Pietro diventi un verace distruttore o un caritatevole menzognero o un perplesso paralizzato»,[2] come può capitarci in queste situazioni. Gesù interrogò Pietro sull’amore e insistette con lui finché lui poté dargli una risposta realistica: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17). Così Gesù lo conferma nella missione. Così lo fa diventare definitivamente suo apostolo. Che cosa fortifica Pietro come apostolo? Che cosa mantiene noi come apostoli? Una cosa sola: ci è stata usata misericordia (cfr 1 Tm 1,12-16). Siamo stati trattati con misericordia. «In mezzo ai nostri peccati, limiti, miserie; in mezzo alle nostre molteplici cadute, Gesù ci ha visto, si è avvicinato, ci ha dato la mano e ci ha usato misericordia. Ognuno di noi potrebbe fare memoria, ricordando tutte le volte in cui il Signore lo ha visto, lo ha guardato, si è avvicinato e gli ha usato misericordia».[3] E vi invito a fare questo. Non siamo qui perché siamo migliori degli altri. Non siamo supereroi che, dall’alto, scendono a incontrarsi con i “mortali”. Piuttosto siamo inviati con la consapevolezza di essere uomini e donne perdonati. E questa è la fonte della nostra gioia. Siamo consacrati, pastori nello stile di Gesù ferito, morto e risorto. Il consacrato – e quando dico “consacrati”, dico tutti quelli che sono qui – è colui e colei che incontra nelle proprie ferite i segni della Risurrezione; che riesce a vedere nelle ferite del mondo la forza della Risurrezione; che, come Gesù, non va incontro ai fratelli con il rimprovero e la condanna. Gesù Cristo non si presenta ai suoi senza piaghe; proprio partendo dalle sue piaghe Tommaso può confessare la fede. Siamo invitati a non dissimulare o nascondere le nostre piaghe. Una Chiesa con le piaghe è capace di comprendere le piaghe del mondo di oggi e di farle sue, patirle, accompagnarle e cercare di sanarle. Una Chiesa con le piaghe non si pone al centro, non si crede perfetta, ma pone al centro l’unico che può sanare le ferite e che ha un nome: Gesù Cristo. La consapevolezza di avere delle piaghe ci libera; sì, ci libera dal diventare autoreferenziali, di crederci superiori. Ci libera da quella tendenza «prometeica di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato».[4] In Gesù, le nostre piaghe sono risorte. Ci rendono solidali; ci aiutano a distruggere i muri che ci imprigionano in un atteggiamento elitario per stimolarci a gettare ponti e andare incontro a tanti assetati del medesimo amore misericordioso che solo Cristo ci può offrire. «Quante volte sogniamo piani apostolici espansionistici, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”»[5]. Vedo con una certa preoccupazione che ci sono comunità che vivono prese dall’ansia più di figurare sul cartellone, di occupare spazi, di apparire e mostrarsi, che non di rimboccarsi le maniche e andare a toccare la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Come ci mette in discussione la riflessione di quel santo cileno che avvertiva: «Saranno, dunque, metodi falsi tutti quelli che vengono imposti per uniformità; tutti quelli che pretendono di orientarci a Dio facendoci dimenticare i nostri fratelli; tutti quelli che ci fanno chiudere gli occhi sull’universo, invece di insegnarci ad aprirli per elevare tutto al Creatore di ogni cosa; tutti quelli che ci rendono egoisti e ci fanno ripiegare su noi stessi»[6]. Il Popolo di Dio non aspetta né ha bisogno di noi come supereroi, aspetta pastori, uomini e donne consacrati, che conoscano la compassione, che sappiano tendere una mano, che sappiano fermarsi davanti a chi è caduto e, come Gesù, aiutino ad uscire da quel giro vizioso di “masticare” la desolazione che avvelena l’anima. 3. Pietro trasfigurato – la comunità trasfigurata Gesù invita Pietro a discernere e così iniziano a prendere forza molti avvenimenti della vita di Pietro, come il gesto profetico della lavanda dei piedi. Pietro, quello che aveva opposto resistenza a lasciarsi lavare i piedi, incominciava a capire che la vera grandezza passa per il farsi piccoli e servitori.[7] Che pedagogia quella di nostro Signore! Dal gesto profetico di Gesù alla Chiesa profetica che, lavata dal proprio peccato, non ha paura di andare a servire un’umanità ferita. Pietro ha sperimentato nella propria carne la ferita non solo del peccato, ma anche dei propri limiti e debolezze. Ma ha scoperto in Gesù che le sue ferite possono essere via di Risurrezione. Conoscere Pietro abbattuto per conoscere Pietro trasfigurato è l’invito a passare dall’essere una Chiesa di abbattuti desolati a una Chiesa servitrice di tanti abbattuti che vivono accanto a noi. Una Chiesa capace di porsi al servizio del suo Signore nell’affamato, nel carcerato, nell’assetato, nel senzatetto, nel denudato, nel malato… (cfr Mt 25,35). Un servizio che non si identifica con l’assistenzialismo o il paternalismo, ma con la conversione del cuore. Il problema non sta nel dar da mangiare al povero, vestire il denudato, assistere l’infermo, ma nel considerare che il povero, il denudato, il malato, il carcerato, il senzatetto hanno la dignità di sedersi alle nostre tavole, di sentirsi “a casa” tra noi, di sentirsi in famiglia. Quello è il segno che il Regno di Dio è in mezzo a noi. È il segno di una Chiesa che è stata ferita a causa del proprio peccato, colmata di misericordia dal suo Signore, e convertita in profetica per vocazione. Rinnovare la profezia è rinnovare il nostro impegno di non aspettare un mondo ideale, una comunità ideale, un discepolo ideale per vivere o per evangelizzare, ma di creare le condizioni perché ogni persona abbattuta possa incontrarsi con Gesù. Non si amano le situazioni, né le comunità ideali, si amano le persone. Il riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti, lungi dal separarci dal nostro Signore, ci permette di ritornare a Gesù sapendo che «Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità, e anche se attraversa epoche oscure e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai. […] Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale».[8] Come fa bene a tutti noi lasciare che Gesù ci rinnovi il cuore! All’inizio di questo incontro vi dicevo che venivamo a rinnovare il nostro “sì”, con slancio, con passione. Vogliamo rinnovare il nostro “sì”, ma realistico, perché basato sullo sguardo di Gesù. Vi invito quando tornate a casa a preparare nel vostro cuore una specie di testamento spirituale, sul modello del Cardinal Raúl Silva Henríquez. Quella bella preghiera che inizia dicendo: «La Chiesa che io amo è la Santa Chiesa di tutti i giorni… la tua, la mia, la Santa Chiesa di tutti i giorni… …Gesù, il Vangelo, il pane, l’Eucaristia, il Corpo di Cristo umile ogni giorno. Con i volti dei poveri e i volti di uomini e donne che cantavano, che lottavano, che soffrivano. La Santa Chiesa di tutti i giorni». Ti chiedo: Com’è la Chiesa che tu ami? Ami questa Chiesa ferita che trova vita nelle piaghe di Gesù? Grazie per questo incontro. Grazie per l’opportunità di rinnovare il “sì” con voi. La Vergine del Carmelo vi copra col suo manto. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie. [1] Jorge M. Bergoglio, Las cartas de la tribulación, 9, Ed. Diego de Torres, Buenos Aires 1987. [2] Cfr ibid. [3]Videomessaggio al CELAM in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia nel Continente americano, 27 agosto 2016. [4] Esort. ap. Evangelii gaudium, 94. [5]Ibid., 96. [6] San Alberto Hurtado, Discurso a jóvenes de la Acción Católica, 1943. [7] «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35). [8] Esort. ap. Evangelii gaudium, 11.
Cari fratelli, ringrazio per le parole che il Presidente della Conferenza Episcopale mi ha rivolto a nome di tutti voi. Prima di tutto desidero salutare Mons. Bernardino Piñera Carvallo, che quest’anno compirà 60 anni di episcopato (è il Vescovo più anziano del mondo, tanto in età come in anni di episcopato) e che ha vissuto quattro sessioni del Concilio Vaticano II. Bella memoria vivente! Tra poco si compirà un anno dalla vostra visita ad limina; adesso tocca a me venirvi a visitare e sono contento che questo incontro avvenga dopo quello che ho avuto con il “mondo consacrato”. Poiché uno dei nostri compiti principali consiste proprio nello stare vicini ai nostri consacrati, ai nostri presbiteri. Se il pastore si disperde, anche le pecore si disperderanno e saranno alla portata di qualsiasi lupo. Fratelli, la paternità del vescovo con i suoi sacerdoti, col suo presbiterio! Una paternità che non è né paternalismo né abuso di autorità. E’ un dono da chiedere. State vicini ai vostri sacerdoti nello stile di San Giuseppe. Una paternità che aiuta a crescere e a sviluppare i carismi che lo Spirito ha voluto effondere sui vostri rispettivi presbitèri. So che eravamo rimasti d’accordo per usare poco tempo perché già nei colloqui delle due lunghe sessioni della visita ad limina abbiamo toccato molti temi. Perciò in questo “saluto” mi piacerebbe riprendere qualche punto dell’incontro che abbiamo avuto a Roma, e lo potrei riassumere nella seguente frase: la coscienza di essere popolo, di essere Popolo di Dio. Uno dei problemi che affrontano oggigiorno le nostre società è il sentimento di essere orfani, cioè di non appartenere a nessuno. Questo sentire “postmoderno” può penetrare in noi e nel nostro clero; allora incominciamo a pensare che non apparteniamo a nessuno, dimentichiamo che siamo parte del santo Popolo fedele di Dio e che la Chiesa non è e non sarà mai un’élite di consacrati, sacerdoti o vescovi. Non possiamo sostenere la nostra vita, la nostra vocazione o ministero senza questa coscienza di essere Popolo. Dimenticarci di questo – come mi esprimevo rivolgendomi alla Commissione per l’America Latina – «comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato».[1] La mancanza di consapevolezza di appartenere al Popolo fedele di Dio come servitori, e non come padroni, ci può portare a una delle tentazioni che arrecano maggior danno al dinamismo missionario che siamo chiamati a promuovere: il clericalismo, che risulta una caricatura della vocazione ricevuta. La mancanza di consapevolezza del fatto che la missione è di tutta la Chiesa e non del prete o del vescovo limita l’orizzonte e, quello che è peggio, limita tutte le iniziative che lo Spirito può suscitare in mezzo a noi. Diciamolo chiaramente, i laici non sono i nostri servi, né i nostri impiegati. Non devono ripetere come “pappagalli” quello che diciamo. «Il clericalismo lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo a poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il Popolo fedele di Dio (cfr Lumen gentium, 9-14) e non solo a pochi eletti e illuminati».[2] Vigiliamo, per favore, contro questa tentazione, specialmente nei seminari e in tutto il processo formativo. Vi confesso, mi preoccupa la formazione dei seminaristi: che siano pastori al servizio del Popolo di Dio; come dev’essere un pastore, con la dottrina, con la disciplina, con i Sacramenti, con la vicinanza, con le opere di carità, ma che abbiano questa coscienza di Popolo. I seminari devono porre l’accento sul fatto che i futuri sacerdoti siano capaci di servire il santo Popolo fedele di Dio, riconoscendo la diversità di culture e rinunciando alla tentazione di qualsiasi forma di clericalismo. Il sacerdote è ministro di Cristo, il quale è il protagonista che si rende presente in tutto il Popolo di Dio. I sacerdoti di domani devono formarsi guardando al domani: il loro ministero si svilupperà in un mondo secolarizzato e, pertanto, chiede a noi pastori di discernere come prepararli a svolgere la loro missione in questo scenario concreto e non nei nostri “mondi o stati ideali”. Una missione che avviene in unione fraterna con tutto il Popolo di Dio. Gomito a gomito, dando impulso e stimolando il laicato in un clima di discernimento e sinodalità, due caratteristiche essenziali del sacerdote di domani. No al clericalismo e a mondi ideali che entrano solo nei nostri schemi ma che non toccano la vita di nessuno. E qui chiedere allo Spirito Santo il dono di sognare; per favore, non smettete di sognare, sognare e lavorare per una opzione missionaria e profetica che sia capace di trasformare tutto, affinché le abitudini, gli stili, gli orari, il linguaggio ed ogni struttura ecclesiale diventino strumenti adatti per l’evangelizzazione del Cile più che per un’autoconservazione ecclesiastica. Non abbiamo paura di spogliarci di ciò che ci allontana dal mandato missionario.[3] Fratelli, era questo che volevo dirvi come riassunto delle cose principali di cui abbiamo parlato nel corso delle visite ad limina. Affidiamoci alla protezione di Maria, Madre del Cile. Preghiamo insieme per i nostri presbiteri, per i nostri consacrati; preghiamo per il santo Popolo fedele di Dio, del quale facciamo parte. Grazie! [1] Lettera al Cardinal Marc Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina (19 marzo 2016). [2] Ibid. [3] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 27.
Santa Messa per il progresso dei popoli
Mari, Mari» (buongiorno) «Küme tünngün ta niemün» «La pace sia con voi» (Lc 24,36). Ringrazio Dio per avermi permesso di visitare questa bella parte del nostro continente, l’Araucanía: terra benedetta dal Creatore con la fertilità dei immensi campi verdi, foreste colme di imponenti araucarie – il quinto elogio fatto da Gabriela Mistral a questa terra cilena –,[1] i suoi maestosi vulcani innevati, i suoi laghi e fiumi pieni di vita. Questo paesaggio ci eleva a Dio ed è facile vedere la sua mano in ogni creatura. Molte generazioni di uomini e donne hanno amato e amano questo suolo con gelosa gratitudine. E voglio soffermarmi e salutare in modo speciale i membri del popolo Mapuche, così come gli altri popoli indigeni che vivono in queste terre australi: Rapanui (Isola di Pasqua), Aymara, Quechua e Atacama, e molti altri. Questa terra, se la guardiamo con gli occhi dei turisti, ci lascerà estasiati, però dopo continueremo la nostra strada come prima, ricordandoci dei bei paesaggi che abbiamo visto; se invece ci avviciniamo al suolo lo sentiremo cantare: «Arauco ha un dolore che non posso tacere, sono ingiustizie di secoli che tutti vedono commettere».[2] In questo contesto di ringraziamento per questa terra e per la sua gente, ma anche di sofferenza e di dolore, celebriamo l’Eucaristia. E lo facciamo in questo aerodromo di Maqueue, nel quale si sono verificate gravi violazioni di diritti umani. Offriamo questa celebrazione per tutti coloro che hanno sofferto e sono morti e per quelli che, ogni giorno, portano sulle spalle il peso di tante ingiustizie. E ricordando queste cose, rimaniamo un istante in silenzio, pensando a tanto dolore e a tanta ingiustizia. Il sacrificio di Gesù sulla croce è carico di tutto il peccato e il dolore dei nostri popoli, un dolore da riscattare. Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù prega il Padre che «tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). In un’ora cruciale della sua vita si ferma a chiedere l’unità. Il suo cuore sa che una delle peggiori minacce che colpisce e colpirà il suo popolo e tutta l’umanità sarà la divisione e lo scontro, la sopraffazione degli uni sugli altri. Quante lacrime versate! Oggi vogliamo fare nostra questa preghiera di Gesù, vogliamo entrare con Lui in questo orto di dolore, anche con i nostri dolori, per chiedere al Padre con Gesù: che anche noi siamo una cosa sola. Non permettere che ci vinca lo scontro o la divisione. Questa unità, implorata da Gesù, è un dono che va chiesto con insistenza per il bene della nostra terra e dei suoi figli. Ed bisogna stare attenti a possibili tentazioni che possono apparire e “inquinare dalla radice” questo dono che Dio ci vuole fare e con cui ci invita ad essere autentici protagonisti della storia. Quali sono queste tentazioni? Una è quella dei falsi sinonimi. 1. I falsi sinonimi Una delle principali tentazioni da affrontare è quella di confondere unità con uniformità. Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze. L’unità non è un simulacro né di integrazione forzata né di emarginazione armonizzatrice. La ricchezza di una terra nasce proprio dal fatto che ogni componente sappia condividere la propria sapienza con le altre. Non è e non sarà un’uniformità asfissiante che nasce normalmente dal predominio e dalla forza del più forte, e nemmeno una separazione che non riconosca la bontà degli altri. L’unità domandata e offerta da Gesù riconosce ciò che ogni popolo, ogni cultura è invitata ad apportare a questa terra benedetta. L’unità è una diversità riconciliata perché non tollera che in suo nome si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie. Abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori e culture inferiori. Un bel chamal (manto) richiede tessitori che conoscano l’arte di armonizzare i diversi materiali e colori; che sappiano dare tempo ad ogni cosa e ad ogni fase. Potrà essere imitato in modo industriale, ma tutti riconosceremo che è un indumento confezionato sinteticamente. L’arte dell’unità esige e richiede autentici artigiani che sappiano armonizzare le differenze nei “laboratori” dei villaggi, delle strade, delle piazze e dei vari paesaggi. Non è un’arte da scrivania l'unità, né fatta solo di documenti, è un’arte dell’ascolto e del riconoscimento. In questo è radicata la sua bellezza e anche la sua resistenza al passare del tempo e delle intemperie che dovrà affrontare. L’unità di cui i nostri popoli hanno bisogno richiede che ci ascoltiamo, ma soprattutto che ci riconosciamo, il che non significa solo «ricevere informazioni sugli altri [...] ma raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi».[3] Questo ci introduce sulla via della solidarietà come modo di tessere l’unità, come modo di costruire la storia; quella solidarietà che ci porta a dire: abbiamo bisogno gli uni degli altri nelle nostre differenze affinché questa terra continui a essere bella. È l’unica arma che abbiamo contro la “deforestazione” della speranza. Ecco perché chiediamo: Signore, rendici artigiani di unità. Un'altra tentazione può venire dalla considerazione di quali sono le armi dell'unità. 2. Le armi dell’unità L’unità, se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo. Ci sono due forme di violenza che più che far avanzare i processi di unità e riconciliazione finiscono per minacciarli. In primo luogo, dobbiamo essere attenti all’elaborazione di accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi. Belle parole, progetti conclusi sì – e necessari – ma che non diventando concreti finiscono per “cancellare con il gomito quello che si è scritto con la mano”. Anche questa è violenza. Perché? Perché frustra la speranza. In secondo luogo, è imprescindibile sostenere che una cultura del mutuo riconoscimento non si può costruire sulla base della violenza e della distruzione che alla fine chiedono il prezzo di vite umane. Non si può chiedere il riconoscimento annientando l’altro, perché questo produce come unico risultato maggiore violenza e divisione. La violenza chiama violenza, la distruzione aumenta la frattura e la separazione. La violenza finisce per rendere falsa la causa più giusta. Per questo diciamo “no alla violenza che distrugge”, in nessuna delle sue due forme. Questi atteggiamenti sono come lava di vulcano che tutto distrugge, tutto brucia, lasciando dietro di sé solo sterilità e desolazione. Cerchiamo, invece, e non stanchiamoci di cercare il dialogo per l’unità. Per questo diciamo con forza: Signore, rendici artigiani della tua unità. Tutti noi che, in una certa misura, siamo gente tratta dalla terra (Gen 2,7), siamo chiamati al buon vivere (Küme Mongen), come ci ricorda la saggezza ancestrale del popolo Mapuche. Quanta strada da percorrere, quanta strada per imparare! Küme Monge, un anelito profondo che scaturisce non solo dai nostri cuori, ma risuona come un grido, come un canto in tutto il creato. Perciò, fratelli, per i figli di questa terra, per i figli dei loro figli, diciamo con Gesù al Padre: che anche noi siamo una cosa sola: Signore, rendici artigiani di unità. [1] Cfr Elogios de la tierra de Chile. [2] Violeta Parra, Arauco tiene una pena. [3] Esort. ap. Evangelii gaudium, 246.
