Viaggio apostolico di papa Francesco in Canada

Dal 24 al 29 luglio 2022 papa Francesco si è recato in Canada per un viaggio apostolico. In questo articolo abbiamo raccolto le omelie e i discorsi che ha pronunciato durante il viaggio.

Lunedì 25 luglio

Incontro con le popolazioni indigene First NationsMétis e Inuit a Maskwacis
Incontro con le popolazioni indigene e con i membri della Comunità Parrocchiale

Martedì 26 luglio

Santa Messa
Partecipazione al "Lac Ste. Anne Pilgrimage" e Liturgia della Parola"

Mercoledì 27 luglio

Incontro con le Autorità Civili, con i rappresentanti delle Popolazioni Indigene e con il Corpo Diplomatico presso la "Citadelle de Québec"

Giovedì 28 luglio

Santa Messa
Vespri con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali

Venerdì 29 luglio

Incontro con una Delegazione di Indigeni presenti in Québec
Incontro con i giovani e con gli anziani


Lunedì 25 luglio

Incontro con le popolazioni indigene First Nations, Métis e Inuit a Maskwacis

Signora Governatore Generale,
Signor Primo Ministro,
care popolazioni indigene di Maskwacis e di questa terra canadese,
cari fratelli e care sorelle!

Attendevo di giungere tra voi. È da qui, da questo luogo tristemente evocativo, che vorrei iniziare quanto ho nell’animo: un pellegrinaggio penitenziale. Giungo nelle vostre terre natie per dirvi di persona che sono addolorato, per implorare da Dio perdono, guarigione e riconciliazione, per manifestarvi la mia vicinanza, per pregare con voi e per voi.

Ricordo gli incontri avuti a Roma quattro mesi fa. Allora mi erano state consegnate in pegno due paia di mocassini, segno della sofferenza patita dai bambini indigeni, in particolare da quanti purtroppo non fecero più ritorno a casa dalle scuole residenziali. Mi era stato chiesto di restituire i mocassini una volta arrivato in Canada; li ho portati e lo farò al termine di queste parole, per le quali vorrei prendere spunto proprio da questo simbolo, che ha ravvivato in me nei mesi passati il dolore, l’indignazione e la vergogna. Il ricordo di quei bambini infonde afflizione ed esorta ad agire affinché ogni bambino sia trattato con amore, onore e rispetto. Ma quei mocassini ci parlano anche di un cammino, di un percorso che desideriamo fare insieme. Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme, perché le sofferenze del passato lascino il posto a un futuro di giustizia, guarigione e riconciliazione.

Ecco perché la prima tappa del mio pellegrinaggio in mezzo a voi si svolge in questa regione che vede, da tempo immemorabile, la presenza delle popolazioni indigene. È un territorio che ci parla, che permette di fare memoria.

Fare memoria: fratelli e sorelle, avete vissuto in questa terra per migliaia di anni con stili di vita che hanno rispettato la terra stessa, ereditata dalle generazioni passate e custodita per quelle future. L’avete trattata come un dono del Creatore da condividere con gli altri e da amare in armonia con tutto quanto esiste, in una vivida interconnessione tra tutti gli esseri viventi. Avete così imparato a nutrire un senso di famiglia e di comunità, e sviluppato legami saldi tra le generazioni, onorando gli anziani e prendendovi cura dei piccoli. Quante buone usanze e insegnamenti, incentrati sull’attenzione agli altri e sull’amore per la verità, sul coraggio e sul rispetto, sull’umiltà e sull’onestà, sulla sapienza di vita!

Ma, se questi sono stati i primi passi mossi in questi territori, la memoria ci porta tristemente a quelli successivi. Il luogo in cui ci troviamo fa risuonare in me un grido di dolore, un urlo soffocato che mi ha accompagnato in questi mesi. Ripenso al dramma subito da tanti di voi, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità; a ciò che avete condiviso con me sulle sofferenze patite nelle scuole residenziali. Sono traumi che, in un certo modo, rivivono ogni volta che vengono rievocati e mi rendo conto che anche il nostro incontro odierno può risvegliare ricordi e ferite, e che molti di voi potrebbero trovarsi in difficoltà mentre parlo. Ma è giusto fare memoria, perché la dimenticanza porta all’indifferenza e, come è stato detto, «l’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza… l’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte» (E. Wiesel). Fare memoria delle esperienze devastanti avvenute nelle scuole residenziali ci colpisce, ci indigna, ci addolora, ma è necessario.

È necessario ricordare come le politiche di assimilazione e di affrancamento, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali, siano state devastanti per la gente di queste terre. Quando i coloni europei vi arrivarono per la prima volta, c’era la grande opportunità di sviluppare un fecondo incontro tra culture, tradizioni e spiritualità. Ma in gran parte ciò non è avvenuto. E mi tornano alla mente i vostri racconti: di come le politiche di assimilazione hanno finito per emarginare sistematicamente i popoli indigeni; di come, anche attraverso il sistema delle scuole residenziali, le vostre lingue, le vostre culture sono state denigrate e soppresse; e di come i bambini hanno subito abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali; di come sono stati portati via dalle loro case quando erano piccini e di come ciò abbia segnato in modo indelebile il rapporto tra i genitori e i figli, i nonni e i nipoti.

Io vi ringrazio per avermi fatto entrare nel cuore tutto questo, per aver tirato fuori i pesanti fardelli che portate dentro, per aver condiviso con me questa memoria sanguinante. Oggi sono qui, in questa terra che, insieme a una memoria antica, custodisce le cicatrici di ferite ancora aperte. Sono qui perché il primo passo di questo pellegrinaggio penitenziale in mezzo a voi è quello di rinnovarvi la richiesta di perdono e di dirvi, di tutto cuore, che sono profondamente addolorato: chiedo perdono per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni. Sono addolorato. Chiedo perdono, in particolare, per i modi in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche attraverso l’indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell’epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali.

Sebbene la carità cristiana fosse presente e vi fossero non pochi casi esemplari di dedizione per i bambini, le conseguenze complessive delle politiche legate alle scuole residenziali sono state catastrofiche. Quello che la fede cristiana ci dice è che si è trattato di un errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo. Addolora sapere che quel terreno compatto di valori, lingua e cultura, che ha conferito alle vostre popolazioni un genuino senso di identità, addolora sapere che è stato eroso, e che voi continuiate a pagarne gli effetti. Di fronte a questo male che indigna, la Chiesa si inginocchia dinanzi a Dio e implora il perdono per i peccati dei suoi figli (cfr S. Giovanni Paolo II, Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). Vorrei ribadirlo con vergogna e chiarezza: chiedo umilmente perdono per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene.