Anch’io, Ariel, sono felice di essere con voi. Grazie per le tue parole di benvenuto a nome di tutti i presenti. Sono davvero grato di poter condividere questo momento con voi che, come ho letto lì [su uno striscione], “siete scesi dal divano e vi siete messi le scarpe”. Grazie! Considero per me molto importante incontrarci, camminare un po’ insieme, che ci aiutiamo a guardare in avanti! E penso che anche per voi è importante. Grazie! E sono felice che questo incontro si svolga qui a Maipú. In questa terra dove, con un abbraccio di fraternità, è stata fondata la storia del Cile; in questo Santuario che sorge all’incrocio delle strade tra il Nord e il Sud, che unisce la neve e l’oceano, e fa che il cielo e la terra abbiano una casa. Una casa per il Cile, una casa per voi, cari giovani, dove la Vergine del Carmelo vi aspetta e vi accoglie con il cuore aperto. E come accompagnò la nascita di questa nazione e accompagnò tanti cileni nel corso di questi duecento anni, così vuole continuare ad accompagnare quei sogni che Dio pone nel vostro cuore: sogni di libertà, sogni di gioia, sogni di un futuro migliore. Questi desideri, come dicevi tu Ariel, di «essere i protagonisti del cambiamento». Essere protagonisti. La Vergine del Carmelo vi accompagna perché siate i protagonisti del Cile che i vostri cuori sognano. E io so che il cuore dei giovani cileni sogna, e sogna in grande, non solo quando siete un po’ brilli, no, sempre sognate in grande, perché da queste terre sono nate esperienze che si sono allargate e moltiplicate attraverso diversi Paesi del nostro continente. E chi le ha promosse? Giovani come voi che hanno saputo vivere l’avventura della fede. Perché la fede provoca nei giovani sentimenti di avventura, che invita a viaggiare attraverso paesaggi incredibili, per niente facili, per niente tranquilli..., ma a voi piacciono le avventure e le sfide…, tranne a quelli che non sono ancora scesi dal divano: scendete alla svelta!, così possiamo continuare… Voi che siete specialisti, mettetegli le scarpe... Anzi, vi annoiate quando non avete delle sfide che vi stimolano. Questo si vede ad esempio, ogni volta che succede una catastrofe naturale: avete una enorme capacità di mobilitarvi che parla della generosità dei vostri cuori. Grazie. E ho voluto iniziare da questo riferimento alla patria, perché il cammino in avanti, i sogni che devono essere realizzati, il guardare sempre all’orizzonte si devono fare con i piedi per terra, e si inizia con i piedi sulla terra della patria. E se voi non amate la vostra patria, io non credo che possiate amare Gesù e che possiate amare Dio. L’amore per la patria è un amore per la madre: la chiamiamo “madre patria” perché qui siamo nati; ma essa stessa, come ogni madre, ci insegna a camminare e si dona a noi perché la facciamo vivere in altre generazioni. Per questo ho voluto iniziare con questo riferimento alla madre, alla madre patria. Se non siete patrioti – non nazionalisti, patrioti – non farete nulla nella vita. Amate la vostra terra, ragazzi e ragazze, amate il vostro Cile! Date il meglio di voi per il vostro Cile. Nel mio lavoro come vescovo, ho potuto scoprire che ci sono molte, ma veramente molte buone idee nei cuori e nelle menti dei giovani. E’ vero, voi siete inquieti, cercatori, idealisti. Sapete chi ha problemi? Il problema l’abbiamo noi adulti, quando ascoltiamo questi ideali, queste inquietudini dei giovani, e con la faccia da sapientoni diciamo: “Pensa così perché è giovane; presto maturerà”, o peggio: “si corromperà”. Ed è così, dietro il “presto maturerà”, contro queste illusioni e sogni, si nasconde il tacito “presto si corromperà”. Attenti a questo! Maturare vuol dire crescere e far crescere i sogni e far crescere le aspirazioni, non abbassare la guardia e lasciarsi comprare per due soldi, questo non è maturare. Quindi, quando noi adulti pensiamo questo, non ascoltateci. Sembra che in questo “presto maturerà” detto da noi grandi, sembra che vi buttiamo addosso una coperta bagnata per farvi tacere, sembra nascondersi il fatto che maturare voglia dire accettare le ingiustizie, credere che non possiamo fare nulla, che tutto è sempre stato così: “Perché dobbiamo cambiare, se è sempre stato così, se si è sempre fatto così?” Questo è corruzione. Maturare, la vera maturità significa portare avanti i sogni, le vostre aspirazioni, insieme, confrontandosi reciprocamente, discutendo tra di voi, ma sempre guardando avanti, non abbassando la guardia, non vendendo queste aspirazioni. E’ chiaro? [gridano: “Sì!”] Tenendo conto di tutta questa realtà dei giovani, ecco perché si sta realizzando… [si interrompe perché una ragazza si sente male]… Aspettiamo un minutino che prendano questa nostra sorella che si è sentita male e la accompagniamo con una piccola preghiera perché si rimetta subito… Per questa realtà di voi giovani, vorrei annunciarvi che ho convocato il Sinodo sulla fede e il discernimento in voi giovani, e inoltre l’Incontro dei giovani. Perché il Sinodo lo facciamo noi vescovi, riflettendo sui giovani, ma, sapete, io ho paura dei filtri, perché a volte le opinioni dei giovani per arrivare a Roma devono passare attraverso varie connessioni e queste proposte possono arrivare molto filtrate, non dalle compagnie aeree, ma da quelli che le trascrivono. Per questo voglio ascoltare i giovani, e per questo si fa questo Incontro dei giovani, incontro in cui voi sarete protagonisti: giovani di tutto il mondo, giovani cattolici e giovani non cattolici; giovani cristiani e di altre religioni; e giovani che non sanno se credono o non credono: tutti. Per ascoltarli, per ascoltarci, direttamente, perché è importante che voi parliate, che non vi lasciate mettere a tacere. A noi spetta aiutarvi perché siate coerenti con quello che dite, questo è il lavoro con cui vi possiamo aiutare; ma se voi non parlate, come potremo aiutarvi? E parlate con coraggio, e dite quello che pensate. Questo dunque lo potrete fare nella settimana di incontro prima della Domenica delle Palme, in cui verranno [a Roma] delegazioni di giovani da tutto il mondo, per aiutarci a far sì che la Chiesa abbia un volto giovane. Una volta, recentemente, una persona mi ha detto: “Io non so se parlare della Santa Madre Chiesa – parlava di un luogo specifico – o della Santa Nonna Chiesa!”. No, no, la Chiesa deve avere un volto giovane, e in questo voi ci dovete aiutare. Però, naturalmente, un volto giovane reale, pieno di vita, non giovane perché truccato con creme che ringiovaniscono, no, questo non serve, ma giovane perché dal profondo del cuore si lascia interpellare. Ed è questo di cui noi, la Santa Madre Chiesa, oggi ha bisogno da parte vostra: che ci interpelliate. E poi, preparatevi per la risposta; ma noi abbiamo bisogno che ci interpelliate, la Chiesa ha bisogno che voi diventiate maggiorenni, spiritualmente maggiorenni, e abbiate il coraggio di dirci: “Questo mi piace; questa strada mi sembra sia quella da fare; questo non va bene, questo non è un ponte ma è un muro”, e così via. Diteci quello che sentite, quello che pensate, e questo elaboratelo tra di voi nei gruppi di questo incontro, e poi questo andrà al Sinodo, dove certamente ci sarà una vostra rappresentanza, ma il Sinodo lo faranno i vescovi con la vostra rappresentanza, che raccoglierà tutti. E quindi preparatevi a questo incontro, e a quelli che andranno a questo incontro date le vostre idee, le vostre aspettative, quello che sentite nel cuore. Quanto ha bisogno di voi la Chiesa, e la Chiesa cilena, per “scuoterci” e aiutarci ad essere più vicini a Gesù! Questo è ciò che vi chiediamo: di scuoterci se siamo statici, di aiutarci a essere più vicini a Gesù. Le vostre domande, il vostro voler sapere, voler essere generosi esigono da noi che siamo più vicini a Gesù. Tutti siamo chiamati, sempre di nuovo, ad essere vicini a Gesù. Se un’attività, un piano pastorale, se questo incontro non ci aiuta a essere più vicini a Gesù, abbiamo perso tempo, abbiamo perso un pomeriggio, ore di preparazione. Aiutateci a essere più vicini a Gesù. E questo lo chiediamo a chi ci può condurre per mano. Guardiamo alla Madre [rivolto alla statua della Vergine]: ognuno nel proprio cuore le dica con le sue parole, a lei che è la prima discepola, che ci aiuti a essere più vicini a Gesù. Dal cuore, ognuno personalmente. E permettetemi di raccontarvi un aneddoto. Parlando un giorno con un giovane gli ho chiesto che cosa potesse metterlo di cattivo umore: “Che cosa ti mette di cattivo umore?” - perché il contesto era tale per poter fare questa domanda. E lui mi ha detto: “Quando al cellulare si scarica la batteria o quando perdo il segnale internet”. Gli ho chiesto: “Perché?”. Mi ha risposto: “Padre, è semplice, mi perdo tutto quello che succede, resto fuori dal mondo, come appeso. In quei momenti, vado di corsa a cercare un caricabatterie o una rete wi-fi e la password per riconnettermi”. Quella risposta mi ha insegnato, mi ha fatto pensare che con la fede può succederci la stessa cosa. Siamo tutti entusiasti, la fede si rinnova – un ritiro, una predica, un incontro, la visita del Papa – la fede cresce, ma dopo un primo tempo di cammino e di slancio iniziale, ci sono momenti in cui, senza accorgerci, comincia a calare la nostra “larghezza di banda”, a poco a poco, e quell’entusiasmo, quel voler rimanere connessi con Gesù si incomincia a perdere, e iniziamo a restare senza connessione, senza batteria, e allora ci prende il cattivo umore, diventiamo sfiduciati, tristi, senza forza, e incominciamo a vedere tutto negativo. Quando rimaniamo senza questa “connessione” che è quella che dà vita ai nostri sogni, il cuore inizia a perdere forza, a restare anch’esso senza carica e, come dice quella canzone, «il rumore intorno e la solitudine della città ci isolano da tutto. Il mondo che si capovolge cerca di immergermi in esso annegando le mie idee»[1]. Vi è successo qualche volta? Ognuno risponda dentro di sé…, non voglio far vergognare quelli a cui non è successo… A me è successo. Senza connessione, senza la connessione con Gesù, senza questa connessione finiamo per annegare le nostre idee, annegare i nostri sogni, annegare la nostra fede e dunque ci riempiamo di malumore. Da protagonisti – quali siamo e vogliamo essere – possiamo arrivare a pensare che è lo stesso fare qualcosa o non farlo. “Ma perché perdi tempo? – dice il giovane pessimista – divertiti, lascia perdere, tutte queste cose sappiamo come vanno a finire, il mondo non cambia, prendilo come viene a vai avanti…”. E rimaniamo disconnessi da ciò che sta accadendo nel “mondo”. E restiamo, sentiamo che restiamo “fuori dal mondo”, nel mio piccolo mondo dove sto tranquillo, lì, sul mio divano… Mi preoccupa quando, perdendo il “segnale”, molti pensano di non avere niente da dare e rimangono come persi. “Su, tu hai qualcosa da dare!” – “No, no, questo è un disastro… Io cerco di studiare, prendere un diploma, sposarmi, e poi basta, non voglio problemi, tanto tutto finisce male…”. Questo è quando si perde la connessione. Non pensare mai che non hai niente da dare o che non hai bisogno di nessuno. Molta gente ha bisogno di te, pensaci. Ognuno di voi lo pensi nel suo cuore: molta gente ha bisogno di me. Quel pensiero, come amava dire Hurtado, «è il consiglio del diavolo» - “nessuno ha bisogno di me” -, che vuole farti credere che non vali nulla... ma per lasciare le cose come stanno. Per questo ti fa credere che non vali niente: perché nulla cambi. Perché l’unico che può fare un cambiamento nella società è il giovane, uno di voi. Noi, siamo già “dall’altra parte”… [Un altro giovane sviene] Grazie, tra parentesi, perché questi svenimenti sono segno di quello che provano molti di voi… Da quanto tempo siete qui? Me lo dite? [alcuni rispondono] Grazie! Tutti, dicevo, siamo importanti e tutti abbiamo qualcosa da dare… con un momentino di silenzio ognuno di voi si può chiedere, seriamente, nel proprio cuore: “Che cosa ho io da dare nella vita?”. E quanti di voi hanno voglia di dire: “Non lo so”. Non sai che cosa hai da dare? Lo hai dentro e non lo conosci. Cerca di trovarlo in fretta per darlo. Il mondo ha bisogno di te, la patria ha bisogno di te, la società ha bisogno di te. Tu hai qualcosa da dare. Non perdere la connessione. I giovani del Vangelo che abbiamo ascoltato oggi volevano quel “segnale, cercavano quel segnale che li aiutasse a mantenere vivo il fuoco nei loro cuori. Quei giovani, che stavano con Giovanni il Battista, volevano sapere come caricare la batteria del cuore. Andrea e l’altro discepolo – che non dice il nome, e possiamo pensare che quell’altro discepolo può essere ognuno di noi – cercavano la password per connettersi con Colui che è «Via, Verità e Vita» (Gv 14,6). Erano guidati da Giovanni il Battista. E penso che voi abbiate un grande santo che può guidarvi, un santo che cantava con la sua vita: «Contento, Signore, contento!». Hurtado aveva una regola d’oro, una regola per accendere il suo cuore con quel fuoco capace di mantenere viva la gioia. Perché Gesù è quel fuoco che infiamma chi gli si avvicina. E la password di Hurtado per riconnettersi, per mantenere il segnale era molto semplice… Di sicuro nessuno di voi ha portato il telefono… vediamo… Mi piacerebbe che la appuntaste sui vostri cellulari. Se volete, io ve la detto. Hurtado si domanda – e questa è la password –: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”. Chi può se la segni. “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”. Cosa farebbe Cristo al mio posto a scuola, all’università, per strada, a casa, cogli amici, al lavoro; davanti a quelli che fanno i bulli: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”. Quando andate a ballare, quando fate sport o andate allo stadio: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”. Questa è la password. Questa è la carica per accendere il nostro cuore, accendere la fede e la scintilla nei nostri occhi. Che non vada via. Questo è essere protagonisti della storia. Occhi scintillanti perché abbiamo scoperto che Gesù è fonte di vita e di gioia. Protagonisti della storia, perché vogliamo contagiare quella scintilla in tanti cuori spenti, opachi, che hanno dimenticato cosa significa sperare; in tanti che sono apatici e aspettano che qualcuno li inviti e li provochi con qualcosa che valga la pena. Essere protagonisti è fare ciò che ha fatto Gesù. Lì dove sei, con chiunque ti trovi e a qualsiasi ora: “Cosa farebbe Gesù al mio posto?”. Avete memorizzato la password? [rispondono: “Sì!”] E l’unico modo per non dimenticare la password è usarla, altrimenti ci succede – chiaramente è più per quelli della mia età, non della vostra, però così lo sapete – quello capitò a quei tre pazzi di quel film che fanno un colpo, una rapina a una cassaforte, tutto studiato, e quando arrivano… si sono dimenticati la combinazione, si sono dimenticati la chiave. Se non usate la password la dimenticherete. Memorizzatela nel cuore! Com’era la password? [rispondono: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”]… Non si sente bene in spagnolo… Com’era? [la ripetono] Questa è la password. Ripetetela, ma usatela, usatela! Cosa farebbe Cristo al mio posto? E bisogna usarla tutti i giorni. Verrà il momento in cui la saprete a memoria; e verrà il giorno in cui, senza che ve ne rendiate conto, arriverà il giorno in cui, senza rendervene conto, il cuore di ognuno di voi batterà come il cuore di Gesù. Non basta ascoltare un insegnamento religioso o imparare una dottrina; quello che vogliamo è vivere come Gesù ha vissuto. Cosa farebbe Cristo al mio posto? Tradurre Gesù nella mia vita. Per questo i giovani del Vangelo gli chiedono: «Signore, dove abiti?»[2] - lo abbiamo ascoltato poco fa -, come vivi? Io lo chiedo a Gesù? Vogliamo vivere come Gesù, questo sì che fa vibrare il cuore. Fa vibrare il cuore e ti mette sulla strada del rischio. Correre il rischio, rischiare. Cari amici, siate coraggiosi, andate spediti incontro ai vostri amici, a quelli che non conoscete o che si trovano in un momento difficile. E andate con l’unica promessa che abbiamo: in mezzo al deserto, alla strada, all’avventura, ci sarà sempre la “connessione”, esisterà un “caricabatterie”. Non saremo soli. Sempre godremo della compagnia di Gesù e di sua Madre e di una comunità. Certamente una comunità che non è perfetta, ma ciò non significa che non abbia molto da amare e da offrire agli altri. Com’era la password? [rispondono: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”] Bene, la ricordate ancora. Cari amici, cari giovani, «siate voi – ve lo chiedo per favore – siate voi i giovani samaritani che non lasciano mai nessuno a terra lungo la strada. Nel cuore, un’altra domanda: qualche volta ho lasciato qualcuno a terra per la strada? Un parente, un amico, un’amica…? Siate samaritani, non abbandonate mai l’uomo a terra lungo la strada. Siate i giovani cirenei che aiutano Cristo a portare la sua croce e condividono la sofferenza dei fratelli. Siate come Zaccheo che trasformò il suo nanismo spirituale in grandezza e lasciò che Gesù trasformasse il suo cuore materialista in un cuore solidale. Siate come la giovane Maddalena, appassionata cercatrice dell’amore, che solo in Gesù trova le risposte di cui ha bisogno. Abbiate il cuore di Pietro, per lasciare le reti in riva al lago. Abbiate l’affetto di Giovanni, per riporre in Gesù tutti i vostri affetti. Abbiate la disponibilità di nostra Madre, la prima discepola, per cantare con gioia e fare la sua volontà»[3]. Cari amici, mi piacerebbe rimanere più a lungo. Quelli che hanno il telefono, lo prendano in mano: è un segno, per non dimenticarsi della password. Qual era la password? [rispondono: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”]. E così vi riconnettete e non rimanete senza campo. Mi piacerebbe rimanere di più. Grazie per questo incontro e per la vostra gioia. Grazie! E vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me. [1] La Ley, Aquí. [2] Gv 1,38. [3] Card. Raúl Silva Henríquez, Mensaje a los jóvenes (7 ottobre 1979).