Cari fratelli e sorelle, molti di voi e dei vostri rappresentanti hanno affermato che le scuse non sono un punto di arrivo. Concordo perfettamente: costituiscono solo il primo passo, il punto di partenza. Sono anch’io consapevole che, «guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato» e che, «guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio» (Lettera al Popolo di Dio, 20 agosto 2018). Una parte importante di questo processo è condurre una seria ricerca della verità sul passato e aiutare i sopravvissuti delle scuole residenziali a intraprendere percorsi di guarigione dai traumi subiti.

Prego e spero che i cristiani e la società di questa terra crescano nella capacità di accogliere e rispettare l’identità e l’esperienza delle popolazioni indigene. Auspico che si trovino vie concrete per conoscerle e apprezzarle, imparando a camminare tutti insieme. Da parte mia, continuerò a incoraggiare l’impegno di tutti i Cattolici nei riguardi dei popoli indigeni. L’ho fatto in altre occasioni e in vari luoghi, mediante incontri, appelli e anche attraverso un’Esortazione apostolica. So che tutto ciò richiede tempo e pazienza: si tratta di processi che devono entrare nei cuori, e la mia presenza qui e l’impegno dei Vescovi canadesi sono testimonianza della volontà di procedere in questo cammino.

Cari amici, questo pellegrinaggio si estende per alcuni giorni e toccherà luoghi tra loro distanti, tuttavia non mi permetterà di dare seguito a molti inviti e visitare centri come Kamloops, Winnipeg, vari siti nel Saskatchewan, nello Yukon e nei Territori del Nordovest. Anche se ciò non è possibile, sappiate che siete tutti nei miei pensieri e nella mia preghiera. Sappiate che conosco la sofferenza, i traumi e le sfide dei popoli indigeni in tutte le regioni di questo Paese. Le mie parole pronunciate lungo questo cammino penitenziale sono rivolte a tutte le comunità e le persone native, che abbraccio di cuore.

In questa prima tappa ho voluto fare spazio alla memoria. Oggi sono qui a ricordare il passato, a piangere con voi, a guardare in silenzio la terra, a pregare presso le tombe. Lasciamo che il silenzio ci aiuti tutti a interiorizzare il dolore. Silenzio. E preghiera: di fronte al male preghiamo il Signore del bene; di fronte alla morte preghiamo il Dio della vita. Il Signore Gesù Cristo ha fatto di un sepolcro, capolinea della speranza di fronte al quale erano svaniti tutti i sogni ed erano rimasti solo pianto, dolore e rassegnazione, ha fatto di un sepolcro il luogo della rinascita, della risurrezione, da cui è partita una storia di vita nuova e di riconciliazione universale. Non bastano i nostri sforzi per guarire e riconciliare, occorre la sua Grazia: occorre la sapienza mite e forte dello Spirito, la tenerezza del Consolatore. Sia Lui a colmare le attese dei cuori. Sia Lui a prenderci per mano. Sia Lui a farci camminare insieme.

Incontro con le popolazioni indigene e con i membri della Comunità Parrocchiale

Cari fratelli e sorelle, buonasera!

Sono felice di essere tra voi e di rivedere i volti di diversi rappresentanti indigeni che pochi mesi fa sono venuti a trovarmi a Roma. Quella visita ha significato molto per me: ora sono io a casa vostra, come amico e pellegrino, sono nella vostra terra, nel tempio dove vi trovate per lodare Dio come fratelli e sorelle. A Roma, dopo avervi ascoltato, vi dissi che «un efficace processo di risanamento richiede azioni concrete» (Discorso alle delegazioni dei popoli indigeni del Canada, 1° aprile 2022). Sono lieto di vedere che in questa parrocchia, nella quale confluiscono persone di diverse comunità delle First Nations, dei Métis e degli Inuit, insieme a gente non indigena dei quartieri locali e a diversi fratelli e sorelle immigrati, tale processo è già iniziato. Questa è una casa per tutti, aperta e inclusiva, così come dev’essere la Chiesa, famiglia dei figli di Dio dove l’ospitalità e l’accoglienza, valori tipici della cultura indigena, sono essenziali: dove ognuno deve sentirsi benvenuto, indipendentemente dalle vicende trascorse e dalle circostanze di vita individuali. E vorrei anche dirvi grazie per la vicinanza concreta a tanti poveri – questo mi tocca molto – che sono numerosi anche in questo ricco Paese, attraverso la carità: è ciò che desidera Gesù, il quale ci ha detto e ci ripete sempre nel Vangelo: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). È Gesù lì presente.

E al tempo stesso, non dobbiamo dimenticare che anche nella Chiesa al grano buono si mescola la zizzania. Anche nella Chiesa. E proprio a causa di questa zizzania ho voluto intraprendere questo pellegrinaggio penitenziale, e cominciarlo stamani facendo memoria del male subito dalle popolazioni indigene da parte di tanti cristiani e chiedendone perdono con dolore. Mi ferisce pensare che dei cattolici abbiano contribuito alle politiche di assimilazione e affrancamento che veicolavano un senso di inferiorità, derubando comunità e persone delle loro identità culturali e spirituali, recidendo le loro radici e alimentando atteggiamenti pregiudizievoli e discriminatori, e che ciò sia stato fatto anche in nome di un’educazione che si supponeva cristiana. L’educazione deve partire sempre dal rispetto e dalla promozione dei talenti che già ci sono nelle persone. Non è e non può mai essere qualcosa di preconfezionato da imporre, perché educare è l’avventura di esplorare e scoprire insieme il mistero della vita. Grazie a Dio, in parrocchie come questa, attraverso l’incontro, si costruiscono giorno dopo giorno le basi per la guarigione e la riconciliazione. Guarigione, riconciliazione. Vorrei dire una cosa che non è scritta qui. Voglio ringraziare in modo speciale per il lavoro che hanno fatto i Vescovi per far sì che io potessi venire qui, e che voi siate potuti venire là [a Roma]. Una Conferenza episcopale unita fa gesti grandi, dà molto frutti. Tante grazie alla Conferenza episcopale!