Visita alla Pontificia Università Cattolica del Cile
Sono contento di trovarmi con voi in questa Casa di Studio che, nei suoi quasi 130 anni di vita, ha offerto un servizio inestimabile al Paese. Ringrazio il Signor Rettore per le sue parole di benvenuto a nome di tutti. E inoltre ringrazio Lei, Signor Rettore, per il bene che fa con il Suo stile “sapianziale” nel governo dell’Università e nel difendere con coraggio l’identità dell’università cattolica. Grazie! La storia di questa Università si intreccia, in un certo modo, con la storia del Cile. Sono migliaia gli uomini e le donne che, formatisi qui, hanno svolto compiti importanti per lo sviluppo della patria. Vorrei ricordare in particolare la figura di San Alberto Hurtado, in quest’anno centenario da quando egli cominciò i suoi studi qui. La sua vita diventa una chiara testimonianza di come l’intelligenza, l’eccellenza accademica e la professionalità nell’operare, armonizzate con la fede, la giustizia e la carità, lungi dall’essere sminuite, acquistano una forza che è profezia, capace di aprire orizzonti e illuminare il cammino, soprattutto per gli scartati dalla società, soprattutto oggi, quando è in voga questa cultura dello scarto. A questo proposito, vorrei riprendere le Sue parole, Signor Rettore, quando ha detto: «Abbiamo importanti sfide per la nostra patria, che sono legate alla convivenza nazionale e alla capacità di progredire in comunità». 1. Convivenza nazionale Parlare di sfide è ammettere che ci sono situazioni che hanno raggiunto un punto che richiede un ripensamento. Ciò che fino a ieri poteva essere un fattore di unità e coesione, oggi esige nuove risposte. Il ritmo accelerato e l’avvio quasi vertiginoso di alcuni processi e cambiamenti che si impongono nelle nostre società ci invitano in modo sereno, ma senza indugio, a una riflessione che non sia ingenua, utopistica e ancor meno volontaristica. Il che non significa frenare lo sviluppo della conoscenza, ma fare dell’università uno spazio privilegiato «per praticare la grammatica del dialogo che forma all’incontro»[1]. Poiché «la vera sapienza [è] frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone»[2]. La convivenza nazionale è possibile – tra le altre cose – nella misura in cui diamo vita a processi educativi che sono anche trasformatori, inclusivi e di convivenza. Educare alla convivenza non significa solo aggiungere valori al lavoro educativo, ma generare una dinamica di convivenza all’interno del sistema educativo stesso. Non è tanto una questione di contenuti, ma di insegnare a pensare e ragionare in modo integrante. Quello che i classici chiamavano forma mentis. E per raggiungere ciò è necessario sviluppare una alfabetizzazione integrale, che sappia adattare i processi di trasformazione che avvengono all’interno delle nostre società. Un tale processo di alfabetizzazione richiede di lavorare contemporaneamente all’integrazione delle diverse lingue che ci costituiscono come persone, ossia un’educazione (alfabetizzazione) che integri e armonizzi l’intelletto, gli affetti e l’azione, ovvero la testa, il cuore e le mani. Ciò offrirà e consentirà agli studenti a crescere in maniera armonica non solo a livello personale ma, contemporaneamente, a livello sociale. È urgente creare spazi in cui la frammentazione non sia lo schema dominante, nemmeno del pensiero; per questo è necessario insegnare a pensare ciò che si sente e si fa; a sentire ciò che si pensa e si fa; a fare ciò che si pensa e si sente. Un dinamismo di capacità al servizio della persona e della società. L’alfabetizzazione, basata sull’integrazione dei diversi linguaggi che ci costituiscono, coinvolgerà gli studenti nel loro processo educativo, processo di fronte alle sfide che il prossimo futuro presenterà loro. Il “divorzio” dei saperi e dei linguaggi, l’analfabetismo su come integrare le diverse dimensioni della vita, non produce altro che frammentazione e rottura sociale. In questa società liquida[3] o leggera[4], come alcuni pensatori l’hanno definita, vanno scomparendo i punti di riferimento a partire dai quali le persone possono costruirsi individualmente e socialmente. Sembra che oggi la “nuvola” sia il nuovo punto di incontro, caratterizzato dalla mancanza di stabilità poiché tutto si volatilizza e quindi perde consistenza. E tale mancanza di consistenza potrebbe essere una delle ragioni della perdita di consapevolezza dello spazio pubblico. Uno spazio che richiede un minimo di trascendenza sugli interessi privati (vivere di più e meglio), per costruire su basi che rivelino quella dimensione importante della nostra vita che è il “noi”. Senza quella consapevolezza, ma soprattutto senza quel sentimento e quindi senza quella esperienza è e sarà molto difficile costruire la nazione, e dunque sembrerebbe che sia importante e valido solo ciò che riguarda l’individuo, mentre tutto ciò che rimane al di fuori di questa giurisdizione diventa obsoleto. Una cultura di questo tipo ha perso la memoria, ha perso i legami che sostengono e rendono possibile la vita. Senza il “noi” di un popolo, di una famiglia, di una nazione e, nello stesso tempo, senza il “noi” del futuro, dei bambini e di domani; senza il “noi” di una città che “mi” trascenda e sia più ricca degli interessi individuali, la vita sarà non solo sempre più frammentata ma anche più conflittuale e violenta. L’Università, in questo senso, vive la sfida di generare, all’interno del proprio stesso ambito, le nuove dinamiche che superino ogni frammentazione del sapere e stimolino una vera universitas. 2. Progredire in comunità Da qui, il secondo elemento molto importante per questa casa di studio: la capacità di progredire in comunità. Mi ha rallegrato sapere dello sforzo evangelizzatore e della gioiosa vitalità della vostra pastorale universitaria, segno di una Chiesa giovane, viva e “in uscita”. Le missioni che realizzate tutti gli anni in diverse parti del Paese sono un punto forte e molto arricchente. In queste occasioni, voi riuscite ad allargare l’orizzonte del vostro sguardo e ad entrare in contatto con varie situazioni che, aldilà dell’evento specifico, vi lasciano mobilitati. Il “missionario” – nel senso etimologico della parola – infatti non ritorna mai dalla missione uguale a prima; sperimenta il passaggio di Dio nell’incontro con tanti volti, che non conosceva, che non gli erano familiari oppure che gli erano lontani. Queste esperienze non possono rimanere isolate dal percorso universitario. I metodi classici di ricerca sperimentano certi limiti, tanto più quando si tratta di una cultura come la nostra che stimola la partecipazione diretta e istantanea dei soggetti. La cultura attuale richiede nuove forme capaci di includere tutti gli attori che danno vita alla realtà sociale e quindi educativa. Da qui l’importanza di ampliare il concetto di comunità educativa. La comunità deve affrontare la sfida di non rimanere isolata da [nuove] forme di conoscenza; come pure di non costruire conoscenza al margine dei destinatari della stessa. È necessario che l’acquisizione della conoscenza sia in grado di generare un’interazione tra l’aula e la sapienza dei popoli che costituiscono questa terra benedetta. Una sapienza carica di intuizioni, di “odori”, che non si possono ignorare quando si pensa al Cile. Così si produrrà quella sinergia così arricchente tra rigore scientifico e intuizione popolare. La stretta interazione reciproca impedisce il divorzio tra la ragione e l’azione, tra il pensare e il sentire, tra il conoscere e il vivere, tra la professione e il servizio. La conoscenza deve sempre sentirsi al servizio della vita e confrontarsi con essa per poter continuare a progredire. Di conseguenza, la comunità educativa non si può limitare ad aule e biblioteche, ma deve tendere continuamente alla partecipazione. Un tale dialogo può essere condotto solo da un episteme capace di assumere una logica plurale, quella cioè che fa propria l’interdisciplinarità e l’interdipendenza del sapere. «In questo senso, è indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi»[5]. La comunità educativa porta in sé un numero infinito di possibilità e potenzialità quando si lascia arricchire e interpellare da tutti gli attori che compongono la realtà educativa. Ciò richiede uno sforzo maggiore in termini di qualità e di integrazione. Infatti, il servizio universitario deve sempre puntare ad essere di qualità e di eccellenza poste al servizio della convivenza nazionale. Potremmo dire che l’università diventa un laboratorio per il futuro del Paese, perché sa incorporare in sé la vita e il cammino del popolo superando ogni logica antagonistica ed elitaria del sapere. Un’antica tradizione cabalistica racconta che l’origine del male si trova nella scissione prodotta dall’essere umano quando mangiò dell’albero della scienza del bene e del male. In questo modo, la conoscenza acquistò un primato sulla Creazione, sottoponendola ai propri schemi e desideri[6]. Sarà la tentazione latente in ogni ambito accademico, quella di ridurre la Creazione ad alcuni schemi interpretativi, privandola del Mistero che le è proprio e che ha spinto generazioni intere a cercare ciò che è giusto, buono, bello e vero. E quando il professore, per la sua sapienza, diventa “maestro” allora è in grado di risvegliare la capacità di stupore nei nostri studenti. Stupore davanti a un mondo e un universo da scoprire! Oggi la missione che vi è affidata risulta profetica. Siete chiamati a generare processi che illuminino la cultura attuale proponendo un umanesimo rinnovato che eviti di cadere in ogni tipo di riduzionismi di qualunque tipo. E questa profezia che ci viene chiesta ci spinge a cercare spazi sempre nuovi di dialogo più che di scontro; spazi di incontro più che di divisione; strade di amichevole discrepanza, perché ci si differenzia con rispetto tra persone che camminano cercando lealmente di progredire in comunità verso una rinnovata convivenza nazionale. E, se lo chiederete, non dubito che lo Spirito Santo guiderà i vostri passi affinché questa Casa continui a dare frutti per il bene del Popolo del Cile e per la Gloria di Dio. Vi ringrazio ancora per questo incontro, e vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me. [1] Discorso alla Plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica [2] Lett. enc. Laudato si’, 47. [3] Cfr Zygmunt Bauman, Modernidad líquida, 1999. [4] Cfr Gilles Lipovetsky, De la ligereza, 2016. [5] Lettera enc. Laudato si’, 146. [6] Cfr Gershom Scholem, La mystique juive, Paris 1985, 86.
Ringrazio Dio per avermi permesso di visitare questa bella parte del nostro continente, l’Araucanía: terra benedetta dal Creatore con la fertilità dei immensi campi verdi, foreste colme di imponenti araucarie – il quinto elogio fatto da Gabriela Mistral a questa terra cilena –,[1] i suoi maestosi vulcani innevati, i suoi laghi e fiumi pieni di vita. Questo paesaggio ci eleva a Dio ed è facile vedere la sua mano in ogni creatura. Molte generazioni di uomini e donne hanno amato e amano questo suolo con gelosa gratitudine. E voglio soffermarmi e salutare in modo speciale i membri del popolo Mapuche, così come gli altri popoli indigeni che vivono in queste terre australi: Rapanui (Isola di Pasqua), Aymara, Quechua e Atacama, e molti altri. Questa terra, se la guardiamo con gli occhi dei turisti, ci lascerà estasiati, però dopo continueremo la nostra strada come prima, ricordandoci dei bei paesaggi che abbiamo visto; se invece ci avviciniamo al suolo lo sentiremo cantare: «Arauco ha un dolore che non posso tacere, sono ingiustizie di secoli che tutti vedono commettere».[2] In questo contesto di ringraziamento per questa terra e per la sua gente, ma anche di sofferenza e di dolore, celebriamo l’Eucaristia. E lo facciamo in questo aerodromo di Maqueue, nel quale si sono verificate gravi violazioni di diritti umani. Offriamo questa celebrazione per tutti coloro che hanno sofferto e sono morti e per quelli che, ogni giorno, portano sulle spalle il peso di tante ingiustizie. E ricordando queste cose, rimaniamo un istante in silenzio, pensando a tanto dolore e a tanta ingiustizia. Il sacrificio di Gesù sulla croce è carico di tutto il peccato e il dolore dei nostri popoli, un dolore da riscattare. Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù prega il Padre che «tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). In un’ora cruciale della sua vita si ferma a chiedere l’unità. Il suo cuore sa che una delle peggiori minacce che colpisce e colpirà il suo popolo e tutta l’umanità sarà la divisione e lo scontro, la sopraffazione degli uni sugli altri. Quante lacrime versate! Oggi vogliamo fare nostra questa preghiera di Gesù, vogliamo entrare con Lui in questo orto di dolore, anche con i nostri dolori, per chiedere al Padre con Gesù: che anche noi siamo una cosa sola. Non permettere che ci vinca lo scontro o la divisione. Questa unità, implorata da Gesù, è un dono che va chiesto con insistenza per il bene della nostra terra e dei suoi figli. Ed bisogna stare attenti a possibili tentazioni che possono apparire e “inquinare dalla radice” questo dono che Dio ci vuole fare e con cui ci invita ad essere autentici protagonisti della storia. Quali sono queste tentazioni? Una è quella dei falsi sinonimi. 1. I falsi sinonimi Una delle principali tentazioni da affrontare è quella di confondere unità con uniformità. Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze. L’unità non è un simulacro né di integrazione forzata né di emarginazione armonizzatrice. La ricchezza di una terra nasce proprio dal fatto che ogni componente sappia condividere la propria sapienza con le altre. Non è e non sarà un’uniformità asfissiante che nasce normalmente dal predominio e dalla forza del più forte, e nemmeno una separazione che non riconosca la bontà degli altri. L’unità domandata e offerta da Gesù riconosce ciò che ogni popolo, ogni cultura è invitata ad apportare a questa terra benedetta. L’unità è una diversità riconciliata perché non tollera che in suo nome si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie. Abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori e culture inferiori. Un bel chamal (manto) richiede tessitori che conoscano l’arte di armonizzare i diversi materiali e colori; che sappiano dare tempo ad ogni cosa e ad ogni fase. Potrà essere imitato in modo industriale, ma tutti riconosceremo che è un indumento confezionato sinteticamente. L’arte dell’unità esige e richiede autentici artigiani che sappiano armonizzare le differenze nei “laboratori” dei villaggi, delle strade, delle piazze e dei vari paesaggi. Non è un’arte da scrivania l'unità, né fatta solo di documenti, è un’arte dell’ascolto e del riconoscimento. In questo è radicata la sua bellezza e anche la sua resistenza al passare del tempo e delle intemperie che dovrà affrontare. L’unità di cui i nostri popoli hanno bisogno richiede che ci ascoltiamo, ma soprattutto che ci riconosciamo, il che non significa solo «ricevere informazioni sugli altri [...] ma raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi».[3] Questo ci introduce sulla via della solidarietà come modo di tessere l’unità, come modo di costruire la storia; quella solidarietà che ci porta a dire: abbiamo bisogno gli uni degli altri nelle nostre differenze affinché questa terra continui a essere bella. È l’unica arma che abbiamo contro la “deforestazione” della speranza. Ecco perché chiediamo: Signore, rendici artigiani di unità. Un'altra tentazione può venire dalla considerazione di quali sono le armi dell'unità. 2. Le armi dell’unità L’unità, se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo. Ci sono due forme di violenza che più che far avanzare i processi di unità e riconciliazione finiscono per minacciarli. In primo luogo, dobbiamo essere attenti all’elaborazione di accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi. Belle parole, progetti conclusi sì – e necessari – ma che non diventando concreti finiscono per “cancellare con il gomito quello che si è scritto con la mano”. Anche questa è violenza. Perché? Perché frustra la speranza. In secondo luogo, è imprescindibile sostenere che una cultura del mutuo riconoscimento non si può costruire sulla base della violenza e della distruzione che alla fine chiedono il prezzo di vite umane. Non si può chiedere il riconoscimento annientando l’altro, perché questo produce come unico risultato maggiore violenza e divisione. La violenza chiama violenza, la distruzione aumenta la frattura e la separazione. La violenza finisce per rendere falsa la causa più giusta. Per questo diciamo “no alla violenza che distrugge”, in nessuna delle sue due forme. Questi atteggiamenti sono come lava di vulcano che tutto distrugge, tutto brucia, lasciando dietro di sé solo sterilità e desolazione. Cerchiamo, invece, e non stanchiamoci di cercare il dialogo per l’unità. Per questo diciamo con forza: Signore, rendici artigiani della tua unità. Tutti noi che, in una certa misura, siamo gente tratta dalla terra (Gen 2,7), siamo chiamati al buon vivere (Küme Mongen), come ci ricorda la saggezza ancestrale del popolo Mapuche. Quanta strada da percorrere, quanta strada per imparare! Küme Monge, un anelito profondo che scaturisce non solo dai nostri cuori, ma risuona come un grido, come un canto in tutto il creato. Perciò, fratelli, per i figli di questa terra, per i figli dei loro figli, diciamo con Gesù al Padre: che anche noi siamo una cosa sola: Signore, rendici artigiani di unità. [1] Cfr Elogios de la tierra de Chile. [2] Violeta Parra, Arauco tiene una pena. [3] Esort. ap. Evangelii gaudium, 246.
«Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù» (Gv 2,11). Così termina il Vangelo che abbiamo ascoltato, e che ci mostra la prima apparizione pubblica di Gesù: né più né meno che in una festa. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il Vangelo è un costante invito alla gioia. Fin dall’inizio l’Angelo dice a Maria: «Rallegrati» (Lc 1,28). Rallegratevi, disse ai pastori; rallegrati, disse a Elisabetta, donna anziana e sterile…; rallegrati, fece sentire Gesù al ladrone, perché oggi sarai con me in paradiso (cfr Lc 23,43). Il messaggio del Vangelo è fonte di gioia: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Una gioia che si propaga di generazione in generazione e della quale siamo eredi. Perché siamo cristiani. Come sapete bene questo, voi, cari fratelli del nord cileno! Come sapete vivere la fede e la vita in un clima di festa! Vengo come pellegrino a celebrare con voi questo modo bello di vivere la fede. Le vostre feste patronali, i vostri balli religiosi – che si prolungano anche per una settimana –, la vostra musica, i vostri vestiti fanno di questa zona un santuario di pietà e di spiritualità popolare. Perché non è una festa che rimane chiusa all’interno del tempio, ma voi riuscite a rivestire a festa tutto il villaggio. Voi sapete celebrare cantando e danzando «la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante di Dio; e in questo modo generate atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado in chi non possiede questa religiosità: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione».[1] Prendono vita le parole del profeta Isaia: «Allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva» (32,15). Questa terra, abbracciata dal deserto più arido del mondo, sa vestirsi a festa. In questo clima di festa, il Vangelo ci presenta l’azione di Maria affinché la gioia prevalga. Lei è attenta a tutto quello che succede intorno e, come buona madre, non sta tranquilla e così si accorge che nella festa, nella gioia condivisa, stava accadendo qualcosa: c’era qualcosa che stava per “annacquare” la festa. E accostandosi a suo Figlio, le uniche parole che le sentiamo dire sono: «Non hanno vino» (Gv 2,3). E così Maria va per i nostri villaggi, per le vie, le piazze, le case, gli ospedali. Maria è la Virgen de la Tirana; la Virgen Ayquina a Calama; la Virgen de las Peñas ad Arica, che passa per tutti i nostri problemi familiari, quelli che sembrano soffocarci il cuore, per accostarsi all’orecchio di Gesù e dirgli: vedi, «non hanno vino». E poi non rimane zitta, si avvicina agli inservienti della festa e dice loro: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Maria, donna di poche parole, ma molto concreta, si avvicina anche ad ognuno di noi per dirci solamente: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». E in questo modo si apre la strada al primo miracolo di Gesù: far sentire ai suoi amici che anch’essi partecipano al miracolo. Perché Cristo «è venuto in questo mondo non per fare la sua opera da solo, ma con noi; il miracolo lo fa con noi, con tutti noi, per essere il capo di un grande corpo le cui cellule vive siamo noi: libere e attive».[2] Così Gesù fa il miracolo: con noi. Il miracolo comincia quando gli inservienti avvicinano le anfore dell’acqua che erano destinate alla purificazione. Così anche ognuno di noi può cominciare il miracolo, di più, ognuno di noi è invitato a partecipare al miracolo per gli altri. Fratelli, Iquique è una “terra di sogni” (questo significa il nome in lingua aymara); una terra che ha saputo ospitare gente di diversi popoli e culture, gente che ha dovuto lasciare i propri cari e partire. Una marcia sempre basata sulla speranza di ottenere una vita migliore, ma sappiamo che è sempre accompagnata da bagagli carichi di paura e di incertezza per quello che verrà. Iquique è una zona di immigrati che ci ricorda la grandezza di uomini e donne; di famiglie intere che, davanti alle avversità, non si danno per vinte e si fanno strada in cerca di vita. Essi – specialmente quelli che devono lasciare la loro terra perché non hanno il minimo necessario per vivere – sono icone della Santa Famiglia, che dovette attraversare deserti per poter continuare a vivere. Questa terra è terra di sogni, ma facciamo in modo che continui a essere anche terra di ospitalità. Ospitalità festosa, perché sappiamo bene che non c’è gioia cristiana quando si chiudono le porte; non c’è gioia cristiana quando si fa sentire agli altri che sono di troppo o che tra di noi non c’è posto per loro (cfr Lc 16,31). Come Maria a Cana, cerchiamo di imparare ad essere attenti nelle nostre piazze e nei nostri villaggi e riconoscere coloro che hanno una vita “annacquata”; che hanno perso – o ne sono stati derubati – le ragioni per celebrare. E non abbiamo paura di alzare le nostre voci per dire: «Non hanno vino». Il grido del popolo di Dio, il grido del povero, che ha forma di preghiera e allarga il cuore e ci insegna ad essere attenti. Siamo attenti a tutte le situazioni di ingiustizia e alle nuove forme di sfruttamento che espongono tanti fratelli a perdere la gioia della festa. Siamo attenti di fronte alla precarizzazione del lavoro che distrugge vite e famiglie. Siamo attenti a quelli che approfittano dell’irregolarità di molti migranti, perché non conoscono la lingua o non hanno i documenti in regola. Siamo attenti alla mancanza di casa, terra e lavoro di tante famiglie. E come Maria diciamo: non hanno vino. Come i servi della festa, portiamo quello che abbiamo, per quanto sembri poco. Come loro, non abbiamo paura a “dare una mano”, e che la nostra solidarietà e il nostro impegno per la giustizia facciano parte del ballo e del canto che oggi possiamo intonare a nostro Signore. Approfittiamo anche per imparare e lasciarci impregnare dai valori, dalla sapienza e dalla fede che i migranti portano con sé. Senza chiuderci a quelle “anfore” piene di sapienza e di storia che portano quanti continuano ad arrivare in queste terre. Non priviamoci di tutto il bene che hanno da offrire. E poi, lasciamo che Gesù possa completare il miracolo, trasformando le nostre comunità e i nostri cuori in segno vivo della sua presenza, che è gioiosa e festosa perché abbiamo sperimentato che Dio-è-con-noi, perché abbiamo imparato a ospitarlo in mezzo a noi, nel nostro cuore. Gioia e festa contagiosa che ci porta a non escludere nessuno dall’annuncio di questa Buona Notizia, e a trasmetterla. Tutto quello che è della nostra cultura originaria, dobbiamo condividerlo con la nostra tradizione, con la nostra sapienza ancestrale perché colui che venga incontri sapienza. Questa è la festa. Questa è acqua trasformata in vino. Questo è il miracolo che fa Gesù. Maria, coi diversi titoli con cui è invocata in questa benedetta terra del nord, continui a sussurrare all’orecchio del suo Figlio Gesù: «Non hanno vino», e in noi continuino a farsi carne le sue parole: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». SALUTO FINALE Al termine di questa celebrazione, desidero ringraziare Mons. Guillermo Vera Soto, Vescovo di Iquique, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome dei fratelli Vescovi e di tutto il popolo di Dio. Ed ecco che ci salutiamo. Ringrazio, ancora una volta, la Signora Presidente Michelle Bachelet per l’invito a visitare il Paese. Esprimo in modo speciale la mia gratitudine a tutti coloro che hanno reso possibile questa visita; alle autorità civili e, tra loro, ad ogni funzionario che con professionalità ha contribuito affinché tutti potessimo godere di questo tempo di incontro. Grazie anche per il lavoro sacrificato e silenzioso di migliaia di volontari: più di 20 mila volontari! Senza il loro impegno e la loro collaborazione sarebbero mancate le anfore d’acqua perché il Signore potesse fare il miracolo del vino della gioia. Grazie a coloro che in molti modi e forme hanno accompagnato questo pellegrinaggio specialmente con la preghiera. Conosco il sacrificio che hanno dovuto fare per partecipare alle celebrazioni e agli incontri. Lo apprezzo e ne ringrazio di cuore. Grazie ai membri della commissione organizzatrice. Tutti hanno lavorato, mille grazie! Proseguo il mio pellegrinaggio in Perù. Popolo amico e fratello di questa Patria Grande di cui siamo invitati ad avere cura e che dobbiamo difendere. Una Patria che trova la sua bellezza nel volto multiforme dei suoi popoli. Cari fratelli, in ogni Eucaristia diciamo: «Guarda [Signore] la fede della tua Chiesa e donale unità e pace secondo la tua volontà». Che cosa posso augurarvi di più che terminare la mia visita dicendo al Signore: Guarda la fede di questo popolo e donagli unità e pace. Vi ringrazio, e vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. E voglio ringraziare per la presenza di tanti pellegrini dei popoli fratelli della Bolivia, del Perù e – non siate gelosi – specialmente per la presenza degli argentini, perché l’Argentina è la mia patria! Grazie ai miei fratelli argentini che mi hanno accompagnato a Santiago, a Temuco e qui a Iquique. Grazie tante! [Benedizione] [1] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 48. [2] Sant’Alberto Hurtado, Meditación Semana Santa para jóvenes (1946).