Riconciliazione: è su questa parola che stasera vorrei condividere alcune riflessioni. Che cosa ci suggerisce Gesù quando parla di riconciliazione? O quando ci ispira la riconciliazione? Che significato ha per noi oggi la riconciliazione? Cari amici, la riconciliazione operata da Cristo non è stata un accordo di pace esterno, una sorta di compromesso per accontentare le parti. Nemmeno è stata una pace calata dal cielo, arrivata per imposizione dall’alto o per assorbimento dell’altro. L’Apostolo Paolo spiega che Gesù riconcilia mettendo insieme, facendo di due realtà distanti un’unica realtà, una cosa sola, un solo popolo. E come fa? Per mezzo della croce (cfr Ef 2,14). È Gesù che ci riconcilia fra di noi sulla croce, su quell’albero di vita, come amavano chiamarlo gli antichi cristiani. La croce, albero della vita.

Voi, cari fratelli e sorelle indigeni, avete molto da insegnare sul significato vitale dell’albero che, congiunto alla terra dalle radici, dà ossigeno attraverso le foglie e ci nutre con i suoi frutti. Ed è bello vedere la simbologia dell’albero rappresentata nella fisionomia di questa chiesa, dove un tronco congiunge al terreno un altare sul quale Gesù ci riconcilia nell’Eucaristia, «atto di amore cosmico» che «unisce il cielo e la terra, abbraccia […] tutto il creato» (Lett. enc. Laudato si’, 236). Questo simbolismo liturgico mi ricorda un passaggio stupendo pronunciato da San Giovanni Paolo II in questo Paese: «Cristo anima il centro stesso di ogni cultura, per cui non solo il cristianesimo interessa tutte le popolazioni indiane, ma Cristo, nei membri del suo corpo, è egli stesso indiano» (Liturgia della Parola con gli Indiani del Canada, 15 settembre 1984). Ed è Lui che sulla croce riconcilia, rimette insieme ciò che sembrava impensabile e imperdonabile, abbraccia tutti e tutto. Tutti e tutto: le popolazioni indigene attribuiscono un forte significato cosmico ai punti cardinali, intesi non solo come punti di riferimento geografico ma anche come dimensioni che abbracciano la realtà intera e indicano la via per risanarla, rappresentata dalla cosiddetta “ruota della medicina”. Questo tempio fa propria tale simbologia dei punti cardinali e vi attribuisce un significato cristologico. Gesù, attraverso le estremità della sua croce, abbraccia i punti cardinali e riunisce i popoli più distanti, Gesù risana e pacifica tutto (cfr Ef 2,14). Lì compie il disegno di Dio: “riconciliare tutte le cose” (cfr Col 1,20).

Fratelli, sorelle, che cosa vuol dire questo per chi porta dentro ferite tanto dolorose? Immagino la fatica, in chi ha sofferto tremendamente a causa di uomini e donne che dovevano dare testimonianza di vita cristiana, a vedere qualsiasi prospettiva di riconciliazione. Nulla può cancellare la dignità violata, il male subìto, la fiducia tradita. E nemmeno la vergogna di noi credenti deve mai cancellarsi. Ma occorre ripartire e Gesù non ci propone parole e buoni propositi, ma ci propone la croce, quell’amore scandaloso che si lascia infilzare i piedi e i polsi dai chiodi e trafiggere la testa di spine. Ecco la direzione da seguire: guardare insieme Cristo, l’amore tradito e crocifisso per noi; guardare Gesù, crocifisso in tanti alunni delle scuole residenziali. Se vogliamo riconciliarci tra di noi e dentro di noi, riconciliarci con il passato, con i torti subiti e con la memoria ferita, con vicende traumatiche che nessuna consolazione umana può risanare, se vogliamo riconciliarci veramente lo sguardo va alzato a Gesù crocifisso, la pace va attinta al suo altare. Perché è proprio sull’albero della croce che il dolore si trasforma in amore, la morte in vita, la delusione in speranza, l’abbandono in comunione, la distanza in unità. La riconciliazione non è tanto un’opera nostra, è un regalo, è un dono che sgorga dal Crocifisso, è pace che viene dal Cuore di Gesù, è una grazia che va chiesta. La riconciliazione è una grazia che va chiesta.

C’è un altro aspetto della riconciliazione di cui vorrei parlarvi. L’Apostolo Paolo spiega che Gesù, per mezzo della croce, ci ha riconciliati in un solo corpo (cfr Ef 2,14). Di quale corpo parla? Parla della Chiesa: la Chiesa è questo corpo vivente di riconciliazione. Ma, se pensiamo al dolore incancellabile provato in questi luoghi da tanti all’interno di istituzioni ecclesiali, viene solo da provare rabbia, viene solo da provare vergogna. Ciò è avvenuto quando i credenti si sono lasciati mondanizzare e, anziché promuovere la riconciliazione, hanno imposto il loro modello culturale. Questo atteggiamento, fratelli e sorelle, è duro a morire, anche dal punto di vista religioso. Infatti, sembrerebbe più conveniente inculcare Dio nelle persone, anziché permettere alle persone di avvicinarsi a Dio – una contraddizione. Ma non funziona mai, perché il Signore non agisce così: egli non costringe, non soffoca e non opprime; sempre, invece, ama, libera e lascia liberi. Egli non sostiene con il suo Spirito chi assoggetta gli altri, chi confonde il Vangelo della riconciliazione con il proselitismo. Perché non si può annunciare Dio in un modo contrario a Dio. Eppure, quante volte è successo nella storia! Mentre Dio semplicemente e umilmente si propone, noi abbiamo sempre la tentazione di imporlo e di imporci in suo nome. È la tentazione mondana di farlo scendere dalla croce per manifestarlo con la potenza e l’apparenza. Ma Gesù riconcilia sulla croce, non scendendo dalla croce. Giù, attorno alla croce, c’erano quelli che pensavano a sé stessi e tentavano Cristo ripetendogli di salvare sé stesso (cfr Lc 23,35.36), senza pensare agli altri. Fratelli e sorelle, in nome di Gesù, non capiti più nella Chiesa di fare così. Gesù sia annunciato come Egli desidera, nella libertà e nella carità, e ogni persona crocifissa che incontriamo non sia per noi un caso da risolvere, ma un fratello o una sorella da amare, carne di Cristo da amare. La Chiesa, Corpo di Cristo, sia corpo vivente di riconciliazione!

La stessa parola riconciliazione è praticamente sinonimo di Chiesa. Il termine, infatti, significa “fare di nuovo un concilio”: riconciliazione, fare un concilio nuovo. La Chiesa è la casa dove conciliarsi nuovamente, dove riunirsi per ripartire e crescere insieme. È il luogo dove si smette di pensarsi come individui per riconoscersi fratelli guardandosi negli occhi, accogliendo le storie e la cultura dell’altro, lasciando che la mistica dell’insieme, tanto gradita allo Spirito Santo, favorisca la guarigione della memoria ferita. Questa è la via: non decidere per gli altri, non incasellare tutti all’interno di schemi prestabiliti, ma mettersi davanti al Crocifisso e davanti al fratello per imparare a camminare insieme. Questa è la Chiesa e questo sia: il luogo dove la realtà è sempre superiore all’idea. Questa è la Chiesa e questo sia: non un insieme di idee e precetti da inculcare alla gente; la Chiesa è una casa accogliente per tutti! Questo è la Chiesa e questo sia: un tempio con le porte sempre aperte, come abbiamo sentito da questi due nostri fratelli, che questa parrocchia è così: un tempio con le porte sempre aperte, dove tutti noi, templi vivi dello Spirito, ci incontriamo, ci serviamo e ci riconciliamo. Cari fratelli e sorelle, i gesti e le visite possono essere importanti, ma la maggior parte delle parole e delle attività di riconciliazione avvengono a livello locale, in comunità come questa, dove le persone e le famiglie camminano fianco a fianco, giorno dopo giorno. Pregare insieme, aiutare insieme, condividere storie di vita, gioie e lotte comuni apre la porta all’opera riconciliatrice di Dio.

C’è un’immagine conclusiva che ci può aiutare. In questo tempio, sopra l’altare e il tabernacolo, vediamo i quattro pali di una tipica tenda indigena, che ho saputo chiamarsi tepee. La tenda ha un grande significato biblico. Quando Israele camminava nel deserto, Dio dimorava in una tenda che veniva allestita ogni volta che il popolo si fermava: era la Tenda del Convegno. Ci ricorda che Dio cammina con noi e ama incontrarci insieme, in convegno, in concilio. E quando si fa uomo, il Vangelo dice, letteralmente, che “pose la sua tenda in mezzo a noi” (cfr Gv 1,14). Dio è Dio della vicinanza, in Gesù ci insegna la lingua della compassione e della tenerezza. Questo si deve cogliere ogni volta che veniamo in chiesa, dove Egli è presente nel tabernacolo, parola che significa proprio tenda. Dio dunque pianta la sua tenda tra di noi, ci accompagna nei nostri deserti: non abita in palazzi celesti, ma nella nostra Chiesa, che desidera sia casa di riconciliazione.

Gesù, crocifisso risorto, che abiti in questo popolo che è tuo, Signore, che desideri risplendere attraverso le nostre comunità e le nostre culture, Gesù, prendici per mano e, anche nei deserti della storia, guida i nostri passi sulla via della riconciliazione. Amen.


Martedì 26 luglio

Santa Messa

Oggi è la festa dei nonni di Gesù; il Signore ha voluto che ci incontrassimo così numerosi proprio in questa occasione tanto cara a voi, come a me. Nella casa di Gioacchino e Anna il piccolo Gesù ha conosciuto i suoi anziani e ha sperimentato la vicinanza, la tenerezza e la saggezza dei nonni. Pensiamo anche noi ai nostri nonni e riflettiamo su due aspetti importanti.

Il primo: siamo figli di una storia da custodire. Non siamo individui isolati, non siamo isole, nessuno viene al mondo slegato dagli altri. Le nostre radici, l’amore che ci ha atteso e che abbiamo ricevuto venendo al mondo, gli ambienti familiari in cui siamo cresciuti, fanno parte di una storia unica, che ci ha preceduti e generati. Non l’abbiamo scelta noi, ma ricevuta in dono; ed è un dono che siamo chiamati a custodire. Perché, come ci ha ricordato il Libro del Siracide, siamo «i posteri» di chi ci ha preceduto, siamo la loro «preziosa eredità» (Sir 44,11). Un’eredità che, al di là delle prodezze o dell’autorità di alcuni, dell’intelligenza o della creatività di altri nel canto o nella poesia, ha il suo centro nella giustizia, nell’essere fedeli a Dio e alla sua volontà. E questo ci hanno trasmesso. Per accogliere veramente chi siamo e quanto siamo preziosi, abbiamo bisogno di assumere in noi coloro da cui discendiamo, coloro che non hanno pensato solo a sé stessi, ma ci hanno trasmesso il tesoro della vita. Siamo qui grazie ai genitori, ma anche grazie ai nonni che ci hanno fatto sperimentare di essere benvenuti nel mondo. Sono stati spesso loro ad amarci senza riserve e senza attendere qualcosa da noi: loro ci hanno presi per mano quando avevamo paura, rassicurati nel buio della notte, incoraggiati quando alla luce del sole dovevamo affrontare le scelte della vita. Grazie ai nonni abbiamo ricevuto una carezza da parte della storia che ci ha preceduto: abbiamo imparato che il bene, la tenerezza e la saggezza sono radici salde dell’umanità. Nella casa dei nonni in tanti abbiamo respirato il profumo del Vangelo, la forza di una fede che ha il sapore di casa. Grazie a loro abbiamo scoperto una fede familiare, una fede domestica; sì, è così, perché la fede si comunica essenzialmente così, si comunica “in dialetto”, si comunica attraverso l’affetto e l’incoraggiamento, la cura e la vicinanza.

Questa è la nostra storia da custodire, la storia di cui siamo eredi: siamo figli perché siamo nipoti. I nonni hanno impresso in noi il timbro originale del loro modo di essere, dandoci dignità, fiducia in noi stessi e negli altri. Essi ci hanno trasmesso qualcosa che dentro di noi non potrà mai cancellarsi e, allo stesso tempo, ci hanno permesso di essere persone uniche, originali e libere. Così, proprio dai nonni abbiamo appreso che l’amore non è mai una costrizione, non priva mai l’altro della sua libertà interiore. Gioacchino e Anna hanno amato così Maria e hanno amato Gesù; e Maria ha amato così Gesù, con un amore che non lo ha mai soffocato né trattenuto, ma lo ha accompagnato ad abbracciare la missione per cui era venuto nel mondo. Cerchiamo di imparare questo come singoli e come Chiesa: mai opprimere la coscienza dell’altro, mai incatenare la libertà di chi ci sta di fronte e, soprattutto, mai mancare di amore e di rispetto per le persone che ci hanno preceduto e ci sono affidate, tesori preziosi che custodiscono una storia più grande di loro.