Incontro con i popoli dell'Amazzonia
Cari fratelli e sorelle! Qui insieme a voi mi sgorga dal cuore il canto di San Francesco: «Laudato si’, mi’ Signore». Sì, lodato Tu sia per l’opportunità che ci doni con questo incontro. Grazie Mons. David Martínez de Aguirre Guinea, Signor Héctor, Signora Yésica e Signora María Luzmila per le vostre parole di benvenuto e le vostre testimonianze. In voi desidero ringraziare e salutare tutti gli abitanti dell’Amazzonia. Vedo che siete venuti dai differenti popoli originari dell’Amazzonia: Harakbut, Esse-ejas, Matsiguenkas, Yines, Shipibos, Asháninkas, Yaneshas, Kakintes, Nahuas, Yaminahuas, Juni Kuin, Madijá, Manchineris, Kukamas, Kandozi, Quichuas, Huitotos, Shawis, Achuar, Boras, Awajún, Wampís, tra gli altri. Vedo anche che ci accompagnano popoli che vengono dalle Ande e son arrivati nella selva e si sono fatti amazzonici. Ho molto desiderato questo incontro. Ho voluto iniziare da qui la visita in Perù. Grazie per la vostra presenza e perché ci aiutate a vedere più da vicino, nei vostri volti, il riflesso di questa terra. Un volto plurale, di un’infinita varietà e di un’enorme ricchezza biologica, culturale, spirituale. Quanti non abitiamo queste terre abbiamo bisogno della vostra saggezza e delle vostre conoscenze per poterci addentrare, senza distruggerlo, nel tesoro che racchiude questa regione. E risuonano le parole del Signore a Mosè: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai, è suolo santo» (Es 3,5). Permettetemi di ripetere ancora una volta: Che Tu sia lodato, Signore, per quest’opera meravigliosa dei popoli amazzonici e per tutta la biodiversità che queste terre racchiudono! Questo canto di lode si spezza quando ascoltiamo e vediamo le profonde ferite che porta con sé l’Amazzonia e i suoi popoli. E ho voluto venire a visitarvi e ascoltarvi, per stare insieme nel cuore della Chiesa, unirci alle vostre sfide e con voi riaffermare un’opzione sincera per la difesa della vita, per la difesa della terra e per la difesa delle culture. Probabilmente i popoli originari dell’Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora. L’Amazzonia è una terra disputata su diversi fronti: da una parte, il neo-estrattivismo e la forte pressione da parte di grandi interessi economici che dirigono la loro avidità sul petrolio, il gas, il legno, l’oro, le monocolture agro-industriali; dall’altra parte, la minaccia contro i vostri territori viene anche dalla perversione di certe politiche che promuovono la “conservazione” della natura senza tenere conto dell’essere umano e, in concreto, di voi fratelli amazzonici che la abitate. Siamo a conoscenza di movimenti che, in nome della conservazione della foresta, si appropriano di grandi estensioni di boschi e negoziano su di esse generando situazioni di oppressione per i popoli originari per i quali, in questo modo, il territorio e le risorse naturali che vi si trovano diventano inaccessibili. Questa problematica soffoca i vostri popoli e causa migrazioni delle nuove generazioni di fronte alla mancanza di alternative locali. Dobbiamo rompere il paradigma storico che considera l’Amazzonia come una dispensa inesauribile degli Stati senza tener conto dei suoi abitanti. Considero imprescindibile compiere sforzi per dar vita a spazi istituzionali di rispetto, riconoscimento e dialogo con i popoli nativi; assumendo e riscattando cultura, lingua, tradizioni, diritti e spiritualità che sono loro propri. Un dialogo interculturale in cui voi siate «i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i [vostri] spazi».[1] Il riconoscimento e il dialogo saranno la via migliore per trasformare le antiche relazioni segnate dall’esclusione e dalla discriminazione. D’altra parte, è giusto riconoscere che esistono iniziative di speranza che sorgono dalle vostre stesse realtà locali e dalle vostre organizzazioni e cercano di fare in modo che gli stessi popoli originari e le comunità siano i custodi delle foreste, e che le risorse prodotte dalla loro conservazione ritornino a beneficio delle vostre famiglie, a miglioramento delle vostre condizioni di vita, della salute e dell’istruzione delle vostre comunità. Questo “buon agire” è in sintonia con le pratiche del “buon vivere” che scopriamo nella saggezza dei nostri popoli. E permettetemi di dirvi che se, da qualcuno, voi siete considerati un ostacolo o un “ingombro”, in verità, voi con la vostra vita siete un grido rivolto alla coscienza di uno stile di vita che non è in grado di misurare i suoi costi. Voi siete memoria viva della missione che Dio ha affidato a tutti noi: avere cura della casa comune. La difesa della terra non ha altra finalità che non sia la difesa della vita. Conosciamo la sofferenza che alcuni di voi patiscono per le fuoriuscite di idrocarburi che minacciano seriamente la vita delle vostre famiglie e inquinano il vostro ambiente naturale. Parallelamente, esiste un’altra devastazione della vita che viene provocata con questo inquinamento ambientale causato dall’estrazione illegale. Mi riferisco alla tratta di persone: la mano d’opera schiavizzata e l’abuso sessuale. La violenza contro gli adolescenti e contro le donne è un grido che sale al cielo: «Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? [...] Non facciamo finta di niente e non guardiamo dall’altra parte. Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti!».[2] Come non ricordare San Toribio quando constatava con gran dolore nel III Concilio di Lima che «non solo nei tempi passati sono stati fatti a questi poveri tante offese e violenze con tanti eccessi, ma che anche oggi molti continuano a fare le stesse cose» (Sess. III, c. 3). Sfortunatamente, dopo cinque secoli queste parole continuano ad essere attuali. Le parole profetiche di quegli uomini di fede – come ci hanno ricordato Héctor e Yésica – sono il grido di questa gente, che molte volte è costretta al silenzio o a cui hanno tolto la parola. Quella profezia deve rimanere presente nella nostra Chiesa, che non smetterà mai di alzare la voce per gli scartati e per quelli che soffrono. Da questa preoccupazione deriva l’opzione primordiale per la vita dei più indifesi. Sto pensando ai popoli denominati “Popoli Indigeni in Isolamento Volontario” (PIAV). Sappiamo che sono i più vulnerabili tra i vulnerabili. Il retaggio di epoche passate li ha obbligati a isolarsi persino dalle loro stesse etnie, iniziando una storia di reclusione nei luoghi più inaccessibili della foresta per poter vivere in libertà. Continuate a difendere questi fratelli più vulnerabili. La loro presenza ci ricorda che non possiamo disporre dei beni comuni al ritmo dell’avidità e del consumo. E’ necessario che esistano limiti che ci aiutino a difenderci da ogni tentativo di distruzione di massa dell’habitat che ci costituisce. Il riconoscimento di questi popoli – che non possono mai essere considerati una minoranza, ma autentici interlocutori – come pure di tutti i popoli originari ci ricorda che non siamo i padroni assoluti del creato. E’ urgente accogliere l’apporto essenziale che offrono a tutta la società, non fare delle loro culture una idealizzazione di uno stato naturale e neppure una specie di museo di uno stile di vita di un tempo. La loro visione del cosmo, la loro saggezza hanno molto da insegnare a noi che non apparteniamo alla loro cultura. Tutti gli sforzi che facciamo per migliorare la vita dei popoli amazzonici saranno sempre pochi. Sono preoccupanti lenotizie che giungono sull’avanzare di alcune malattie. Fa paura il silenzio perché uccide. Con il silenzio non diamo vita ad azioni volte alla prevenzione, soprattutto per gli adolescenti e i giovani, né ci curiamo dei malati, condannandoli alla esclusione più crudele. Chiediamo agli Stati che si implementino politiche sanitarie interculturali che tengano conto della realtà e della visione del cosmo dei popoli, formando professionisti della loro stessa etnia che sappiano affrontare la malattia secondo la propria visione del cosmo. E come ho affermato nella Laudato si’, una volta di più è necessario alzare la voce sulla pressione che alcuni organismi internazionali fanno su determinati Paesi perché promuovano politiche di sterilizzazione. Queste si accaniscono in modo più incisivo sulle popolazioni aborigene. Sappiamo che in esse si continua a promuovere la sterilizzazione delle donne, a volte senza che esse ne siano avvertite. La cultura dei nostri popoli è un segno di vita. L’Amazzonia, oltre ad essere una riserva di biodiversità, è anche una riserva culturale che deve essere preservata di fronte ai nuovi colonialismi. La famiglia è – come ha detto una di voi – ed è sempre stata l’istituzione sociale che più ha contribuito a mantenere vive le nostre culture. In momenti passati di crisi, di fronte ai diversi imperialismi, la famiglia dei popoli originari è stata la migliore difesa della vita. Ci è chiesta una speciale cura per non lasciarci catturare da colonialismi ideologici mascherati da progresso che a poco a poco entrano e dilapidano identità culturali e stabiliscono un pensiero uniforme, unico... e debole. Ascoltate gli anziani, per favore. Essi dispongono di una saggezza che li pone a contatto con il trascendente e fa loro scoprire l’essenziale della vita. Non dimentichiamoci che «la scomparsa di una cultura può essere grave come o più della scomparsa di una specie animale o vegetale»[3]. E l’unico modo per far sì che le culture non si perdano è che si mantengano in dinamismo, in costante movimento. Com’è importante quello che ci dicevano Yésica e Héctor: «Vogliamo che i nostri figli studino, ma non vogliamo che la scuola cancelli le nostre tradizioni, le nostre lingue, non vogliamo dimenticarci della nostra saggezza ancestrale!». L’educazione ci aiuta a gettare ponti e a generare una cultura dell’incontro. La scuola e l’educazione dei popoli originari dev’essere una priorità e un impegno dello Stato, impegno integrante e inculturato che assuma, rispetti e integri come un bene di tutta la nazione la loro sapienza ancestrale, come ci segnalava María Luzmila. Chiedo ai miei fratelli Vescovi che, come si sta facendo anche nei luoghi più isolati della selva, continuino a promuovere spazi di educazione interculturale e bilingue nelle scuole e negli istituti pedagogici e universitari.[4] Mi congratulo per le iniziative che vengono prese dalla Chiesa peruviana dell’Amazzonia per la promozione dei popoli originari: scuole, residenze per studenti, centri di ricerca e di promozione come il Centro Culturale José Pío Aza, il CAAAP e il CETA, nuovi e importanti spazi universitari interculturali come NOPOKI, diretti espressamente alla formazione dei giovani delle differenti etnie della nostra Amazzonia. Mi congratulo anche con tutti quei giovani dei popoli originari che si sforzano di elaborare, dal proprio punto di vista, una nuova antropologia e lavorano per rileggere la storia dei loro popoli dalla loro prospettiva. Inoltre mi congratulo con quelli che, per mezzo della pittura, della letteratura, dell’artigianato, della musica, mostrano al mondo la loro visione del cosmo e la loro ricchezza culturale. Molti hanno scritto e parlato su di voi. E’ bene che adesso siate voi stessi ad autodefinirvi e a mostrarci la vostra identità. Abbiamo bisogno di ascoltarvi. Cari fratelli dell’Amazzonia, quanti missionari e missionarie si sono impegnati con i vostri popoli e hanno difeso le vostre culture! Lo hanno fatto ispirati dal Vangelo. Anche Cristo si è incarnato in una cultura, quella ebrea, e a partire da quella, si è donato a noi come novità per tutti i popoli in modo che ciascuno, a partire dalla propria identità, si senta autoaffermato in Lui. Non soccombete ai tentativi che ci sono di sradicare la fede cattolica dei vostri popoli.[5] Ogni cultura e ogni visione del cosmo che accoglie il Vangelo arricchisce la Chiesa con la visione di una nuova sfaccettatura del volto di Cristo. La Chiesa non è aliena dalla vostra problematica e dalla vostra vita, non vuole essere estranea al vostro modo di vivere e di organizzarvi. Abbiamo bisogno che i popoli originari plasmino culturalmente le Chiese locali amazzoniche. E a tal proposito, mi ha dato tanta gioia ascoltare che uno dei brani della Laudato si’ è stato letto da un diacono permanente della vostra cultura. Aiutate i vostri Vescovi, aiutate i vostri missionari e le vostre missionarie affinché si uniscano a voi, e in questo modo, dialogando con tutti, possano plasmare una Chiesa con un volto Amazzonico e una Chiesa con un volto indigeno. Con questo spirito ho convocato un Sinodo per l’Amazzonia nell’anno 2019, la cui prima riunione, come Consiglio pre-sinodale, si terrà qui, oggi pomeriggio. Confido nella capacità di resilienza dei popoli e nella vostra capacità di reazione davanti ai difficili momenti che vi tocca vivere. Lo avete dimostrato nei diversi assalti della storia, con i vostri contributi, con la vostra visione differenziata delle relazioni umane, con l’ambiente e con l’esperienza della fede. Prego per voi e per la vostra terra benedetta da Dio, e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie! Tinkunakama (Quechua: al prossimo incontro). [1] Lett. enc. Laudato si’, 146. [2] Esort. ap. Evangelii gaudium, 211. [3]Lett. enc. Laudato si’, 145. [4] Cfr V Conferenza Generale del’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 530. [5] Cfr ibid., 531.
Cari fratelli e sorelle, Vedo che siete venuti non solo dalle diverse zone di questa Amazzonia peruviana, ma anche dalle Ande e da altri paesi vicini. Che bella immagine della Chiesa, che non conosce frontiere e nella quale tutti i popoli possono trovare il loro spazio! Quanto abbiamo bisogno di questi momenti dove possiamo incontrarci e, al di là delle nostre provenienze, incoraggiarci a dar vita a una cultura dell’incontro che ci rinnova nella speranza. Grazie, Mons. David, per le Sue parole di benvenuto. Grazie, Arturo e Margarita, per aver condiviso con tutti noi le vostre esperienze. Loro ch hanno detto: “Ci viene a visitare in questa terra tanto dimenticata, ferita ed emarginata... però non siamo la terra di nessuno”. Grazie per averlo detto: non siamo terra di nessuno. Ed è una cosa che bisogna dire con forza: voi non siete terra di nessuno. Questa terra ha dei nomi, ha dei volti: ha voi. Questa regione è chiamata con il bellissimo nome di “Madre de Dios”. Non posso non fare menzione di Maria, giovane ragazza che viveva in un villaggio lontano, sperduto, anch’esso considerato da tanti come “terra di nessuno”. Lì ricevette il saluto e la chiamata più grande che una persona possa sperimentare: essere la Madre di Dio; ci sono gioie che possono essere rivelate solo ai piccoli.[1] Voi avete in Maria non solo un testimone a cui guardare, ma una Madre, e dove c’è una madre non c’è quel terribile male di sentire che non apparteniamo a nessuno, quel sentimento che nasce quando comincia a scomparire la certezza di appartenere a una famiglia, a un popolo, a una terra, al nostro Dio. Cari fratelli, la prima cosa che mi piacerebbe trasmettervi – e voglio farlo con forza – è che questa non è una terra orfana, è la terra della Madre! E se c’è una madre ci sono figli, c’è famiglia e c’è comunità. E dove c’è madre, famiglia e comunità, non potranno sparire i problemi, ma sicuramente si trova la forza per affrontarli in modo diverso. E’ doloroso constatare che ci sono alcuni che vogliono spegnere questa certezza e fare di Madre de Dios una terra anonima, senza figli, una terra infeconda. Un luogo facile da commercializzare e da sfruttare. Per questo ci fa bene ripetere nelle nostre case, nelle comunità, nel profondo del cuore di ciascuno: Questa non è una terra orfana! Ha una Madre! Questa buona notizia si va trasmettendo di generazione in generazione, grazie allo sforzo di tanti che condividono questo dono di sapere che siamo figli di Dio, e ci aiuta a riconoscere l’altro come fratello. In diverse occasioni mi sono riferito alla cultura dello scarto. Una cultura che non si accontenta solo di escludere - come eravamo abituati a vedere -, ma che è avanzata mettendo a tacere, ignorando e rigettando tutto ciò che non serve ai suoi interessi; sembrerebbe che il consumismo alienante di alcuni non riesca a percepire la dimensione della sofferenza soffocante di altri. E’ una cultura anonima, senza legami e senza volti, la cultura dello scarto. Una cultura senza madre, che non vuole altro che consumare. La terra viene trattata secondo questa logica. Le foreste, i fiumi e i torrenti vengono usati, utilizzati fino all’ultima risorsa e poi lasciati inutilizzati e inservibili. Anche le persone sono trattate con questa logica: usate fino allo sfinimento e poi abbandonate come “inservibili”. Questa è la cultura dello scarto: si scartano i bambini, si scartano gli anziani. Lì, uscendo, quando ho fatto il percorso, c’era una nonna di 97 anni: dobbiamo scartare quella nonna? No! Perché la nonna ha la sapienza di un popolo. Un applauso alla nonna di 97 anni! Pensando a queste cose permettetemi di soffermarmi su un tema doloroso. Ci siamo abituati a utilizzare il termine “tratta di persone”. Arrivando a Puerto Maldonado, nell’aeroporto ho visto un cartello che ha richiamato la mia attenzione positivamente: “Fai attenzione alla tratta!”. Si vede che stanno prendendo coscienza. Ma in realtà dovremmo parlare di schiavitù: schiavitù per il lavoro, schiavitù sessuale, schiavitù per il guadagno. Fa male constatare come in questa terra, che sta sotto la protezione della Madre di Dio, tante donne sono così svalutate, disprezzate ed esposte a violenze senza fine. Non possiamo “normalizzare” la violenza, prenderla come una cosa naturale. No, non si “normalizza” la violenza contro le donne, sostenendo una cultura maschilista che non accetta il ruolo di protagonista della donna nelle nostre comunità. Non ci è lecito guardare dall’altra parte, fratelli, e lasciare che tante donne, specialmente adolescenti, siano “calpestate” nella loro dignità. Diverse persone sono emigrate verso l’Amazzonia cercando un tetto, una terra e un lavoro. Sono venute a cercare un futuro migliore per sé stesse e per le loro famiglie. Hanno abbandonato la loro vita umile, povera ma dignitosa. Molte di loro, per la promessa che certi lavori avrebbero messo fine a situazioni precarie, si sono basati sul luccichio promettente dell’estrazione dell’oro. Però non dimentichiamo che l’oro può diventare un falso dio che pretende sacrifici umani. I falsi dei, gli idoli dell’avarizia, del denaro, del potere, corrompono tutto. Corrompono la persona e le istituzioni, e distruggono anche la foresta. Gesù diceva che ci sono demoni che, per essere scacciati, richiedono molta preghiera. Questo è uno di quelli. Vi incoraggio a continuare a organizzarvi in movimenti e comunità di ogni tipo per cercare di superare queste situazioni; e anche a far in modo, a partire dalla fede, di organizzarvi come comunità ecclesiali che vivono intorno alla persona di Gesù. Dalla preghiera sincera e dall’incontro pieno di speranza con Cristo potremo ottenere la conversione che ci faccia scoprire la vita vera. Gesù ci ha promesso vita vera, vita autentica, vita eterna. Non vita fittizia, come le false promesse che abbagliano e che, promettendo vita, finiscono per portarci alla morte. Sorelle e fratelli, la salvezza non è generica, non è astratta. Il nostro Padre guarda alle persone concrete, con volti e storie concreti, e tutte le comunità cristiane devono essere riflesso di questo sguardo di Dio, di questa presenza che crea legami, genera famiglia e comunità. E’ un modo di rendere visibile il Regno dei Cieli, comunità in cui ciascuno si senta partecipe, si senta chiamato per nome e spinto ad essere artefice di vita per gli altri. Ho speranza in voi... e facendo il giro ho visto tanti bambini, e doce ci sono bambini c'è speranza. Grazie! Ho speranza in voi, nei cuori di tante persone che desiderano una vita benedetta. Siete venuti a cercarla qui, dove si trova una delle esplosioni di vita più esuberanti del pianeta. Amate questa terra, sentitela vostra. Odoratela, ascoltatela, meravigliatevi di essa. Innamoratevi di questa terra Madre de Dios, impegnatevi per essa e custoditela, difendetela. Non usatela come un mero oggetto che si può scartare, ma come un vero tesoro da godere, da far crescere e da trasmettere ai vostri figli. Ci affidiamo a Maria, Madre di Dio e Madre nostra, e ci poniamo sotto la sua protezione. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. E vi invito tutti a pregare la Madre di Dio. [1] «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25).