Custodire la storia che ci ha generato – ci dice ancora il Libro del Siracide – significa non offuscare “la gloria” degli antenati: non smarrirne la memoria, non dimenticarci della storia che ha partorito la nostra vita, ricordarci sempre di quelle mani che ci hanno accarezzato e tenuto in braccio, perché è a questa fonte che troviamo consolazione nei momenti di sconforto, luce nel discernimento, coraggio per affrontare le sfide della vita. Ma custodire la storia che ci ha generato significa anche tornare sempre a quella scuola, dove abbiamo appreso e vissuto l’amore. Significa, di fronte alle scelte da prendere oggi, domandarci che cosa farebbero al nostro posto gli anziani più saggi che abbiamo conosciuto, che cosa ci consigliano o ci consiglierebbero i nostri nonni e bisnonni.

Cari fratelli e sorelle, chiediamoci allora: siamo figli e nipoti che sanno custodire la ricchezza ricevuta? Facciamo memoria dei buoni insegnamenti ereditati? Parliamo con i nostri anziani, dedichiamo tempo per ascoltarli? E ancora, nelle nostre case, sempre più equipaggiate, moderne e funzionali, sappiamo ricavare uno spazio degno per conservare i loro ricordi, un luogo apposito, un piccolo sacrario familiare che, attraverso immagini e oggetti cari, ci permetta anche di elevare il pensiero e la preghiera a chi ci ha preceduto? Abbiamo conservato la Bibbia e il rosario dei nostri antenati? Pregare per loro e in unione con loro, dedicare tempo a fare memoria, custodire l’eredità: nella nebbia della dimenticanza che assale i nostri tempi vorticosi, fratelli e sorelle, è fondamentale prendersi cura delle radici. È così che cresce l’albero, è così che si costruisce il futuro.

Giungiamo così a riflettere su un secondo aspetto: oltre che figli di una storia da custodire siamo artigiani di una storia da costruire. Ciascuno può riconoscere di essere quel che è, con le sue luci e le sue ombre, a seconda dell’amore che ha ricevuto o che gli è mancato. Il mistero della vita umana è questo: siamo tutti figli di qualcuno, generati e plasmati da qualcuno, ma diventando adulti siamo anche chiamati a essere generativi, padri, madri e nonni di qualcun altro. E dunque, guardando alla persona che siamo oggi, che cosa vogliamo fare di noi stessi? I nonni da cui proveniamo, gli anziani che hanno sognato, sperato e si sono sacrificati per noi, ci rivolgono un interrogativo fondamentale: che società vogliamo costruire? Abbiamo ricevuto tanto dalle mani di chi ci ha preceduto: che cosa vogliamo lasciare in eredità ai nostri posteri? Una fede viva o “all’acqua di rose”, una società fondata sul profitto dei singoli o sulla fraternità, un mondo in pace o in guerra, un creato devastato o una casa ancora accogliente?

E non dimentichiamo che questo movimento che dà vita va dalle radici ai rami, alle foglie, ai fiori, ai frutti dell’albero. La vera tradizione si esprime in questa dimensione verticale: dal basso verso l’alto. Stiamo attenti a non cadere nella caricatura della tradizione, che non si muove in una linea verticale – dalle radici ai frutti – ma in una linea orizzontale – avanti/indietro – che ci porta alla cultura dell’ “indietrismo” come rifugio egoistico; e che non fa altro che incasellare il presente e conservarlo nella logica del “si è sempre fatto così”.

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù dice ai discepoli che sono beati perché possono vedere e ascoltare ciò che tanti profeti e giusti hanno soltanto potuto desiderare (cfr Mt 13,16-17). Molti, infatti avevano creduto nella promessa di Dio sulla venuta del Messia, avevano preparato la strada per Lui, ne avevano annunciato l’arrivo. Ora che il Messia è giunto, però, quanti possono vederlo e ascoltarlo sono chiamati ad accoglierlo e annunciarlo.

Fratelli e sorelle, questo vale anche per noi. Coloro che ci hanno preceduto ci hanno trasmesso una passione, una forza e un anelito, un fuoco che tocca a noi ravvivare; non si tratta di custodire delle ceneri, ma di ravvivare il fuoco che essi hanno acceso. I nostri nonni e i nostri anziani hanno desiderato vedere un mondo più giusto, più fraterno, più solidale e hanno lottato per darci un futuro. Ora, tocca a noi non deluderli. Tocca a noi farci carico di questa tradizione che abbiamo ricevuto, perché la tradizione è la fede viva dei nostri morti. Per favore, non trasformiamola in tradizionalismo, che è la fede morta dei vivi, come ha detto un pensatore. Sostenuti da loro, dai nostri padri, che sono le nostre radici, tocca a noi portare frutto. Siamo noi i rami che devono fiorire e immettere semi nuovi nella storia. E allora, facciamoci una domanda concreta: di fronte alla storia di salvezza a cui appartengo e di fronte a chi mi ha preceduto e amato, io che cosa faccio? Ho un ruolo unico e insostituibile nella storia: che traccia sto lasciando dietro al mio cammino, che cosa sto facendo, cosa sto lasciando a chi mi segue, che cosa sto dando di me? Tante volte si misura la vita in base ai soldi che si guadagnano, alla carriera che si realizza, al successo e alla considerazione che si ricevono dagli altri. Ma questi non sono criteri generativi. La questione è: sto generando? Sto generando vita? Sto immettendo nella storia un amore nuovo e rinnovato? Sto annunciando il Vangelo dove mi trovo a vivere, sto servendo qualcuno gratuitamente, come chi mi ha preceduto ha fatto con me? Che cosa faccio per la mia Chiesa, per la mia città e la mia società? Fratelli e sorelle, è facile criticare, ma il Signore non ci vuole solo critici del sistema, non ci vuole chiusi, non vuole che siamo “indietristi”, di quelli che si tirano indietro, come dice l’autore della Lettera agli Ebrei (cfr 10,39), ma vuole che siamo artigiani di una storia nuova, tessitori di speranza, costruttori di futuro, operatori di pace.

Gioacchino e Anna intercedano per noi: ci aiutino a custodire la storia che ci ha generato e a costruire una storia generativa. Ci ricordino l’importanza spirituale di onorare i nostri nonni e i nostri anziani, di fare tesoro della loro presenza per costruire un avvenire migliore. Un avvenire dove gli anziani non vengono scartati perché funzionalmente “non servono più”; un avvenire che non giudichi il valore delle persone solo da quanto producono; un avvenire che non sia indifferente verso chi, ormai avanti con l’età, ha bisogno di più tempo, ascolto e attenzione; un avvenire in cui per nessuno si ripeta la storia di violenza ed emarginazione subita dai nostri fratelli e sorelle indigeni. È un avvenire possibile se, con l’aiuto di Dio, non spezziamo il legame con chi ci ha preceduto e alimentiamo il dialogo con chi verrà dopo di noi: giovani e anziani, nonni e nipoti, insieme. Andiamo avanti insieme, sogniamo insieme e non dimentichiamo il consiglio di Paolo al suo discepolo Timoteo: “Ricordati di tua madre e di tua nonna” (cfr 2 Tm 1,5).

Partecipazione al "Lac Ste. Anne Pilgrimage" e Liturgia della Parola"

Cari fratelli e sorelle, âba-wash-did! Tansi! Oki! [buongiorno]

È bello per me essere qui, pellegrino con voi e in mezzo a voi. In questi giorni, oggi specialmente, sono stato colpito dal suono dei tamburi che mi hanno accompagnato ovunque sono andato. Questo battito dei tamburi mi sembrava echeggiare il battito di molti cuori: i cuori che, nei secoli, hanno vibrato presso queste acque; i cuori di tanti pellegrini che hanno scandito insieme il passo per raggiungere questo “lago di Dio”! Qui si può veramente cogliere il battito corale di un popolo pellegrino, di generazioni che si sono messe in cammino verso il Signore per sperimentare la sua opera di guarigione. Quanti cuori sono giunti qui desiderosi e ansimanti, gravati dai pesi della vita, e presso queste acque hanno trovato la consolazione e la forza per andare avanti! Anche qui, immersi nel creato, c’è un altro battito che possiamo ascoltare, quello materno della terra. E così come il battito dei bimbi, fin dal grembo, è in armonia con quello delle madri, così per crescere da esseri umani abbiamo bisogno di cadenzare i ritmi della vita a quelli della creazione che ci dà vita. Riandiamo così oggi alle nostre sorgenti di vita: a Dio, ai genitori e, nel giorno e nella casa di Sant’Anna, ai nonni, che saluto con grande affetto.

Trasportati da questi battiti vitali, siamo ora qui, in silenzio, contempliamo le acque di questo lago. Esso ci aiuta a tornare anche alle fonti della fede. Ci permette infatti di peregrinare idealmente fino ai luoghi santi: di immaginare Gesù, che svolse gran parte del suo ministero proprio sulle rive di un lago, il Lago di Galilea. Lì scelse e chiamò gli Apostoli, proclamò le Beatitudini, narrò il maggior numero di parabole, compì segni e guarigioni. Ora, quel lago costituiva il cuore della «Galilea delle genti» (Mt 4,15), una zona periferica, di commercio, dove confluivano svariate popolazioni, colorando la regione di tradizioni e culti disparati. Si trattava del luogo più distante, geograficamente e culturalmente, dalla purezza religiosa, che si concentrava a Gerusalemme, presso il tempio. Possiamo dunque immaginare quel lago, chiamato mare di Galilea, come un condensato di differenze: sulle sue rive si incontravano pescatori e pubblicani, centurioni e schiavi, farisei e poveri, uomini e donne delle più variegate provenienze ed estrazioni sociali. Lì, proprio lì, Gesù predicò il Regno di Dio: non a gente religiosa selezionata, ma a popolazioni diverse che accorrevano da più parti come oggi, predicò accogliendo tutti in un teatro naturale come questo. Dio elesse quel contesto poliedrico ed eterogeneo per annunciare al mondo qualcosa di rivoluzionario: per esempio, “porgete l’altra guancia, amate i nemici, vivete da fratelli per essere figli di Dio, Padre che fa splendere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (cfr Mt 5,38-48). Così proprio quel lago, “meticciato di diversità”, divenne la sede di un inaudito annuncio di fraternità; di una rivoluzione senza morti e feriti, la rivoluzione dell’amore. E qui, sulle rive di questo lago, il suono dei tamburi che attraversa i secoli e unisce genti diverse, ci riporta fino ad allora. Ci ricorda che la fraternità è vera se unisce i distanti, che il messaggio di unità che il Cielo invia in terra non teme le differenze e ci invita alla comunione, alla comunione delle differenze, per ripartire insieme, perché tutti – tutti! – siamo pellegrini in cammino.

Fratelli, sorelle, pellegrini a queste acque, che cosa possiamo attingervi? Ci aiuta a scoprirlo la Parola di Dio. Il profeta Ezechiele ha ripetuto per due volte che le acque fatte scaturire dal tempio, per il popolo di Dio, “danno la vita” e “risanano” (cfr Ez 47,8-9).

Danno la vita. Penso alle nonne che sono qui con noi, tante! Carissime, i vostri cuori sono sorgenti da cui è scaturita l’acqua viva della fede, con la quale avete dissetato figli e nipoti. Mi colpisce il ruolo vitale delle donne nelle comunità indigene: occupano un posto di rilievo in quanto fonti benedette di vita non solo fisica, ma anche spirituale. E, pensando alle vostre kokum, ripenso anche alla mia nonna. Da lei ho ricevuto il primo annuncio della fede e ho imparato che il Vangelo si trasmette così, attraverso la tenerezza della cura e la saggezza della vita. La fede raramente nasce leggendo un libro da soli in salotto, ma si diffonde in un clima familiare, si trasmette nella lingua delle madri, con il dolce canto dialettale delle nonne. Mi scalda il cuore vedere qui tanti nonni e bisnonni. Grazie! Vi ringrazio e vorrei dire a quanti hanno anziani a casa, in famiglia: avete un tesoro! Custodite tra le vostre mura una sorgente di vita; per favore, prendetevene cura, come dell’eredità più preziosa da amare e custodire.

Il profeta diceva che le acque, oltre a dare vita, risanano. Questo aspetto ci riporta sulle rive del lago di Galilea, dove Gesù «guarì molti che erano affetti da varie malattie» (Mc 1,34). Lì, «venuta la sera, gli portavano tutti i malati» (v. 32). Questa sera immaginiamoci attorno al lago con Gesù, mentre Lui si avvicina, si china e, con pazienza, compassione e tenerezza, guarisce tanti malati nel corpo e nello spirito: indemoniati, lebbrosi, paralitici, ciechi, ma anche persone affrante e sfiduciate, smarrite e ferite. Gesù è venuto e viene ancora a prendersi cura di noi, a consolare e risanare la nostra umanità sola e sfinita. A tutti, anche a noi, rivolge lo stesso invito: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). O, come nel brano che abbiamo ascoltato stasera: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva» (Gv 7,37).