Cari fratelli e sorelle, cari bambini e bambine, grazie per questa bella accoglienza e per le parole di benvenuto. Vedervi cantare e ballare mi riempie di gioia. Quando mi hanno raccontato dell’esistenza di questa Casa “Il Piccolo Principe” e della Fondazione Apronia, ho pensato che non potevo andarmene da Puerto Maldonado senza salutarvi. Avete voluto riunirvi da diversi alloggi in questa bella Casa “Il Piccolo Principe”. Grazie per gli sforzi che avete fatto per poter essere qui oggi. Abbiamo appena celebrato il Natale. Ci ha intenerito il cuore l’immagine di Gesù Bambino. Lui è il nostro tesoro, e voi bambini siete il riflesso, e siete anche voi il nostro tesoro, il tesoro di tutti noi, il tesoro più prezioso di cui dobbiamo avere cura. Perdonate le volte in cui noi grandi non lo facciamo o non vi diamo l’importanza che voi meritate. Quando sarete grandi non dimenticatevi di questo. Il vostro sguardo, la vostra vita esigono sempre un maggiore impegno e lavoro per non diventare ciechi o indifferenti davanti a tanti altri bambini che soffrono e si trovano in necessità. Voi, senza alcun dubbio, siete il tesoro più prezioso di cui dobbiamo prenderci cura. Cari bambini della Casa “Il Piccolo Principe” e giovani delle altre case di accoglienza. Alcuni di voi a volte sono tristi alla sera, avete nostalgia del papà o della mamma che non c’è, e so anche che ci sono ferite che fanno molto male. Dirsey, sei stato coraggioso e lo hai condiviso con noi. E mi dicevi «che il mio messaggio sia una luce di speranza». Ma lascia che ti dica una cosa: la tua vita, le tue parole e quelle di tutti voi sono luce di speranza. Voglio ringraziarvi per la vostra testimonianza. Grazie perché siete luce di speranza per tutti noi. Mi da gioia di vedere che avete una casa dove siete accolti, dove con affetto e amicizia vi aiutano a scoprire che Dio vi tende la mano e vi mette dei sogni nel cuore. E' bello questo. Che bella testimonianza quella di voi giovani che siete passati per questa strada, che ieri vi siete riempiti di amore in questa casa e oggi avete potuto costruire il vostro futuro! Voi siete per tutti noi il segno delle immense potenzialità che ogni persona possiede. Per questi bambini e bambine voi siete il miglior esempio da seguire, la speranza che anche loro potranno farcela. Tutti abbiamo bisogno di modelli da seguire; i bambini hanno bisogno di guardare avanti e di trovare modelli positivi: “voglio essere come lui, voglio essere come lei”, sentono e dicono. Tutto quello che voi giovani potete fare, come venire a stare con loro, a giocare, a passare il tempo, è importante. Siate per loro, come diceva il Piccolo Principe, le stelline che illuminano la notte.[1] Alcuni di voi, giovani che ci accompagnate, provenite dalle comunità native. Con tristezza vedete la distruzione dei boschi. I vostri nonni vi hanno insegnato a scoprirli, in essi trovavano il loro cibo e la medicina che li guariva: lo avete rappresentato bene all'inizio qui. Oggi siete devastati dalla vertigine di un malinteso progresso. I fiumi che hanno visto i vostri giochi e vi hanno dato da mangiare oggi sono insudiciati, inquinati, morti. Giovani, non rassegnatevi a ciò che sta succedendo. Non rinunciate all’eredità dei vostri nonni, non rinunciate alla vostra vita e ai vostri sogni. Mi piacerebbe invogliarvi a studiare: preparatevi, approfittate dell’opportunità che avete per formarvi, questa opportunità che vi dà la Fondazione Apronia. Il mondo ha bisogno di voi, giovani dei popoli originari, e ha bisogno di voi non mascherati, ma così come siete. Non mascherati da cittadini di un altro popolo, no, come siete voi, così abbiamo bisognno di voi. Non rassegnatevi ad essere il vagone di coda della società, agganciati e trascinati! No, non siate mai vagoni di coda, abbiamo bisogno di voi come motore che spinge. E vi raccomando una cosa: ascoltate i vostri nonni, apprezzate le vostre tradizioni, non frenate la vostra curiosità. Cercate le vostre radici e, nello stesso tempo, aprite gli occhi alla novità, sì… e fate la vostra sintesi. Restituite al mondo quello che imparate perché il mondo ha bisogno di voi originali, come realmente siete, non come imitazioni. Abbiamo bisogno di voi autentici, giovani fieri di appartenere ai popoli amazzonici e che offrono all’umanità un’alternativa di vita autentica. Amici, le nostre società molte volte hanno bisogno di correggere la rotta e voi, giovani dei popoli originari – ne sono sicuro –, potete aiutare moltissimo in questa sfida, soprattutto insegnandoci uno stile di vita che si basi sulla cura e non sulla distruzione di tutto quello che si oppone alla nostra avarizia. E un’altra cosa importante, è che desidero ringraziare il padre Xavier [Arbex de Morsier, fondatore dell’Associazione Apronia]. Padre Xavier ha sofferto molto, e questo gli è costato. Semplicemente, grazie. Grazie per il suo esempio. Voglio ringraziare i religiosi e le religiose, le missionarie laiche che svolgono un lavoro favoloso e tutti i benefattori che formano questa famiglia; i volontari che regalano il proprio tempo con gratuità che è come balsamo rinfrescante sulle ferite. E inoltre ringraziare quanti rafforzano questi giovani nell’identità amazzonica e li aiutano a costruire un futuro migliore per le vostre comunità e per tutto il pianeta. E adesso, così come stiamo, chiudiamo gli occhi e chiediamo a Dio di darci la benedizione. Che il Signore abbia pietà e vi benedica, faccia risplendere il suo volto su di voi, che il Signore abbia pietà e misericordia e vi colmi di ogni genere di favori, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen (cfr Nm 6,24-26; Sal 66; Benedizione del Tempo Ordinario). E vi chiedo due cose: di pregare per me, e di non dimenticarvi che voi siete le stelline che illuminano la notte. Grazie. [1] Cfr Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, XXIV; XXVI.
Incontro con le Autorità, con la Società civile e con il Corpo Diplomatico
Giungendo in questa storica casa rendo grazie a Dio per l’opportunità che mi ha concesso di calcare, ancora una volta, il suolo peruviano. Vorrei che le mie parole fossero di saluto e gratitudine per ciascuno dei figli e delle figlie di questo popolo che ha saputo conservare e arricchire nel corso del tempo la sua sapienza ancestrale che è, senza dubbio, uno dei suoi principali patrimoni. Grazie, Signor Pedro Paolo Kuczynsky, Presidente della Nazione, per l’invito a visitare il Paese e per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutto il suo popolo. Vengo in Perù con il motto “Uniti per la speranza”. Permettetemi di dirvi che guardare questa terra è di per sé un motivo di speranza. Parte del vostro territorio è formato dall’Amazzonia, che ho visitato stamattina e che costituisce nel suo insieme la più grande foresta tropicale e il sistema fluviale più esteso del pianeta. Questo “polmone”, come lo si è voluto chiamare, è una delle zone di grande biodiversità del mondo, dato che ospita le specie più diverse. Voi possedete una ricchissima pluralità culturale, sempre più interattiva, che costituisce l’anima di questo popolo. Anima marcata da valori ancestrali come l’ospitalità, la stima dell’altro, il rispetto e la gratitudine verso la madre terra e la creatività per nuovi progetti, come pure la responsabilità comunitaria per lo sviluppo di tutti che si coniuga nella solidarietà, dimostrata tante volte di fronte alle diverse catastrofi vissute. In questo contesto, vorrei segnalare i giovani, che sono il presente più vitale che questa società possiede. Col loro dinamismo e il loro entusiasmo promettono e invitano a sognare un futuro di speranza che nasce dall’incontro tra il culmine della sapienza ancestrale e gli occhi nuovi che offre la gioventù. E mi rallegro anche di un fatto storico: sapere che la speranza in questa terra ha un volto di santità. Il Perù ha generato santi che hanno aperto strade di fede per tutto il continente americano; per nominarne solo uno, Martino de Porres, il quale, figlio di due culture, mostrò la forza e la ricchezza che nascono nelle persone quando mettono l’amore al centro della loro vita. E potrei continuare a lungo questa lista materiale e ideale di ragioni di speranza. Il Perù è terra di speranza che invita e sfida all’unità di tutto il suo popolo. Questo popolo ha la responsabilità di mantenersi unito precisamente, tra le altre cose, per difendere tutti questi motivi di speranza. Su questa speranza si profila un’ombra, si erge una minaccia. «Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo» - dicevo nella Lettera enciclica Laudato si'.[1]Questo si manifesta con chiarezza nel modo in cui stiamo spogliando la terra delle risorse naturali, senza le quali non è possibile alcuna forma di vita. La perdita di foreste e boschi implica non solo la perdita di specie viventi, che potrebbero anche significare nel futuro risorse estremamente importanti, ma anche la perdita di relazioni vitali che finiscono per alterare tutto l’ecosistema.[2] In questo contesto, “uniti per difendere la speranza” significa promuovere e sviluppare un’ecologia integrale come alternativa a «un modello di sviluppo ormai superato ma che continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale».[3]E questo richiede di ascoltare, riconoscere e rispettare le persone e i popoli locali come validi interlocutori. Essi mantengono un legame diretto con il territorio, conoscono i suoi tempi e i suoi processi e sanno, pertanto, gli effetti catastrofici che, in nome dello sviluppo, provocano molte iniziative, alterando tutta la trama vitale che costituisce la nazione. Il degrado dell’ambiente, purtroppo, è strettamente legato al degrado morale delle nostre comunità. Non possiamo pensarle come due questioni separate. A titolo di esempio, le estrazioni minerarie irregolari sono diventate un pericolo che distrugge la vita delle persone; le foreste e i fiumi vengono devastati con tutta la loro ricchezza. Questo processo di degrado implica e alimenta organizzazioni al di fuori delle strutture legali che degradano tanti nostri fratelli sottomettendoli alla tratta – nuova forma di schiavitù –, al lavoro irregolare, alla delinquenza… e ad altri mali che colpiscono gravemente la loro dignità e, insieme, la dignità di questa nazione. Lavorare uniti per difendere la speranza esige di essere molto attenti a un’altra forma – spesso sottile – di degrado ambientale che inquina progressivamente tutto il tessuto vitale: la corruzione. Quanto male procura ai nostri popoli latinoamericani e alle democrazie di questo benedetto continente tale “virus” sociale, un fenomeno che infetta tutto, e i poveri e la madre terra sono i più danneggiati. Quello che si può fare per lottare contro questo flagello sociale merita il massimo della considerazione e del sostegno; e questa lotta ci impegna tutti. “Uniti per difendere la speranza”, implica maggior cultura della trasparenza tra enti pubblici, settore privato e società civile, e non escludo le organizzazioni ecclesiastiche. Nessuno può dirsi estraneo a questo processo; la corruzione è evitabile ed esige l’impegno di tutti. Coloro che occupano incarichi di responsabilità, in qualunque settore, li incoraggio e li esorto a impegnarsi in tal senso per offrire, al vostro popolo e alla vostra terra, la sicurezza che nasce dalla convinzione che il Perù è uno spazio di speranza e di opportunità… ma per tutti, non per pochi! Perché ogni peruviano, ogni peruviana possano sentire che questo Paese è suo, non di un altro, e che può stabilirvi relazioni di fraternità e di uguaglianza con il prossimo e aiutare l’altro quando ne ha bisogno; una terra in cui si possa realizzare il proprio futuro. E così costruire un Perù che abbia spazio per «tutte le stirpi»[4], in cui possa realizzarsi «la promessa della vita peruviana».[5] Desidero assicurare nuovamente a voi l’impegno della Chiesa Cattolica, che ha accompagnato la vita di questa Nazione, in questo sforzo che ci accomuna di portare avanti il lavoro perché il Perù continui ad essere una terra di speranza. Santa Rosa da Lima interceda per ognuno di voi e per questa benedetta Nazione. Nuovamente grazie. [1] Lett. enc. Laudato si’, 104. [2] Cfr ibid., 32. [3] Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2017. [4] José María Arguedas, Todas las sangres, Buenos Aires, 1964: trad. it. Tutte le stirpi, Torino 1974. [5] Jorge Basadre, La promesa de la vida peruana, Lima, 19582.
Queste terre hanno sapore di Vangelo. Tutto l’ambiente che ci circonda e questo immenso mare sullo sfondo ci aiutano a comprendere meglio l’esperienza che gli apostoli hanno vissuto con Gesù e che oggi anche noi siamo chiamati a vivere. Mi fa piacere sapere che siete arrivati da diversi luoghi del nord peruviano per celebrare questa gioia del Vangelo. I discepoli di ieri, come tanti di voi oggi, si guadagnavano da vivere con la pesca. Uscivano sulle barche come alcuni di voi continuano a fare sui “cavallini di totora” [piccole imbarcazioni monoposto costruite con la pianta chiamata totora] e tanto loro quanto voi con lo stesso fine: guadagnarsi il pane quotidiano. In questo si giocano molte delle nostre fatiche di ogni giorno: poter portare avanti le nostre famiglie e procurare ad esse quanto le aiuterà a costruire un futuro migliore. Questa «laguna con pesci dorati», come hanno voluto chiamarla, è stata fonte di vita e benedizione per molte generazioni. Nel corso del tempo ha saputo nutrire sogni e speranze. Voi, come gli apostoli, conoscete la forza della natura e avete sperimentato i suoi colpi. Come essi affrontarono la tempesta sul lago, a voi è toccato affrontare il duro colpo del “Niño costiero”, le cui conseguenze dolorose sono tuttora presenti in tante famiglie, specialmente quelle che non hanno ancora potuto ricostruire le loro case. Anche per questo ho voluto venire e pregare qui con voi. Portiamo a questa Eucaristia anche quel momento tanto difficile che interpella e pone molte volte in dubbio la nostra fede. Vogliamo unirci a Gesù. Lui conosce il dolore e le prove; Lui ha attraversato tutti i dolori per poterci accompagnare nei nostri. Gesù sulla croce vuole essere vicino ad ogni situazione dolorosa per darci la mano e aiutarci ad alzarci. Perché Egli è entrato nella nostra storia, ha voluto condividere il nostro cammino e toccare le nostre ferite. Non abbiamo un Dio estraneo a quello che sentiamo e soffriamo, al contrario, in mezzo al dolore ci offre la sua mano. Questi scossoni mettono in discussione e in gioco il valore del nostro spirito e dei nostri atteggiamenti più elementari. Allora ci rendiamo conto di quanto sia importante non essere soli ma uniti, pieni di quella unità che è frutto dello Spirito Santo. Che cosa è successo alle fanciulle del Vangelo che abbiamo ascoltato [cfr Mt 25,1-13]? Improvvisamente sentono un grido che le sveglia e le mette in movimento. Alcune si resero conto di non avere l’olio necessario per illuminare la strada nell’oscurità, altre invece riempirono le loro lampade e poterono trovare e illuminare la strada che le portava allo sposo. Nel momento indicato ognuna mostrò di che cosa aveva riempito la sua vita. No tenemos un Dios ajeno a lo que sentimos y sufrimos, al contrario, en medio del dolor nos entrega su mano. Lo stesso succede a noi. In determinate circostanze comprendiamo con che cosa abbiamo riempito la nostra vita. Com’è importante riempire la nostra vita con quell’olio che permette di accendere le nostre lampade nelle molteplici situazioni di oscurità e trovare le strade per andare avanti! So che, nel momento di oscurità, quando avete sentito il colpo del Niño, queste terre hanno saputo mettersi in movimento e queste terre avevano l’olio per correre e aiutarsi come veri fratelli. C’era l’olio della solidarietà, della generosità che vi ha messi in movimento e siete andati incontro al Signore con innumerevoli gesti concreti di aiuto. In mezzo all’oscurità, insieme a tanti altri, siete stati torce vive e avete illuminato la strada con mani aperte e disponibili per alleviare il dolore e condividere quello che avevate nella vostra povertà. Nella Lettura evangelica, possiamo notare come le fanciulle che non avevano l’olio andarono al villaggio a comprarlo. Nel momento cruciale della loro vita, si accorsero che le loro lampade erano vuote, che mancava loro l’essenziale per trovare la strada della gioia autentica. Erano sole e così restarono, sole, fuori dalla festa. Ci sono cose, come ben sapete, che non si improvvisano e tanto meno si comprano. L’anima di una comunità si misura da come riesce ad unirsi per affrontare i momenti difficili, di avversità, per mantenere viva la speranza. Con questo atteggiamento date la più grande testimonianza evangelica. Il Signore ci dice: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Perché la fede ci apre ad avere un amore concreto, non di idee, concreto, fatto di opere, di mani tese, di compassione; che sa costruire e ricostruire la speranza quando tutto sembra perduto. Così diventiamo partecipi dell’azione divina, quella che ci descrive l’apostolo Giovanni quando ci mostra Dio che asciuga le lacrime dei suoi figli. E quest’opera divina Dio lo compie con la stessa tenerezza di una madre che cerca di asciugare le lacrime dei suoi figli. Com’è bella la domanda che può fare a ognuno di noi il Signore alla fie della giornata: quante lacrime hai asciugato oggi? Altre tempeste possono sferzare queste coste e, nella vita dei figli di queste terre, hanno effetti devastanti. Tempeste che ci interpellano anche come comunità e mettono in gioco il valore del nostro spirito. Si chiamano violenza organizzata, come il “sicariato” e l’insicurezza che esso crea; si chiamano mancanza di opportunità educative e di lavoro, specialmente tra i più giovani, che impedisce loro di costruire un futuro con dignità; la mancanza di un alloggio sicuro per tante famiglie costrette a vivere in zone ad alta instabilità e senza accessi sicuri; come pure tante altre situazioni che voi conoscete e soffrite, che come le peggiori inondazioni abbattono la mutua fiducia, tanto necessaria per costruire una rete di sostegno e di speranza. Inondazioni che investono l’anima e reclamano da noi l’olio che abbiamo per farvi fronte. Quanto olio hai? Molte volte ci interroghiamo su come affrontare queste tempeste, o su come aiutare i nostri figli e superare queste situazioni. Voglio dirvi: non c’è altra via d’uscita migliore di quella del Vangelo, e si chiama Gesù Cristo. Riempite sempre la vostra vita di Vangelo. Voglio esortarvi ad essere comunità che si lasci ungere dal suo Signore con l’olio dello Spirito. Lui trasforma tutto, rinnova tutto, consola tutto. In Gesù abbiamo la forza dello Spirito per non accettare come normale ciò che ci fa male, non renderlo una cosa naturale, non “naturalizzare”, ciò che ci inaridisce lo spirito e, quel che è peggio, ci ruba la speranza. I peruviani, in questo momento della loro storia, non hanno diritto a lasciarsi rubare la speranza! In Gesù abbiamo lo Spirito che ci mantiene uniti per sostenerci a vicenda e far fronte a ciò che vuole prendersi il meglio delle nostre famiglie. In Gesù Dio ci rende comunità credente capace di sostenersi; comunità che spera e perciò lotta per respingere e trasformare le molteplici avversità; comunità che ama perché non permette che stiamo con la mani in mano. Con Gesù l’anima di questo popolo di Trujillo potrà continuare a chiamarsi “la città dell’eterna primavera”, perché con Lui tutto diventa occasione di speranza. Conosco l’amore che questa terra prova verso la Madonna, e so quanto la devozione a Maria vi sostiene portandovi sempre a Gesù. E dandoci l’unico consiglio che sempre ripete: “Fate quello che Lui vi dirà” (cfr Gv 2,5). Chiediamo a lei che ci ponga sotto il suo manto e che ci porti sempre a suo Figlio; ma diciamolo cantando con questa bella canzone marinara: «Madonnina della porta, dammi la tua benedizione. Madonnina della porta, dacci pace e tanto amore». Siete capaci di cantarla? La cantiamo insieme? Chi comincia a cantare? «Madonnina della porta…”. Nessuno canta? Il coro nemmeno? Allora recitiamola, se non la cantiamo. Insieme: «Madonnina della porta, dammi la tua benedizione. Madonnina della porta, dacci pace e tanto amore». Un’altra volta! «Madonnina della porta, dammi la tua benedizione. Madonnina della porta, dacci pace e tanto amore».