Fratelli, sorelle, tutti noi abbiamo bisogno della guarigione di Gesù, medico delle anime e dei corpi. Signore, come la gente sulle sponde del mare di Galilea non aveva paura di gridarti i suoi bisogni, così noi stasera, Signore, veniamo a te, con il dolore che abbiamo dentro. Ti portiamo le nostre aridità e le nostre fatiche, ti portiamo i traumi delle violenze subite dai nostri fratelli e sorelle indigeni. In questo luogo benedetto, dove regnano l’armonia e la pace, ti presentiamo le disarmonie delle nostre storie, i terribili effetti della colonizzazione, il dolore incancellabile di tante famiglie, nonni e bambini. Signore, aiutaci a guarire le nostre ferite. Sappiamo che ciò richiede impegno, cura e fatti concreti da parte nostra; ma sappiamo pure, Signore, che da soli non ce la possiamo fare. Ci affidiamo a Te e all’intercessione della tua madre e della tua nonna.

Sì, Signore, ci affidiamo all’intercessione della tua madre e della tua nonna, perché le madri e le nonne aiutano a risanare le ferite del cuore. Durante i drammi della conquista, fu la Madonna di Guadalupe a trasmettere la retta fede agli indigeni, parlando la loro lingua, vestendo i loro abiti, senza violenze e senza imposizioni. E poco dopo, con l’arrivo della stampa, vennero pubblicate le prime grammatiche e i primi catechismi in lingue indigene. Quanto bene hanno fatto in questo senso i missionari autenticamente evangelizzatori per preservare in tante parti del mondo le lingue e le culture autoctone! In Canada, questa “inculturazione materna” è avvenuta per opera di sant’Anna, unendo la bellezza delle tradizioni indigene e della fede, e plasmandole con la saggezza di una nonna, che è mamma due volte. Anche la Chiesa è donna, anche la Chiesa è madre. Non c’è infatti mai stato un momento nella sua storia in cui la fede non fosse trasmessa in lingua materna, dalle madri e dalle nonne. Invece, parte dell’eredità dolorosa che stiamo affrontando nasce dall’aver impedito alle nonne indigene di trasmettere la fede nella loro lingua e nella loro cultura. Questa perdita è certamente una tragedia, ma la vostra presenza qui è una testimonianza di resilienza e di ripartenza, di pellegrinaggio verso la guarigione, di apertura del cuore a Dio che risana il nostro essere comunità. Ora tutti noi, come Chiesa, abbiamo bisogno di guarigione: abbiamo bisogno di essere risanati dalla tentazione di chiuderci in noi stessi, di scegliere la difesa dell’istituzione anziché la ricerca della verità, di preferire il potere mondano al servizio evangelico. Cari fratelli e sorelle, aiutiamoci a dare il nostro contributo per edificare con l’aiuto di Dio una Chiesa madre come a Lui piace: capace di abbracciare ogni figlio e figlia; aperta a tutti e che parli a ciascuno e a ciascuna; che non vada contro qualcuno, ma che vada incontro a chiunque.

Le folle del lago di Galilea che facevano ressa attorno a Gesù erano fatte principalmente di gente comune, gente semplice, che portava a Lui i propri bisogni e le proprie ferite. Similmente, se vogliamo prenderci cura e risanare la vita delle nostre comunità, non possiamo che partire dai poveri, dai più emarginati. Troppo spesso ci si lascia guidare dagli interessi di pochi che stanno bene; occorre guardare di più alle periferie e porsi in ascolto del grido degli ultimi; è necessario saper ascoltare il dolore di quanti, spesso in silenzio, nelle nostre città affollate e spersonalizzate, gridano: “Non lasciateci soli!”. È anche il grido di anziani che rischiano di morire da soli in casa o abbandonati presso una struttura, o di malati scomodi ai quali, al posto dell’affetto, viene somministrata la morte. È il grido soffocato di ragazzi e delle ragazze più interrogati che ascoltati, i quali delegano la loro libertà a un telefonino, mentre nelle stesse strade altri loro coetanei vagano persi, anestetizzati da qualche divertimento, in preda a dipendenze che li rendono tristi e insofferenti, incapaci di credere in sé stessi, di amare quello che sono e la bellezza della vita che hanno. Non lasciateci soli è il grido di chi vorrebbe un mondo migliore, ma non sa da dove iniziare.

Gesù, che ci guarisce e consola con l’acqua viva del suo Spirito, stasera nel Vangelo ci chiede che anche da noi, dal grembo di chi crede, “sgorghino fiumi di acqua viva” (cfr v. 38). E noi, sappiamo dissetare le aridità dei fratelli e delle sorelle? Mentre continuiamo a chiedere consolazione a Dio, sappiamo anche darne agli altri? Quante volte ci liberiamo da tanti pesi interiori, per esempio dal non sentirci amati e rispettati, proprio incominciando ad amare gli altri gratuitamente! Nelle nostre solitudini e insofferenze Gesù ci spinge a uscire, ci spinge a dare, ci spinge ad amare. E allora, mi chiedo: che cosa faccio io per chi ha bisogno di me? Guardando alle popolazioni indigene, pensando alle loro storie e al dolore che hanno subito, che cosa faccio io per loro le popolazioni indigene? Ascolto con un po’ di curiosità mondana e mi scandalizzo per quanto accaduto in passato, oppure faccio qualcosa di concreto per loro? Prego, incontro, leggo, mi documento, mi lascio toccare dalle loro storie? E, guardando a me stesso, se mi trovo nella sofferenza, ascolto Gesù che mi vuole portare fuori dal recinto della mia insofferenza e mi invita a ripartire, ad andare oltre, ad amare? A volte, un bel modo per aiutare un’altra persona è quello di non dargli subito ciò che chiede, ma di accompagnarla, di invitarla ad amare, a farsi dono. Perché è in questo modo che, attraverso il bene che potrà fare agli altri, scoprirà i suoi fiumi di acqua viva, scoprirà il tesoro unico e prezioso che è.

Cari fratelli e sorelle indigeni, sono venuto pellegrino anche per dirvi quanto siete preziosi per me e per la Chiesa. Desidero che la Chiesa sia intrecciata tra di noi, come stretti e uniti sono i fili delle fasce colorate che tanti di voi indossano. Il Signore ci aiuti ad andare avanti nel processo di guarigione, verso un avvenire sempre più risanato e rinnovato. Credo sia anche il desiderio delle vostre nonne e dei vostri nonni, dei nostri nonni e delle nostre nonne. I nonni di Gesù, i santi Gioacchino e Anna, benedicano il nostro cammino.