Preghiera dell'ora media con religiose di vita contemplativa
Care sorelle dei diversi monasteri di vita contemplativa, che bello trovarci qui, in questo Santuario del Signore dei Miracoli, tanto frequentato dai peruviani, per chiedergli la sua grazia e perché ci mostri la sua vicinanza e la sua misericordia! Egli, che è il «faro che guida, che ci illumina con il suo amore divino». Vedendovi qui, mi viene un cattivo pensiero: che abbiate approfittato per uscire un po' dal convento e fare una piccola passeggiata! Grazie, Madre Soledad, per le Sue parole di benvenuto, e a tutte voi che «dal silenzio del chiostro camminate sempre al mio fianco». E permettetemi, perché mi tocca il cuore, di mandare da qui un saluto ai miei quattro Carmeli di Buenos Aires. Voglio mettere anche loro davanti al Signore dei Miracoli, perché mi hanno accompagnato nel mio ministero in quella diocesi, e desidero che siano qui perché il Signore le benedica. Non siete gelose, no? [rispondono: No!] Ascoltiamo le parole di San Paolo, ricordandoci che abbiamo ricevuto lo spirito filiale che ci rende figli di Dio (cfr Rm 8,15-16). Queste poche parole condensano la ricchezza di ogni vocazione cristiana: la gioia di saperci figli. Questa è l’esperienza che sostiene la nostra vita, la quale vuol’essere sempre una risposta grata a quell’amore. Com’è importante rinnovare giorno per giorno questa gioia! Soprattutto nei momenti in cui la gioia sembra che sia scomparsa o l’anima è annebbiata o ci sono cose che non si capiscono; allora chiedere questo nuovamente e dire di nuovo: “Sono figlia, sono figlia di Dio”. Una via privilegiata che voi avete per rinnovare questa certezza è la vita di preghiera, preghiera comunitaria e personale. La preghiera è il nucleo della vostra vita consacrata, della vostra vita contemplativa ed è il modo di coltivare l’esperienza di amore che sorregge la nostra fede, e come ben ci diceva la Madre Soledad, è una preghiera sempre missionaria. Non è una preghiera che rimbalza contro il muro del convento e torna indietro, no, è una preghiera che esce e va e va… La preghiera missionaria è quella che ottiene di unirsi ai fratelli nelle varie circostanze in cui si trovano e pregare perché non manchino loro l’amore e la speranza. Così diceva Santa Teresa di Gesù Bambino: «Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che l'amore è eterno. […] Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore».[1] Che ognuna di voi possa dire questo! Se qualcuna è un po’ “fiacca” e si è spento in lei il fuocherello dell’amore, lo chieda, lo chieda! E’ un regalo di Dio poter amare. Essere l’amore! È saper stare accanto alla sofferenza di tanti fratelli e dire con il salmista: «Nel pericolo ho gridato al Signore: mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo» (Sal 117,5). Così la vostra vita nella clausura riesce ad avere una portata missionaria e universale e «un ruolo fondamentale nella vita della Chiesa. Pregate e intercedete per tanti fratelli e sorelle che sono carcerati, migranti, rifugiati e perseguitati, per tante famiglie ferite, per le persone senza lavoro, per i poveri, per i malati, per le vittime delle dipendenze, per citare alcune situazioni che sono ogni giorno più urgenti. Voi siete come quegli amici che portarono il paralitico davanti al Signore, perché lo guarisse (cfr Mc 2,1-12). Non si vergognavano, erano “spudorati”, ma in senso buono. Non ebbero vergogna di fare un buco nel tetto e far scendere il paralitico. Siate “spudorate”, non vergognatevi di fare in modo, con la preghiera, che la miseria degli uomini si avvicini alla potenza di Dio. Questa è la vostra preghiera. Attraverso la preghiera voi, giorno e notte, avvicinate al Signore la vita di tanti fratelli e sorelle che per diverse situazioni non possono raggiungerlo per fare esperienza della sua misericordia risanatrice, mentre Lui li attende per fare loro grazia. Con la vostra preghiera potete guarire le piaghe di tanti fratelli».[2] Proprio per questo possiamo affermare che la vita di clausura non imprigiona né restringe il cuore, ma piuttosto lo allarga. Guai alla religiosa che ha il cuore ristretto! Per favore, cercate un rimedio. Non si può essere religiosa contemplativa con il cuore ristretto. Che torni a respirare, che torni a essere un cuore grande! E inoltre, le religiose con questo cuore ristretto sono religiose che hanno perso la fecondità e non sono madri; si lamentano di tutto, sono amareggiate, sempre alla ricerca di qualche quisquilia per lamentarsi. La santa Madre [Teresa di Gesù] diceva: «Guai alla monaca che dice: “Mi hanno fatto un’ingiustizia senza motivo!”». Nel convento non c’è posto per le “collezioniste di ingiustizie”; ma c’è posto per quelle che aprono il cuore e sanno portare la croce, la croce feconda, la croce dell’amore, la croce che dà vita. L’amore allarga il cuore, e perciò con il Signore andiamo avanti, perché Lui ci rende capaci di sentire in modo nuovo il dolore, la sofferenza, la frustrazione, la sventura di tanti fratelli che sono vittime di questa “cultura dello scarto” del nostro tempo. Che l’intercessione per i bisognosi sia la caratteristica della vostra preghiera. Con le braccia in alto, come Mosè, con il cuore così trafitto, domandando... E quando è possibile aiutateli, non solo con la preghiera, ma anche con il servizio concreto. Quanti conventi dei vostri, senza venir meno alla clausura, rispettando il silenzio, in qualche momento di parlatorio possono fare tanto bene. La preghiera di supplica che si fa nei vostri monasteri, sintonizza con il Cuore di Gesù che implora il Padre perché tutti siamo uno, così il mondo crederà (cfr Gv 17,21). Quanto abbiamo bisogno dell’unità nella Chiesa! Che tutti siamo uno. Quanto abbiamo bisogno che i battezzati siano uno, che i consacrati siano uno, che i sacerdoti siano uno, che i vescovi siano uno! Oggi e sempre! Uniti nella fede. Uniti dalla speranza. Uniti dalla carità. In quell’unità che promana dalla comunione con Cristo che ci unisce al Padre nello Spirito e, nell’Eucaristia, ci unisce gli uni agli altri in questo grande mistero che è la Chiesa. Vi chiedo, per favore, di pregare molto per l’unità di questa amata Chiesa peruviana, perché è tentata di disunione. A voi affido l’unità, l’unità della Chiesa, l’unità degli operatori pastorali, dei consacrati, del clero e dei vescovi. Il demonio è menzognero, ed è anche pettegolo, gli piace portare da una parte e dall’altra, cerca di dividere, vuole che nella comunità le une parlino male delle altre. Questo l’ho detto tante volte, e perciò mi ripeto: sapete che cosa è la religiosa pettegola? E’ una “terrorista”. Peggio di quelli di Ayacucho di anni fa, peggio, perché il pettegolezzo è come una bomba: lei va e “pss… pss…pss…”, come il diavolo, tira la bomba, distrugge e se ne va tranquilla. Niente suore “terroriste”, senza pettegolezzi. Già sapete che il miglior rimedio per non spettegolare è mordersi la lingua. L’infermiera avrà da fare perché vi si infiammerà la lingua, ma almeno non avrete tirato la bomba. Quindi, che non ci siano pettegolezzi nel convento, perché questa cosa è ispirata dal diavolo. Lui per natura è pettegolo e menzognero. E ricordatevi dei terroristi di Ayacucho quando vi viene voglia di spettegolare.. Impegnatevi nella vita fraterna, facendo in modo che ogni monastero sia un faro che possa fare luce in mezzo alla disunione e alla divisione. Aiutate a profetizzare che questo è possibile. Che chiunque si avvicini a voi possa pregustare la beatitudine della carità fraterna, così propria della vita consacrata e tanto necessaria nel mondo di oggi e nelle nostre comunità. Quando si vive la vocazione nella fedeltà, la vita si fa annuncio dell’amore di Dio. Vi chiedo di non cessare di dare questa testimonianza. In questa Chiesa delle Nazarene Carmelitane Scalze mi permetto di ricordare le parole della Maestra di vita spirituale, santa Teresa di Gesù: «Se perdete la guida, che è il buon Gesù, non troverete la via». State sempre dietro a Lui. “Sì, padre, ma a volte Gesù finisce sul calvario”. Allora vacci pure tu, perché anche lì Lui ti aspetta, perché ti ama. «Perché il Signore stesso dice di essere la via; il Signore dice anche di essere la luce, e che nessuno può andare al Padre se non per mezzo di Lui».[3] Care sorelle, sappiate una cosa: la Chiesa non vi tollera, la Chiesa ha bisogno di voi! La Chiesa ha bisogno di voi. Con la vostra vita fedele siate fari e indicate Colui che è via, verità e vita, l’unico Signore che offre pienezza alla nostra esistenza e dà la vita in abbondanza.[4] Pregate per la Chiesa, pregate per i pastori, per i consacrati, per le famiglie, per quelli che soffrono, per quelli che fanno il male e distruggono tanta gente, per quelli che sfruttano i loro fratelli. E per favore, continuando con la lista dei peccatori, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie. [1] Lettera a Suor Maria del Sacro Cuore (8 settembre 1896): Manoscritti autobiografici, Ms B, [3v.]. [2] Cost. ap. Vultum Dei quaerere, 16. [3] Il castello interiore, VI, cap. 7, n. 6. [4] Cfr Cost. ap. Vultum Dei quaerere, 6.
Preghiera davanti alle reliquie dei santi peruviani
Dio e Padre nostro, che per mezzo di Gesù Cristo hai istituito la Chiesa sul fondamento degli Apostoli, affinché, guidata dallo Spirito Santo, sia nel mondo segno e strumento del tuo amore misericordioso, ti rendiamo grazie per i doni che hai elargito alla nostra Chiesa di Lima. Ti ringraziamo in modo speciale per la santità fiorita nella nostra terra. La nostra Chiesa arcidiocesana, fecondata dal lavoro apostolico di San Toribio di Mongrovejo; accresciuta dalla preghiera, dalla penitenza e dalla carità di Santa Rosa da Lima e San Martino di Porres; arricchita dallo zelo missionario di San Francesco Solano e dall’umile servizio di San Giovanni Macías; benedetta dalla testimonianza di vita cristiana di altri fratelli fedeli al Vangelo, è grata per la tua azione nella nostra storia e ti supplica di poter essere fedele all’eredità ricevuta. Aiutaci ad essere Chiesa in uscita, avvicinandoci a tutti, specialmente ai più svantaggiati; insegnaci ad essere discepoli missionari di Gesù Cristo, il Signore dei Miracoli, vivendo l’amore, ricercando l’unità e praticando la misericordia, affinché, protetti dall’intercessione di Nostra Signora dell’Evangelizzazione, viviamo e annunciamo al mondo la gioia del Vangelo.
Cari giovani, sono contento di poter stare con voi. Questi incontri per me sono molto importanti e ancora di più in questo anno nel quale ci prepariamo per il Sinodo sui giovani. I vostri volti, le vostre aspirazioni, la vostra vita sono importanti per la Chiesa e dobbiamo dare ad essi l’importanza che meritano e avere il coraggio che hanno avuto tanti giovani di questa terra che non hanno avuto paura di amare e spendere la propria vita per Gesù . Cari amici, quanti esempi avete voi! Penso a San Martín de Porres. Niente impedì a quel giovane di realizzare i suoi sogni, niente gli impedì di spendere la sua vita per gli altri, niente gli impedì di amare e lo fece perché aveva sperimentato che il Signore lo aveva amato per primo. Così com’era: mulatto e alle prese con molte privazioni. A uno sguardo umano, agli occhi dei suoi amici, sembrava destinato a “perdere”, ma lui seppe fare la cosa che sarebbe diventata il segreto della sua vita: avere fiducia. Avere fiducia nel Signore che lo amava. E sapete perché? Perché il Signore per primo aveva avuto fiducia in lui; come ha fiducia in ognuno di voi, e non si stancherà mai di avere fiducia. Ad ognuno di noi il Signore affida qualcosa, e la risposta è avere fiducia in Lui. Ognuno di voi pensi adesso, nel proprio cuore: che cosa mi ha affidato il Signore? Che cosa mi ha affidato il Signore? Ognuno pensi… Che cosa ho nel mio cuore che mi ha affidato il Signore? Potrete dirmi: ma ci sono delle volte in cui diventa molto difficile. Vi capisco. In quei momenti possono venire pensieri negativi, sentire che ci sono tante situazioni che ci vengono addosso e sembra che noi rimaniamo “fuori dai mondiali”; sembra che ci stanno vincendo. Ma non è così, anche nei momenti in cui ormai ci arriva l’eliminazione, continuare ad avere fiducia. Ci sono momenti in cui potete pensare che rimarrete senza poter realizzare i desideri della vostra vita, i vostri sogni. Tutti attraversiamo situazioni così. In quei momenti, quando sembra che si spenga la fede, non dimenticatevi che Gesù è accanto a voi. Non datevi per vinti, non perdete la speranza! Non dimenticatevi dei santi che dal cielo ci accompagnano; rivolgetevi a loro, pregate e non stancatevi di chiedere la loro intercessione. Sono i santi di ieri ma anche di oggi: questa terra ne ha molti, perché è una terra “colmata di santità”. Il Perù è una terra “colmata di santità”. Cercate l’aiuto e il consiglio di persone che voi sapete sono buone per consigliarvi, perché i loro volti esprimono gioia e pace. Fatevi accompagnare da loro e così andate avanti nel cammino della vita. Ma c’è un’altra cosa: Gesù vuole vedervi in movimento; vuole vederti portare avanti i tuoi ideali, e che ti decidi a seguire le sue istruzioni. Lui vi condurrà sulla via delle beatitudini, una via per niente facile ma appassionante, è una via che non si può percorrere da soli, bisogna percorrerla in gruppo, dove ciascuno può collaborare dando il meglio di sé. Gesù conta su di te come fece tanto tempo fa con Santa Rosa da Lima, San Toribio, San Giovanni Macías, San Francesco Solano e tanti altri. E oggi domanda a te se, come a loro: sei disposto, sei disposta a seguirlo? [rispondono: sì!] Oggi, domani, sei disposto, sei disposta a seguirlo? [rispondono: sì!] E tra una settimana? [rispondono: sì!] Non esserne così sicuro, non esserne così sicura. Guardate, se volete essere disposti a seguirlo, chiedeteGli di prepararvi il cuore per essere disposti a seguirlo. E’ chiaro? [rispondono: sì!] Cari amici, il Signore vi guarda con speranza, non si scoraggia mai riguardo a noi. Forse a noi succede che ci scoraggiamo di un amico, di un’amica, perché ci sembrava bravo e poi invece abbiamo visto che non era così bravo, ci scoraggiamo e lo lasciamo da parte. Gesù non si scoraggia mai, mai. “Padre, ma se Lei sapesse le cose che io faccio…, dico una cosa e ne faccio un’altra, la mia vita non è del tutto pulita…”. Ma nonostante tutto, Gesù non si scoraggia nei vostri confronti. E adesso facciamo un po’ di silenzio. Ognuno guardi nel proprio cuore, com’è la sua vita. La guardi nel cuore. E troverai che in certi momenti ci sono cose buone, in altri ci sono cose che non sono tanto buone, e nonostante tutto Gesù non si scoraggia nei vostri confronti. E nel tuo cuore digli: “Grazie, Gesù, grazie perché sei venuto per accompagnarmi anche quando ero in una brutta situazione. Grazie, Gesù”. Lo diciamo tutti insieme: Grazie, Gesù. [ripetono: “Grazie, Gesù”]. E’ molto bello vedere le foto ritoccate digitalmente, ma questo serve solo per le foto, non possiamo fare il “fotoshop” agli altri, alla realtà, a noi stessi. I filtri colorati e l’alta definizione vanno bene solo nei video, ma non possiamo mai applicarli agli amici. Ci sono foto che sono molto belle, ma sono tutte truccate, e lasciate che vi dica che il cuore non si può “fotoshoppare”, perché è lì che si gioca l’amore vero, è lì che si gioca la felicità, è lì che mostri quello che sei: com’è il tuo cuore? Gesù non vuole che ti “trucchino” il cuore, Lui ti ama così come sei e ha un sogno da realizzare con ognuno di voi. Non dimenticatelo, Lui non si scoraggia riguardo a noi. E se voi vi scoraggiate vi invito a prendere la Bibbia, e leggendo ricordare gli amici che Gesù ha scelto, che Dio ha scelto. Mosè era balbuziente; Abramo, un vecchio; Geremia era molto giovane; Zaccheo, uno piccoletto; i discepoli, quando Gesù diceva loro di pregare si addormentavano; la Maddalena, una pubblica peccatrice; Paolo, un persecutore di cristiani; e Pietro, lo rinnegò…, poi è stato fatto Papa, ma lo rinnegò… E così potremmo continuare questo elenco. Gesù ti vuole bene così come sei, come ha voluto bene a questi suoi amici così com’erano, con i loro difetti, con la voglia di correggersi, ma così come sei, così ti ama il Signore. Non ti devi truccare, non truccarti il cuore, ma mostrati davanti a Gesù come sei perché Lui ti possa aiutare a progredire nella vita. Quando Gesù ci guarda, non pensa a quanto siamo perfetti, ma a tutto l’amore che abbiamo nel cuore da offrire e per seguire Lui. Per Lui, quella è la cosa importante, la cosa più grande: quanto amore ho io nel mio cuore? E questa domanda voglio che la facciamo anche a nostra Madre: “Madre, amata Vergine Maria, guarda l’amore che ho nel cuore. E’ poco? E’ tanto? Non so se è amore”. E siate sicuri che Lei vi accompagnerà in ogni momento della vita, in tutti gli incroci delle vostre strade, specialmente quando dovrete prendere decisioni importanti. Non scoraggiatevi, non scoraggiatevi! Andate avanti, tutti insieme! Perché la vita vale la pena di essere vissuta a fronte alta. E che Dio vi benedica!
«Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico» (Gn 3,2). Con queste parole il Signore si rivolgeva a Giona mettendolo in movimento verso quella grande città che era sul punto di essere distrutta a causa dei suoi molti mali. Vediamo anche Gesù, nel Vangelo, in cammino verso la Galilea per predicare la sua buona notizia (cfr Mc 1,14). Entrambe le letture ci rivelano Dio in movimento davanti alle città di ieri e di oggi. Il Signore si mette in cammino: va a Ninive, in Galilea,… a Lima, a Trujillo, a Puerto Maldonado… il Signore viene qui. Si mette in movimento per entrare nella nostra storia personale, concreta. Lo abbiamo celebrato da poco: è l’Emmanuele, il Dio che vuole stare sempre con noi. Sì, qui a Lima, o dovunque stai vivendo, nella vita quotidiana del lavoro sempre uguale, nell’educazione dei figli, piena di speranza, tra le tue aspirazioni e i tuoi impegni; nell’intimità della casa e nel rumore assordante delle nostre strade. E’ lì, in mezzo alle strade polverose della storia, dove il Signore ti viene incontro. Certe volte può succederci lo stesso che a Giona. Le nostre città, con le situazioni di dolore e di ingiustizia che ogni giorno si ripetono, possono suscitare in noi la tentazione di fuggire, di nasconderci, di defilarci. E i motivi, a Giona e ai noi, non mancano. Guardando la città potremmo cominciare a constatare che ci sono «ci sono cittadini che ottengono i mezzi adeguati per lo sviluppo della vita personale e familiare, e questo ci rallegra; però sono moltissimi i “non cittadini”, i “cittadini a metà” o gli “avanzi urbani”»[1] che stanno ai bordi delle nostre strade, che vanno a vivere ai margini delle nostre città senza condizioni necessarie per condurre una vita dignitosa, e fa male constatare che molte volte tra questi “avanzi umani” si trovano i volti di tanti bambini e adolescenti. Si trova il volto del futuro. E vedendo queste cose nelle nostre città, nei nostri quartieri – che potrebbero essere luoghi di incontro e di solidarietà, di gioia –finisce per provocare quella che potremmo chiamare la sindrome di Giona: uno spazio di fuga e di sfiducia (cfr Gn 1,3). Uno spazio per l’indifferenza, che ci trasforma in anonimi e sordi davanti agli altri, ci fa diventare esseri impersonali dal cuore asettico, e con questo atteggiamento facciamo male all’anima del popolo, di questo nobile popolo. Come ci faceva notare Benedetto XVI, «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel suo rapporto con la sofferenza e col sofferente. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana».[2] Quando arrestarono Giovanni [il Battista], Gesù si recò in Galilea a predicare il Vangelo di Dio. A differenza di Giona, Gesù, di fronte a un avvenimento doloroso e ingiusto come fu l’arresto di Giovanni, entra nella città, entra in Galilea e comincia da quella piccola popolazione a seminare quello che sarebbe stato l’inizio della più grande speranza: il Regno di Dio è vicino, Dio è in mezzo a noi. E il Vangelo stesso ci mostra la gioia e l’effetto a catena che questo produce: cominciò con Simone e Andrea, poi Giacomo e Giovanni (cfr Mc 1,14-20) e, a partire da allora, passando per Santa Rosa da Lima, San Toribio, San Martino de Porres, San Giovanni Macías, San Francesco Solano, è giunto fino a noi annunciato dalla nube di testimoni che hanno creduto in Lui. E’ arrivato fino a Lima, fino a noi per impegnarsi nuovamente come un rinnovato antidoto contro la globalizzazione dell’indifferenza. Perché davanti a questo Amore non si può rimanere indifferenti. Gesù ha chiamato i suoi discepoli a vivere nell’oggi ciò che ha sapore di eternità: l’amore per Dio e per il prossimo; e lo fa nell’unica maniera in cui può farlo, alla maniera divina: suscitando la tenerezza e l’amore misericordioso, suscitando la compassione e aprendo i loro occhi perché imparino a guardare la realtà in maniera divina. Li invita a creare nuovi legami, nuove alleanze portatrici di eternità. Gesù percorre la città; lo fa con i suoi discepoli e comincia a vedere, ad ascoltare, a fare attenzione a coloro che avevano ceduto sotto il manto dell’indifferenza, lapidati dal grave peccato della corruzione. Comincia a svelare tante situazioni che soffocavano la speranza del suo popolo suscitando una nuova speranza. Chiama i suoi discepoli e li invita ad andare con Lui, li invita a percorrere la città, ma cambia loro il ritmo, insegna a guardare ciò a cui fino ad ora passavano sopra, indica nuove urgenze. Convertitevi, dice loro, il Regno dei Cieli è incontrare in Gesù Dio che mescola la sua vita con la vita del suo popolo, si coinvolge e coinvolge altri perché non abbiano paura di fare di questa storia una storia di salvezza (cfr Mc 1,15.21ss.). Gesù continua a camminare per le nostre strade, come ieri continua a bussare alle porte, a bussare ai cuori per riaccendere la speranza e gli aneliti: che il degrado sia superato dalla fraternità, l’ingiustizia vinta dalla solidarietà e la violenza spenta con le armi della pace. Gesù continua a chiamare e vuole ungerci col suo Spirito perché anche noi andiamo a ungere con quella unzione capace di guarire la speranza ferita e rinnovare il nostro sguardo. Gesù continua a camminare e risveglia la speranza che ci libera da rapporti vuoti e da analisi impersonali e ci chiama a coinvolgerci come fermenti lì dove siamo, dove ci è dato di vivere, in quell’angolino di tutti i giorni. Il Regno dei Cieli è in mezzo a voi – ci dice –, è lì dove sappiamo usare un po’ di tenerezza e di compassione, dove non abbiamo paura di creare spazi perché i ciechi vedano, i paralitici camminino, i lebbrosi siano purificati e i sordi odano (cfr Lc 7,22), e così tutti quelli che davamo per perduti godano della Risurrezione. Dio non si stanca e non si stancherà di camminare per raggiungere i suoi figli. Ciascuno dei suoi figli. Come accenderemo la speranza se mancano profeti? Come affronteremo il futuro se ci manca l’unità? Come arriverà Gesù in tanti posti, se mancano audaci e validi testimoni? Oggi il Signore ti chiama a percorrere con Lui la città,ti invita a camminare con Lui la tua città. Ti chiama ad essere suo discepolo missionario, e così a diventare partecipe di quel grande sussurro che vuole continuare a risuonare in ogni angolo della nostra vita: Rallegrati, il Signore è con te!
Cari fratelli nell’episcopato, grazie per le parole che mi hanno rivolto il Cardinale Arcivescovo di Lima e il Presidente della Conferenza Episcopale a nome di tutti i presenti. Desideravo trovarmi con voi. Conservo un bel ricordo della visita ad limina dello scorso anno. Penso che allora abbiamo parlato di molte cose, e perciò quello che dirò oggi non sarà molto ampio. Le giornate passate tra voi sono state molto intense e gratificanti. Ho potuto ascoltare e vivere le diverse realtà che formano questo Paese – una rappresentanza – e condividere da vicino la fede del santo Popolo fedele di Dio, che ci fa tanto bene. Grazie per l’opportunità di poter “toccare” la fede del Popolo, di questo Popolo che Dio vi ha affidato. E davvero qui non si può non toccare! Se tu non tocchi la fede del Popolo, la fede del Popolo non tocca te; ma essere lì, con le strade piene, è una grazia e c’è da mettersi in ginocchio. Il motto di questo viaggio ci parla di unità e di speranza. E’ un programma arduo, ma al tempo stesso stimolante, che ci fa pensare alle imprese di San Toribio di Mogrovejo, Arcivescovo di questa Sede e patrono dell’episcopato latinoamericano, un esempio di «costruttore di unità ecclesiale», come lo definì il mio predecessore San Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio apostolico in questa terra.[1] E’ significativo che questo santo Vescovo sia rappresentato nei ritratti come un “nuovo Mosè”. Come sapete, in Vaticano si conserva un quadro che raffigura San Toribio che attraversa un grande fiume, le cui acque si aprono al suo passaggio come se si trattasse del mar Rosso, perché possa giungere all’altra sponda dove lo aspetta un numeroso gruppo di indigeni. Alle spalle di San Toribio c’è una gran moltitudine di persone, che è il popolo fedele che segue il suo pastore nell’opera dell’evangelizzazione.[2] Questo quadro si trova nella Pinacoteca Vaticana. Questa bella immagine mi offre lo spunto per incentrare su di essa la mia riflessione con voi. San Toribio, l’uomo che ha saputo arrivare all’altra sponda. Lo vediamo fin dal momento in cui riceve il mandato di venire in queste terre con la missione di essere padre e pastore. Lasciò un terreno sicuro per addentrarsi in un universo totalmente nuovo, sconosciuto e pieno di sfide. Andò verso una terra promessa guidato dalla fede come «fondamento di ciò che si spera» (Eb 11,1). La sua fede e la sua fiducia nel Signore lo spinsero allora e lo spingeranno per tutta la sua vita a passare all’altra riva, dove Lui lo aspettava in mezzo a una moltitudine. 1. Volle andare all’altra riva in cerca dei lontani e dei dispersi. A tale scopo dovette lasciare le comodità del vescovado e percorrere il territorio affidatogli, in continue visite pastorali, cercando di arrivare e stare là dove c’era bisogno, e quanto c’era bisogno! Andava incontro a tutti per sentieri che, a detta del suo segretario, erano più per le capre che per le persone. Doveva affrontare i più diversi climi e ambienti; «di 22 anni di episcopato – 22 e un pezzetto –, 18 li passò fuori da Lima, fuori dalla sua città, percorrendo per tre volte il suo territorio»,[3] che andava da Panama fino all’inizio della capitania del Chile, che non so dove iniziasse a quei tempi – forse all’altezza di Iquique, non sono sicuro – ma fino all’inizio della capitania del Chile. Come qualcuna delle vostre diocesi, niente di più! Diciotto anni percorrendo per tre volte il suo territorio, sapeva che questa era l’unica forma di pastorale: stare vicino distribuendo i doni di Dio, esortazione che dava anche continuamente ai suoi presbiteri. Ma non lo faceva con le parole bensì con la sua testimonianza, stando lui stesso in prima linea nell’evangelizzazione. Oggi lo chiameremmo un vescovo “di strada”. Un vescovo con le suole consumate dal camminare, dall’andare incontro per «annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno».[4] Come sapeva bene questo San Toribio! Senza paura e senza repulsioni si addentrò nel nostro continente per annunciare la Buona Notizia. 2. Volle arrivare all’altra riva non solo geografica ma anche culturale. Fu così che promosse con molti mezzi un’evangelizzazione nella lingua nativa. Con il terzo Concilio di Lima dispose che i catechismi fossero realizzati e tradotti in quechua e in aymara. Spinse il clero a studiare e conoscere la lingua dei loro fedeli per poter amministrare i Sacramenti in modo comprensibile. Io penso alla riforma liturgica di Pio XII, quando iniziò con questo a riprendere per tutta la Chiesa … Visitando il suo Popolo e vivendo con esso si rese conto che non bastava raggiungerlo solo fisicamente, ma era necessario imparare a parlare il linguaggio degli altri: solo così il Vangelo avrebbe potuto essere capito e penetrare nei cuori. Com’è urgente questa visione per noi, pastori del secolo XXI!, ai quali tocca imparare un linguaggio totalmente nuovo com’è quello digitale, per fare un esempio. Conoscere il linguaggio attuale dei nostri giovani, delle nostre famiglie, dei bambini… Come seppe vedere bene San Toribio, non basta solo arrivare in un posto e occupare un territorio, bisogna poter suscitare processi nella vita delle persone perché la fede metta radici e sia significativa. E a tale scopo dobbiamo parlare la loro lingua. Occorre arrivare lì dove si generano i nuovi temi e paradigmi, raggiungere con la Parola di Dio i nuclei più profondi dell’anima delle nostre città e dei nostri popoli.[5] L’evangelizzazione della cultura ci chiede di entrare nel cuore della cultura stessa affinché questa sia illuminata dall’interno dal Vangelo. Veramente mi ha commosso, l’altro ieri, a Puerto Maldonado, quando – tra tutti i nativi presenti, di tante etnie – mi ha commosso quando tre mi hanno portato una stola: tutti dipinti, con i loro abiti, erano diaconi permanenti! Coraggio, coraggio, così faceva Toribio. In quell’epoca non c’erano diaconi permanenti, c’erano catechisti, ma nello loro lingua, nella loro cultura, e lui si mise lì… Mi ha commosso vedere quei diaconi permanenti. 3. Volle arrivare all’altra riva della carità. Per il nostro Patrono l’evangelizzazione non poteva avvenire senza la carità. Sapeva infatti che la forma più sublime dell’evangelizzazione era plasmare nella propria vita la donazione di Cristo per amore ad ogni uomo. I figli di Dio e i figli del demonio si manifestano in questo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e nemmeno chi non ama il suo fratello (cfr Gv 3,10). Nelle sue visite poté constatare gli abusi e gli eccessi che pativano le popolazioni originarie, e così non esitò, nel 1585, a scomunicare il governatore di Cajatambo, affrontando tutto un sistema di corruzione e una rete di interessi che «attirava l’ostilità di molti», compreso il Virrey.[6] Così ci mostra il pastore che sa come il bene spirituale non possa mai essere separato dal giusto bene materiale e tanto più quando è messa a rischio l’integrità e la dignità delle persone. Profezia episcopale che non ha paura di denunciare gli abusi e gli eccessi commessi contro il suo popolo. E in questo modo sa ricordare all’interno della società e delle comunità che la carità va sempre accompagnata dalla giustizia e non c’è autentica evangelizzazione che non annunci e denunci ogni mancanza contro la vita dei nostri fratelli, specialmente contro la vita dei più vulnerabili. E’ un avvertimento contro qualunque tipo di civetteria mondana che ci lega le mani per alcune piccolezze… La libertà del Vangelo… 4. Volle arrivare all’altra riva nella formazione dei suoi sacerdoti. Fondò il primo seminario dopo il Concilio [di Trento] in questa zona del mondo, promuovendo così la formazione del clero nativo. Capì che non bastava andare da tutte le parti e parlare la stessa lingua, che era necessario che la Chiesa potesse generare propri pastori locali e così sarebbe diventata madre feconda. Perciò difese l’ordinazione dei meticci – quando essa era molto discussa – cercando di favorire e stimolare che il clero, se doveva distinguersi in qualcosa, fosse per la santità dei pastori e non per l’origine etnica.[7] E questa formazione non si limitava solo allo studio nel seminario, ma proseguiva nelle continue visite che faceva loro, stava vicino ai suoi preti. Lì poteva toccare con mano lo stato dei suoi preti, e prendersene cura. Racconta la leggenda che ai vespri di Natale sua sorella gli regalò una camicia da indossare durante le feste. Quel giorno lui andò a far visita a un prete e vedendo le condizioni in cui viveva, si tolse la camicia e gliela diede.[8] E’ il pastore che conosce i suoi sacerdoti. Cerca di raggiungerli, accompagnarli, stimolarli, ammonirli – ricordò ai suoi preti che erano pastori e non commercianti e perciò dovevano aver cura degli indigeni e difenderli come figli.[9] Però non lo fa stando alla scrivania, e così può conoscere le sue pecore ed esse riconoscono nella sua voce la voce del Buon Pastore. 5. Volle arrivare all’altra riva, quella dell’unità. Promosse in modo mirabile e profetico la formazione e l’integrazione di spazi di comunione e partecipazione tra le diverse componenti del Popolo di Dio. Lo evidenziò San Giovanni Paolo II quando, in queste terre, parlando ai Vescovi disse: «Il III Concilio Limense è il risultato di questa tensione, presieduto, incoraggiato e diretto da San Toribio, che diede come frutti un prezioso tesoro di unità nella fede, norme pastorali e organizzative e al tempo stesso valide ispirazioni per l’auspicata integrazione latinoamericana».[10] Sappiamo bene che questa unità e questo consenso fu preceduta da grandi tensioni e conflitti. Non possiamo negare le tensioni – ci sono –, le diversità – ci sono –; è impossibile una vita senza conflitti. Ma questi richiedono da noi, se siamo uomini e cristiani, di affrontarli e accettarli. Ma accettarli in unità, in dialogo onesto e sincero, guardandoci in faccia e guardandoci dalla tentazione o di ignorare quanto accaduto o di restarne prigionieri e senza orizzonti che permettano di trovare strade che siano di unità e di vita. E’ fonte di ispirazione, nel nostro cammino di Conferenza Episcopale, ricordare che l’unità prevarrà sempre sul conflitto.[11] Cari fratelli Vescovi, lavorate per l’unità, non rimanete prigionieri di divisioni che riducono e limitano la vocazione alla quale siamo stati chiamati: essere sacramento di comunione. Non dimenticate che ciò che attirava nella Chiesa primitiva era vedere come si amavano. Questa era – è e sarà – la migliore evangelizzazione. 6. E per San Toribio giunse il momento di partire per la riva definitiva, verso quella terra che lo aspettava e che andava assaporando nel suo continuo lasciare la sponda. Questa nuova partenza, non la faceva da solo. Come nel quadro che commentavo all’inizio, andava incontro ai santi seguito da una grande moltitudine alle sue spalle. E’ il pastore che ha saputo riempire la sua valigia di volti e di nomi. Essi erano il suo passaporto per il cielo. Al punto che non vorrei tralasciare la nota finale, il momento in cui il pastore consegnava la sua anima a Dio. Lo fece in una borgata in mezzo alla sua gente e un aborigeno gli suonava il flauto perché l’anima del suo pastore si sentisse in pace. Voglia il cielo, fratelli, che quando dovremo compiere l’ultimo viaggio, possiamo vivere queste cose. Chiediamo al Signore che ce lo conceda.[12] Preghiamo gli uni per gli altri, e pregate per me. [1] Discorso all’episcopato peruviano (2 febbraio 1985), 3. [2] Cfr Miracolo di San Toribio, Pinacoteca Vaticana. [3] J.M. Bergoglio, Omelia nella celebrazione eucaristica, Aparecida (16 maggio 2007). [4] Esort. ap. Evangelii gaudium, 23. [5] Cfr ibid., 74. [6] Cfr Ernesto Rojas Ingunza, El Perú de los Santos, in: Kathy Perales Ysla (coord.), Cinco Santos del Perú. Vida, obra y tiempo, Lima (2016), 57. [7] Cfr José Antonio Benito Rodríguez, Santo Toribio de Mogrovejo, in: Kathy Perales Ysla (coord.), Cinco Santos del Perú. Vida, obra y tiempo, 178. [8] Cfr ibid., 180. [9] Cfr Juan Villegas, Fiel y evangelizador. Santo Toribio de Mogrovejo, patrono de los obispos de América Latina, Montevideo (1984), 22. [10] Discorso all’episcopato peruviano (2 febbraio 1985), 3. [11] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 226-230. [12] Cfr Jorge Mario Bergoglio, Omelia nella celebrazione eucaristica, Aparecida (16 maggio 2007).
Conferenza Stampa del Santo Padre
Greg Burke:
Santo Padre, grazie! Grazie per il tempo che ci dà, stasera, dopo un viaggio lungo e intenso, a volte un po’ caldo e umido, però un viaggio ricco dove Lei ha toccato il cuore della gente, il “santo Pueblo fiel de Dios”, con un messaggio di pace e speranza. Ma Lei ha anche affrontato le sfide per la Chiesa in Cile, per la Chiesa in Perù e anche per le due società, con un’attenzione speciale alla dignità umana, ai popoli indigeni e all’Amazzonia. Grazie per l’opportunità di seguirLa da vicino. E adesso cerchiamo di approfondire un po’ i temi del viaggio. Papa Francesco: Buona sera. Grazie per il vostro lavoro. E’ stato un viaggio… non so come si dice in italiano, ma in spagnolo si dice “pasteurizado”, come si fa con il latte: si fa passare dal freddo al caldo, dal caldo al freddo, e noi siamo passati dal Sud del Cile, fresco, quel paesaggio bellissimo, al deserto, alla foresta di Maldonado, poi a Trujillo, il mare, e poi Lima: tutte le temperature e tutti i climi. E questo stanca. Grazie tante. E adesso, le domande.
Greg Burke:
Abbiamo domande dal Perù e dal Cile, per incominciare. Abbiamo Armando Canchanya.
Papa Francesco:
Cominciamo con quelle del viaggio, tutti, e quando finiscono queste, se manca qualcosa sul viaggio lo dirò io, e poi le altre domande, se ci sono.
Armando Canchanya Alaya di Rpp del Perù:
Santo Padre, quería agradecerle por habernos permitido acompañarlo en este viaje. Usted dijo en el vuelo de ida que no conocía bien el Perú y en estos días ha tenido la oportunidad de recorrer tres ciudades... Quería preguntarle por este viaje en el que la gente se ha volcado a verle, incluso ha llegado cariñosamente a decirle: “Panchito, no te vayas”… ¿Qué se lleva del viaje el Santo Padre, que se lleva del Perú?
Papa Francesco:
Me llevo la impresión de un pueblo creyente, un pueblo que pasa muchas dificultades, y las pasó históricamente, pero una fe que me impresiona. No solo la fe en Trujillo, donde la piedad popular es muy rica y muy fuerte, sino la fe de las calles. Ustedes vieron lo que eran las calles, y no solo en Lima, donde evidentemente se nota, también en Trujillo. También en Puerto Maldonado yo pensaba tener el acto en un lugar como este –y era una plaza llena–, y cuando iba de un lado para otro, las calles también. O sea, un pueblo que salió a expresar su alegría y su fe. Es verdad que ustedes tienen –como dije hoy al mediodía–, ustedes son una tierra “ensantada”, son el pueblo latinoamericano que tiene más santos. Y santos de alto nivel: Toribio, Rosa, Martín, Juan. Creo que la fe la tiene muy calada dentro. Yo me llevo de Perú una impresión de alegría, de fe, de esperanza, de volver a andar, y sobre todo… muchos chicos. O sea, volví a ver esa imagen que vi en Filipinas y vi en Colombia: los papás y las mamás, a mi paso, levantando los chicos, y eso dice futuro, eso dice esperanza, porque nadie trae hijos al mundo si no tiene esperanza. Lo único que les pido es que cuiden la riqueza, no solo las que tienen las iglesias y los museos -que las obras de artes son geniales–, no solo las de la historia de la santidad y de los sufrimientos que los han enriquecido mucho, sino esta riqueza de estos días que yo vi. Giovanni Hinojosa Navarro de “La Republica”. Su Santidad, en el Perú la clase política ha defraudado el pueblo, con actos de corrupción e indultos negociados. Pero también lo han hecho algunos miembros de la Iglesia: basta ver a las víctimas del Sodalicio de Vida Cristiana esperando justicia. ¿Qué respuesta da usted a ambos casos? Papa Francesco: Bien, primero el problema de la corrupción. Yo no sabría responderte históricamente el progreso de la corrupción o históricamente en otros sectores del mundo. Yo sé que en algunos países de Europa hay mucha corrupción –algunos, no todos–. Sí, en Latinoamérica hay muchos focos de corrupción. Ahora está de moda hablar de Odebrecht, por ejemplo. Pero eso es un botón de muestra. El origen de la corrupción es…, yo diría que es el pecado original que te lleva... Yo escribí un librito una vez, muy pequeño, que se llama Pecado y corrupción; y el lema que saco de eso, de ese libro, es: “pecador sí, corrupto no”. Todos somos pecadores. Pero yo sé que todos nosotros, los que estamos acá, –también yo hago la voluntad de mi parte, y… pienso bien de ustedes que lo hacen–, cuando se encuentran en “off side”, en un pecado fuerte: “Bueno, ‘esto’ está mal, acá me porte mal con un amigo o robé, o hice ‘esto’ o me drogué”, y entonces me freno y trato de no hacerlo. Bueno, pero está el perdón de Dios sobre todo eso. Yo al pecado no le tengo miedo, le tengo miedo a la corrupción, porque la corrupción ya te va viciando el alma y el cuerpo; y un corrupto está tan seguro de sí mismo que no puede volver atrás. O sea, la corrupción es como esos pantanos chupadizos que vos pisás y querés salir, y das un paso y te vas más adentro, más adentro, más adentro, y te chupó. Es una ciénaga… Ese..., sí es la destrucción de la persona humana. Yo no sé si toqué algo, ¿si querés preguntar algo más sobre la corrupción?, después paso al Sodalicio. Y claro, el político tiene mucho poder. También el empresario tiene mucho poder. Un empresario que le paga la mitad a sus obreros es un corrupto, y un ama de casa que está acostumbrada y cree que es lo más normal explotar a las mucamas, ya sea con el sueldo ya sea con el modo de tratar, es una corrupta, porque ya lo toma como normal. Una vez, recuerdo una conversación que tuve con una persona, un profesional. Y me decía cómo llevaba la cosa; joven, tendría treinta años. Y él me decía que trataba al personal doméstico de una manera nada noble, y mencionaba las cosas que hacía con el personal doméstico. Yo le dije: “Pero… usted no puede hacer eso. Eso es pecado”. “Padre –me dice–, no vamos a comparar esa gente conmigo, esa gente está para eso”. Y es lo que piensa el tratante sexual, el tratante de trabajo esclavo: los corruptos. ¿Y en la Iglesia, hay corrupción? Sí. Hay casos de corrupción en la Iglesia. En la historia de la Iglesia siempre los hubo. Siempre los hubo, porque hombres y mujeres de Iglesia entraron en el juego de la corrupción. Y esto me sirve de puente para lo del Sodalicio. El Sodalicio empezó con un caso de una persona que parecía muy…, con mucha virtud, murió e investigando se descubrió que tenía doble vida. Es el primer caso del Sodalicio, que yo conozco. Pero esto hace 20, 25 años atrás, y después una denuncia ya de abuso, no solo sexual, sino de abuso de manipulación de conciencia para con el fundador. El proceso del fundador entró en la Santa Sede, se le dio una condena, no se lo expulsó del Sodalicio sino que vive solo, y una persona lo atiende… Él se declara inocente de las pruebas que hubo en el juicio y apeló a la Signatura Apostólica, que es la Suprema Corte de Justicia del Vaticano. La causa está en apelación. Por los datos que tengo saldrá en menos de un mes. Lleva un año en el proceso. En menos de un mes saldrá. Pero, ¿qué sucedió ahora? Ese juicio fue gatillo para que otras víctimas de esa persona hicieran juicio civil y eclesiástico. Entonces, si la Signatura Apostólica pone fin a este juicio primero… –sea favor o en contra–, ya no tiene sentido, porque este hombre, ahora sí, hay cosas mucho más graves que dirá la justicia, pero son varios casos graves e intervino la justicia civil, lo cual en estos casos de abusos siempre es conveniente, porque es un derecho. Y creo, por lo que sé, pero no estoy muy al tanto, que la cosa es bastante desfavorable al fundador. Por otro lado, no era una situación personal solamente, había cosas ahí no del todo claras. Entonces, hace casi dos años yo mandé un Visitador al Sodalicio en la persona del Cardenal Tobin, Obispo de Newark. El cardenal Tobin hace la visita; descubre cosas que no entiende o que no están claras; nombra dos veedores económicos y este es el tercer abuso que también rozaba al fundador: el manejo económico. Y después de un estudio recomienda “comisariar” el Sodalicio. Llegó la carta de él hace cuatro semanas, se estudió el caso y hace dos semanas se nombró un comisario. Si hoy día el Sodalicio está “comisariado” por la Santa Sede es por todo esto. Un caso parecido –parecido diría en los nuevos procedimientos, no en las acusaciones– es el de los Legionarios y ya fue resuelto en su momento por el Papa Benedicto XVI, que en eso estuvo muy firme y muy fuerte. Benedicto no toleraba esas cosas. Y yo aprendí de él a no tolerarlas tampoco. No sé si te respondí. O sea, el estado jurídico hoy día del Sodalicio es “comisariamiento” y a la vez sigue la Visita Apostólica. Juan Paulo Iglesias Mori, de la Tercera Buenas noches Santo Padre, muchas gracias por esta oportunidad de platearle algunas preguntas sobre el viaje. Yo quería preguntarle a propósito de su primer mensaje en Chile que fue muy duro contra los abusos. Usted habló de “vergüenza”, habló de comprender el dolor de la víctimas, pero el ultimo día en las declaraciones que hizo sobre el obispo Barros hubo también una declaración en que finalmente trató de mentir o calumniar a las víctimas, ¿por qué cree más al testimonio del obispo Barros que al de las víctimas? ¿No se traiciona un poco la confianza hacia esas víctimas que usted mismo planteó en Chile? Papa Francesco: Comprendo la pregunta. Sobre Barros hice una declaración, no declaraciones: una. Yo hablé en Chile, y eso fue en Iquique, al final. Hablé en Chile dos veces sobre los abusos: con mucha fuerza delante del gobierno, que era hablar delante de la Patria, y en la catedral con los sacerdotes. El discurso que dije a los sacerdotes es lo que yo siento más profundamente respecto a este caso. Ustedes saben que empezó papa Benedicto con tolerancia cero, yo seguí con tolerancia cero, y después de casi cinco años de Pontificado no he firmado un pedido de gracia. Los Procesos son así: entran en la Congregación para la Doctrina de la Fe y la Congregación da la sentencia… En los casos de quite del estado clerical es definitiva la sentencia en primera instancia; la persona que es condenada tiene derecho a apelar. Hay un Tribunal de Apelación de segunda instancia. El Tribunal de Apelación sabe que si hay pruebas claras de abuso no hay lugar para la apelación; no se apela, lo que sí puede apelarse son los procedimientos: falla de procedimientos, irregularidades…, entonces ahí tiene que sentenciar o revisión de proceso, como en todo juzgado, ¿no es cierto? Si la segunda instancia confirma la primera solamente le queda una salida, a la persona, y es apelar al Papa como gracia. Yo, en cinco años, habré recibido –no sé el número– 20, 25 casos de gracia que se animaron a pedir. No firmé ninguno. Solamente en un caso, que no fue gracia ni nada, fue una discusión de sentencia jurídica, en mi primer año de pontificado, y me encontré con dos sentencias. Una muy seria que venía de la diócesis, y otra que dio la Doctrina de la Fe. La Doctrina de la Fe era la más dura, la que venía de la diócesis era muy seria, con mucha cautela y muy condicionada. O sea, con estas condiciones hay que esperar un tiempo y ver que…, o sea, no cerraba el caso. Como hay que hacer en buena jurisprudencia, siempre a favor del reo, opté por la más leve, con las condiciones. A los dos años se evaluaron que las condiciones no las cumplió y entonces dejé funcionar la otra. Es el único caso que dudé, pero porque eran dos sentencias y había un principio jurídico, in dubio pro reo, ¿no? Y entonces opté por eso. Esa es mi postura. Ahora el caso del obispo Barros. Es un caso que lo hice estudiar, lo hice investigar, lo hice trabajar mucho, y realmente no hay evidencias –uso la palabra evidencia, porque después voy a hablar de la pruebas–, no hay evidencias de culpabilidad, más bien parece que no se van a encontrar porque hay una coherencia en otro sentido. Entonces, en base a ese no haber evidencias es que yo espero alguna evidencia para cambiar de postura, sino aplico el principio jurídico básico en todo tribunal: nemo malus nisi probetur, ninguno es malo a no ser que se pruebe. Y ahí está la palabra “prueba”, que creo que es la que me jugó a mí la mala pasada. [Estoy hablando en castellano - mi scusi, non me ne sono accorto…] Estaba entrando y una periodista de Iquique me pregunta: “Nosotros en Chile tenemos el gran problema del obispo Barros, ¿qué piensa usted?”. Creo que las palabras que dije fueron estas: –Primero pensé: “¿Respondo o no respondo?”. Dije, sí. ¿Por qué razón? Porque Barros había sido obispo de Iquique y una feligresa de él me lo preguntaba. Tiene derecho a una respuesta. Y dije: “el día que tenga una prueba voy a hablar”. Creo que dije “no tengo pruebas”, creo, pero no me acuerdo. Pero está registrado, lo puedes encontrar. [La risposta è stata…]. Yo hablaría de evidencias y claro, yo sé que hay mucha gente abusada que no puede traer una prueba, no la tiene. Y que no puede. O a veces la tiene, pero tiene vergüenza que lo tapa y sufre en silencio. El drama de los abusados es tremendo… es tremendo… A mí me tocó atender hace dos meses una mujer abusada hace cuarenta años –¡cuarenta!–. Casada, con tres hijos. Esa mujer no recibía la comunión desde esa época, porque en la mano del cura veía la mano del abusador. No podía acercarse. Y era creyente, era católica. No podía… [scusatemi se continuo in spagnolo…]. Así que la palabra prueba no era la mejor para acercarme a un corazón dolorido; yo diría, evidencias… En el caso de Barros se estudió, se reestudió, y no hay evidencias, y eso es lo que quise decir: no tengo evidencias para condenar. Y ahí, si yo condenara sin evidencias o sin certeza moral cometería –yo – un delito de mal juez. Pero hay otra cosa más que quiero decir ¿Vos entendés el italiano?
Lo spiegherò in italiano. Uno di voi si è avvicinato a me e mi ha detto: “Ha visto la lettera che è uscita?”, e mi ha fatto vedere una lettera che io avevo scritto alcuni anni fa, quando incominciò il problema di Barros. Quella lettera devo spiegarla, perché è anche una lettera a favore della prudenza con cui è stato gestito il problema Barros. Quella lettera non è la narrazione di un fatto puntuale; quella lettera è la narrazione di più o meno dieci/dodici mesi. Quando è scoppiato lo scandalo Karadima, un uomo di cui tutti conosciamo qual è lo scandalo, si incominciò a vedere quanti sacerdoti che erano stati formati da Karadima erano stati abusati o sono stati abusatori. Ci sono in Cile quattro vescovi che Karadima aveva inviato in seminario. Qualche persona della Conferenza episcopale ha suggerito che questi vescovi – tre, perché un quarto era molto malato e non aveva un incarico diocesano, ma tre avevano un incarico diocesano – se questi vescovi forse non fosse meglio che rinunciassero, dessero le dimissioni, si prendessero un anno sabbatico e poi, passata la tempesta, per evitare accuse… perché sono vescovi bravi, buoni vescovi. Come Barros: Barros aveva allora già vent’anni di episcopato. Stava per finire l’ordinariato militare, perché lui è stato prima ausiliare a Valparaíso, poi vescovo di Iquique e poi ordinario militare per quasi dieci anni. Dice: “Chiediamo le dimissioni a lui, forse spiegandogli…”; e lui generosamente ha dato le dimissioni. E’ venuto a Roma, e io ho detto: “No. Così non si gioca. Perché questo è ammettere colpevolezza previa. Ogni caso, se ci sono colpevoli, si indaga”. E io ho respinto le dimissioni. Questi sono i dieci mesi di quella lettera. Poi, quando è stato nominato [a Osorno], è andato avanti tutto questo movimento di protesta, e lui mi ha dato le dimissioni per la seconda volta. Ho detto: “No, tu vai”. Ho parlato a lungo con lui, altri hanno parlato a lungo con lui: “Tu vai”. E voi sapete cosa è successo lì il giorno della presa di possesso e tutto questo. Si è continuato a fare l’indagine su Barros: non emergono evidenze. Per questo… è quello che io ho voluto dire. Non posso condannarlo, perché non ho le evidenze; ma anch’io sono convinto che sia innocente. Passo a un terzo punto – quello della lettera l’ho spiegato chiaramente, così come è andato –, passo a un terzo punto: cosa sentono gli abusati. Su questo devo chiedere scusa, perché la parola “prova” ha ferito, ha ferito tanti abusati. “Ah, io devo andare a cercare la certifica di questo, o fare quello…?”. No. E’ una parola di traduzione del principio legale e ha ferito, e chiedo loro scusa se li ho feriti senza accorgermi, ma è una ferita fatta senza volerlo. E a me questo fa tanto dolore, perché io li ricevo, e in Cile ne ho ricevuti due, che si sanno; e ce ne sono stati altri più di nascosto. In Perù, no. Ma in ogni viaggio c’è sempre qualche possibilità. Sono stati pubblicati quelli di Philadelphia, quegli altri… due, tre sono stati resi pubblici; altri casi non lo sono stati… So quanto soffrono. Sentire che il Papa dice loro in faccia “portatemi una lettera con la prova”, è uno schiaffo. E adesso io mi accorgo che la mia espressione non è stata felice, perché non ho pensato a questo. E capisco – come dice l’apostolo Pietro in una delle sue Lettere – l’incendio che si è sollevato. Questo è quello che io posso dirti con sincerità. Barros resterà lì se io non trovo il modo di condannarlo. Io non posso condannarlo se non ho – non dico prove – se non ho evidenze. E ci sono tanti modi per arrivare a un’evidenza. Chiaro? Benissimo. Mi dicono che dopo la turbolenza di Barros e del Sodalizio, ne abbiamo una più meteorologica. Io rimarrei qui. Se voi non avete difficoltà, faremo senza guardarci, da seduti, per non perdere tempo: perché poi viene la cena e ci tagliano la conferenza stampa. Dicono che gli angeli non hanno schiena: vediamo… Io rimarrò in piedi se non si muove; se si muove, continuerò seduto.
Matilde Burgos di Cnn/Cile:
Muchísimas gracias Santidad por este viaje a nuestro país, vi que usted quiere que quede muy claro el caso de Barros, por eso, antes de mi pregunta, quiero especificar algo: ¿Por qué para usted el testimonio de la víctimas no es una evidencia? ¿Por qué no les cree? Y la segunda es: ¿A qué atribuye usted que se considere su visita a Chile como un fracaso de fieles y un fracaso de que la Iglesia queda más dividida?
Papa Francesco:
El testimonio de las víctimas siempre es una evidencia. Siempre. En el caso de Barros no las hay: no hay evidencias. Empezó quizás con esa mala decisión de la renuncia y se lo empezó a acusar. Pero de abuso, no hay evidencias.
Matilde Burgos:
De encubrir abusos…
Papa Francesco:
Sí, sí, de encubrir, es un abuso también. O sea, encubrir abuso es un abuso. No hay evidencia. Por eso, lo mejor es que el que cree que es así, a portar las evidencias rápido. Si creen que es así honestamente. Yo en este momento no creo que sea así, porque no la hay, pero tengo el corazón abierto a recibirlas. Y lo otro, de Chile, es un cuento chino. Yo de Chile me vine contento. Yo no esperaba tanta gente en la calle, y eso -no pagamos la entrada, ¿eh? Esa gente no fue pagada ni llevada en colectivo, la espontaneidad de la expresión chilena fue muy fuerte; incluso en Iquique que yo pensé que iba a ser una cosa muy poquita porque Iquique es desierto. Ustedes vieron lo que fue de gente, ¿no? En el sur lo mismo. Y las calles de Santiago hablaban por sí mismas. En eso yo creo que la responsabilidad del informador es ir a los hechos concretos. ¿Y que el pueblo dividido? No sé de dónde sale. Eso es la primera vez que lo oigo. Quizás este caso de Barros es el que lo ha creado, pero ubicándolo en su realidad puede ser por eso. Pero a mí la impresión que me dio es que lo de Chile fue muy grade y gratificante, y muy fuerte. Yo después quisiera volver sobre… –al menos un momento–, de los que más me conmovió de Chile, pero eso antes de pasar a otros temas si tenemos tiempo.
Andrea Tornielli, La Stampa:
Sì, Santità, io volevo parlare di quello che Lei ha detto nel giorno passato in Amazzonia, perché c’era in quel discorso anche un elemento, se si vuole, nuovo, cioè, non soltanto la minaccia rappresentata dai grandi gruppi economici ma anche la minaccia – anzi, Lei ha parlato di “perversione” – di alcune politiche ambientaliste che finiscono per soffocare la vita delle persone. Dunque c’è un ambientalismo che è contro l’uomo?
Papa Francesco:
Sì. In quella zona…, io non potrei in questo momento descrivere bene, ma quel proteggere la foresta per salvare alcune tribù che poi sono rimaste fuori e la foresta è finita per lo sfruttamento. Ma il dato più concreto di questo caso è nelle statistiche della zona. Lì credo che tu troverai sicuramente i dati precisi. E’ un fenomeno che per custodire l’ambiente finisce per isolare: sono rimasti isolati da un progresso reale; un fenomeno che si è verificato lì, in quella zona, e nelle informazioni che hanno inviato per preparare il viaggio io l’ho studiato. Grazie.
Aura Vistas Miguel, Radio Renascença:
Santità, la mia domanda riguarda la celebrazione del matrimonio sull’aereo. D’ora in poi, cosa direbbe ai parroci, ai vescovi, quando i fidanzati vengono a chiedere di sposarsi non so dove, spiaggia, parchi, navi, aerei… Cosa direbbe?
Papa Francesco:
Ma Lei si immagina: crociere con matrimonio… Questo sarebbe… Uno di voi mi ha detto che io sono matto per fare queste cose. La cosa è stata semplice. Il signore, l’uomo, era sul volo precedente, lei non c’era. E ho parlato con lui… Dopo, mi sono accorto che mi aveva “sondato”: ha parlato della vita, di cosa pensavo io della vita, della vita di famiglia, parlava…, abbiamo fatto una bella chiacchierata. Poi, il giorno dopo, c’erano tutt’e due, e quando abbiamo fatto le fotografie, loro mi hanno detto questo: “Noi stavamo per sposarci in chiesa, siamo stati sposati con rito civile, ma il giorno prima – si vede che erano di una città piccola – la chiesa è crollata nel terremoto e non c’è stato il matrimonio”. Questo 10 anni fa, 8 forse: nel 2010 è stato il terremoto, 8 anni fa. “Sì, lo facciamo domani, dopodomani… Così è la vita, poi viene una figlia, poi un’altra figlia… Ma sempre noi abbiamo questo nel cuore: noi non siamo sposati”. Io li ho interrogati un po’, e le risposte erano chiare: “Per tutta la vita…” - “E come sapete queste cose? Avete buona memoria del catechismo…” - “No, noi abbiamo fatto i corsi prematrimoniali per quel tempo”. Erano preparati. Ai parroci dica che questi erano preparati, e io ho giudicato che erano preparati. Me lo hanno chiesto: i sacramenti sono per le persone umane. Tutte le condizioni erano chiare. E perché non fare oggi quello che si può fare oggi, e non rimandarlo a domani, un domani che forse sarebbe stato 10, 8 anni in più? Questa è la risposta. Ho giudicato che erano preparati, che sapevano quello che facevano. Ognuno di loro si è preparato davanti al Signore, col sacramento della Penitenza, e poi li ho sposati. E quando sono arrivati qui era tutto finito… Mi hanno detto che avevano detto a qualcuno di voi: “Andiamo dal Papa a chiedere che ci sposi”, non so se è vero o no che avevano quell’intenzione. Così è stata la cosa. Ma si può dire ai parroci che il Papa li ha interrogati bene; e poi quando mi hanno detto che avevano fatto il corso… Ma erano coscienti, erano coscienti che erano in situazione irregolare. Grazie.
Greg Burke:
Santità, abbiamo fatto quasi un’ora però non so se possiamo fare ancora una o due domande…
Papa Francesco:
Sì, sul viaggio.
Greg Burke:
Sì, sul viaggio. Nicole Winfield, Associated Press.
Papa Francesco:
Sì, perché sul Perù [si è detto] quasi niente…
Nicole Winfield:
Ah, no: Cile ancora…
Papa Francesco:
Va bene…
Nicole Winfield, Associated Press:
Santo Padre, ieri il cardinale O’Malley ha fatto una dichiarazione su questi commenti sul vescovo Barros, e ha detto che “parole come queste erano fonte di dolore per i sopravvissuti [le vittime] dell’abuso con l’effetto di farli sentire abbandonati e screditati”. Lei ci ha detto che si sentiva male… Immagino, e mi domando, se sono state proprio le parole del cardinale O’Malley che Le hanno fatto capire questo dolore? E poi, una domanda collegata con questo. La commissione per la protezione dei minori, guidata dal cardinale O’Malley: c’era la scadenza il mese scorso dei primi membri. Ci sono persone che vedono questa scadenza e si domandano se questo è un segno di una non priorità della protezione dei minori…
Papa Francesco:
Ho capito, ho capito. Il cardinale O’Malley… Io ho visto la dichiarazione del cardinale O’Malley, ha detto anche: “Il Papa ha sempre difeso [le vittime]…, il Papa ha tolleranza zero….”. Con questa espressione non felice, è [accaduto] quello che Lei ha detto, e questo mi ha fatto pensare [all’effetto della] parola “prova”… Calunnia: sì, uno che dice con pertinacia, senza avere l’evidenza, che Lei ha fatto questo, che questo ha fatto questo, questo è calunnia. Se io dico: “Lei ha rubato” - “No, io non ho rubato…” - “Lei ha rubato, ha rubato…”, sto calunniando, perché non ho le evidenze.
[qualcuno interviene]
Ma io non ho sentito alcuna vittima di Barros…
[qualcuno interviene]
Non sono venuti, non hanno dato le evidenze per il giudizio. E’ un po’ vago questo, è una cosa che non si può prendere. Lei, con buon volontà, mi dice ci sono delle vittime, ma io non le ho viste perché non si sono presentate. E’ vero che Barros era del gruppo dei giovani lì, Barros è entrato nel seminario non so quando, ma porta oggi 24 o 23 anni da vescovo, avrà avuto 15 anni da prete... Da tanti anni, è entrato giovanissimo. Lui dice di non aver visto. Era del gruppo, ma poi è andato per un’altra strada. In questo dobbiamo essere chiari: uno che accusa senza le evidenze, con pertinacia, questo è calunnia. Ma se viene una persona e mi dà l’evidenza, io sono il primo ad ascoltarla. Dobbiamo essere giusti in questo, molto giusti. Io ho pensato a quello che ha detto il cardinale O’Malley, lo ringrazio della dichiarazione perché stata molto giusta, ha detto tutto quello che io ho fatto e faccio e che fa la Chiesa, e poi ha detto il dolore delle vittime, non di questo caso, in genere. Perché, come ho detto all’inizio, ci sono tante vittime che non sono capaci, per vergogna, per quello che sia, di portare un documento, una testimonianza… E’ questo. E la seconda domanda che Lei mi faceva era…?
Greg Burke:
La commissione…
Papa Francesco:
La commissione. La commissione, sì, era nominata per tre anni, credo. E’ scaduta; si studiò la nuova commissione e loro, la commissione stessa, ha deciso di rinnovare il mandato per una parte e per un’altra nominare nuovi [membri]. Il martedì prima della partenza è venuta – della partenza per questo viaggio – è venuta la lista della commissione definitiva e adesso segue l’iter normale della Curia. C’erano alcune osservazioni su qualcuno che si devono chiarire, perché per i nuovi, le persone nuove, si studia il curriculum, come ha fatto… C’erano due osservazioni che dovevano chiarirsi… Però su questo il cardinale O’Malley ha lavorato bene, ha lavorato come si deve la commissione… No, no per favore, non pensare che… I tempi sono i tempi normali di una nomina del genere…
Greg Burke:
Santità facciamo un’ultima domanda. Se è sul viaggio…
Catherine Marciano, AFP:
Santità, uno degli scopi della Chiesa è lottare contro la povertà. Il Cile in vent’anni ha abbassato il livello di povertà dal 40% all’11%. Secondo Lei è il risultato di una politica liberale, c’è del liberalismo secondo Lei? E un’altra piccola domanda a proposito del cardinale Maradiaga… Cosa pensa Lei della notizia di soldi che lo riguarda?
Sul cardinale Maradiaga, non è del viaggio, ma rispondo. Lui ha fatto una dichiarazione filmata, c’è un video, e io dico quello che lui ha detto.
Riguardo al liberalismo, io direi che dobbiamo studiare bene i casi di politica liberale. Ci sono altri Paesi in America Latina con politiche liberali che hanno portato il Paese a una povertà più grande. Lì davvero non saprei cosa rispondere perché non sono tecnico in questo, ma, in generale, una politica liberale che non coinvolge tutto il popolo è selettiva e porta giù. Ma è una regola generale, il caso del Cile davvero non lo conosco così da poter rispondere. Ma vediamo che in altri Paesi in America Latina la cosa va sempre più giù.
Sul viaggio io vorrei dire qualcosa che mi ha commosso tanto. Il carcere delle donne: io avevo il cuore lì. Sempre io sono molto sensibile al carcere e ai carcerati e sempre, quando vado in un carcere, mi domando “perché loro e non io…”. Vedere queste donne, vedere la creatività di queste donne, la capacità di cambiare e voler cambiare vita, di reinserirsi nella società con la forza del Vangelo… Uno di voi mi ha detto: “Ho visto la gioia del Vangelo”. Mi ha commosso questo, davvero ero molto commosso in quell’incontro. E’ una delle cose più belle del viaggio. Poi, a Puerto Maldonado, quell’incontro con gli aborigeni, lasciamo stare perché è ovvio che è commovente, è dare un segno al mondo… Quel giorno c’è stata la prima riunione della Commissione pre-sinodale del Sinodo per l’Amazzonia che sarà nel 2019. Ma sono stato commosso dell’Hogar “Principito”: vedere questi bambini, la maggioranza abbandonati, quei ragazzi e quelle ragazze che sono riusciti, con l’educazione, ad andare avanti... Ci sono professionisti, lì… Questo mi ha commosso tanto. Le opere che portano una persona “in su”, così come le cose di cui abbiamo parlato prima portano la persona “in giù”. Questo mi ha commosso tanto del viaggio. E poi la gente, il calore della gente. Qui oggi era da non credere, cosa era Lima! Da non credere! Il calore della gente… Io dico: questo popolo ha fede e questa fede la contagia a me, e ringrazio Dio per questo. E ringrazio voi per il lavoro che vi aspetta per fare gli articoli e le notizie che dovete fare. Grazie della pazienza e grazie per aver fatto le domande precise. Grazie tante.
Greg Burke:
Grazie, Santità, per la sua pazienza. Buon riposo, buona cena. Grazie.
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