Mercoledì 27 luglio

Incontro con le Autorità Civili, con i rappresentanti delle Popolazioni Indigene e con il Corpo Diplomatico presso la "Citadelle de Québec"

Signora Governatore Generale,
Signor Primo Ministro,
distinte Autorità civili e religiose,
cari Rappresentanti delle popolazioni indigene,
illustri Membri del Corpo diplomatico,
Signore e Signori!

Vi saluto cordialmente e ringrazio la Signora Mary Simon e al Signor Justin Trudeau, per le loro gentili parole. Sono lieto di rivolgermi a voi, che avete la responsabilità di servire gli abitanti di questo grande Paese che, “da mare a mare”, offre un patrimonio naturale straordinario. Tra le tante bellezze, penso alle immense e spettacolari foreste di aceri, che rendono il paesaggio canadese unico e variopinto. Vorrei prendere proprio spunto dal simbolo per eccellenza di queste terre, la foglia d’acero, che dagli stemmi del Québec si diffuse rapidamente fino a diventare l’emblema che campeggia sulla bandiera del Paese.

Se ciò è accaduto in tempi piuttosto recenti, gli aceri custodiscono tuttavia la memoria di molte generazioni passate, ben prima che i coloni giungessero sul suolo canadese. Le popolazioni native vi estraevano la linfa con cui realizzavano nutrienti sciroppi. Questo ci porta a pensare alla loro laboriosità, sempre attenta a salvaguardare la terra e l’ambiente, fedele a una visione armoniosa del creato, libro aperto che insegna all’uomo ad amare il Creatore e a vivere in simbiosi con gli altri esseri viventi. C’è tanto da imparare da questo, dalla capacità di porsi in ascolto di Dio, delle persone e della natura. Ne abbiamo bisogno specialmente nella vorticosa frenesia del mondo odierno, caratterizzato da una costante “rapidizzazione”, che rende arduo uno sviluppo realmente umano, sostenibile e integrale (cfr Lett. enc. Laudato si’, 18), finendo per generare una “società della stanchezza e della disillusione”, che fatica a ritrovare il gusto della contemplazione, il sapore genuino delle relazioni, la mistica dell’insieme. Quanto bisogno abbiamo di ascoltarci e di dialogare, per allontanarci dall’individualismo imperante, dai giudizi affrettati, dall’aggressività dilagante, dalla tentazione di dividere il mondo in buoni e cattivi! Le grandi foglie d’acero, che assorbono l’aria inquinata e restituiscono ossigeno, invitano a stupirci per la bellezza del creato e a lasciarci attirare dai salutari valori presenti nelle culture indigene: essi sono di ispirazione a tutti noi e possono contribuire a risanare le nocive abitudini di sfruttare. Sfruttare il creato, le relazioni, il tempo, e regolare l’attività umana solo in base all’utile e al profitto.

Questi insegnamenti vitali, tuttavia, sono stati violentemente avversati in passato. Penso soprattutto alle politiche di assimilazione e di affrancamento, comprendenti anche il sistema scolastico residenziale, che ha danneggiato molte famiglie indigene, minandone la lingua, la cultura e la visione del mondo. In quel deprecabile sistema promosso dalle autorità governative dell’epoca, che ha separato tanti bambini dalle loro famiglie, sono state coinvolte diverse istituzioni cattoliche locali; per questo esprimo vergogna e dolore e, insieme ai Vescovi di questo Paese, rinnovo la mia richiesta di perdono per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene. Per tutto questo chiedo perdono. È tragico quando dei credenti, come accaduto in quel periodo storico, si adeguano alle convenienze del mondo piuttosto che al Vangelo. Se la fede cristiana ha svolto un ruolo essenziale nel plasmare i più alti ideali del Canada, caratterizzati dal desiderio di costruire un Paese migliore per tutta la sua gente, è necessario, ammettendo le proprie colpe, impegnarsi insieme a realizzare quanto so che tutti voi condividete: promuovere i legittimi diritti delle popolazioni native e favorire processi di guarigione e di riconciliazione tra loro e i non indigeni del Paese. Ciò si riflette nel vostro impegno a rispondere in modo adeguato agli appelli della Commissione per la verità e la riconciliazione, così come nell’attenzione a riconoscere i diritti dei popoli indigeni.

La Santa Sede e le comunità cattoliche locali nutrono la concreta volontà di promuovere le culture indigene, con cammini spirituali appositi e confacenti, che comprendano anche l’attenzione alle tradizioni culturali, alle usanze, alle lingue e ai processi educativi propri, nello spirito della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni. È nostro desiderio rinnovare il rapporto tra la Chiesa e le popolazioni indigene del Canada, un rapporto segnato sia da un amore che ha portato ottimi frutti, sia, purtroppo, da ferite che ci stiamo impegnando a comprendere e sanare. Sono molto grato di aver incontrato e ascoltato vari rappresentanti delle popolazioni indigene nei mesi scorsi a Roma, e di poter rinsaldare, qui in Canada, le belle relazioni strette con loro. I momenti vissuti insieme hanno lasciato in me un’impronta e il fermo desiderio di farci carico dare seguito all’indignazione e alla vergogna per le sofferenze subite dagli indigeni, portando avanti un cammino fraterno e paziente, da intraprendere con tutti i canadesi secondo verità e giustizia, adoperandoci per la guarigione e la riconciliazione, sempre animati dalla speranza.

Quella «storia di dolore e di disprezzo», originata da una mentalità colonizzatrice, «non si risana facilmente». Al tempo stesso, ci mette in guardia sul fatto che «la colonizzazione non si ferma, piuttosto in alcune zone si trasforma, si maschera e si nasconde» (Esort. ap. Querida Amazonia, 16). È il caso delle colonizzazioni ideologiche. Se un tempo la mentalità colonialista trascurò la vita concreta della gente, imponendo modelli culturali prestabiliti, anche oggi non mancano colonizzazioni ideologiche che contrastano la realtà dell’esistenza, soffocano il naturale attaccamento ai valori dei popoli, tentando di sradicarne le tradizioni, la storia e i legami religiosi. Si tratta di una mentalità che, presumendo di aver superato “le pagine buie della storia”, fa spazio a quella cancel culture che valuta il passato solo in base a certe categorie attuali. Così si impianta una moda culturale che uniforma, rende tutto uguale, non tollera differenze e si concentra solo sul momento presente, sui bisogni e sui diritti degli individui, trascurando spesso i doveri nei riguardi dei più deboli e fragili: poveri, migranti, anziani, ammalati, nascituri… Sono loro i dimenticati nelle società del benessere; sono loro che, nell’indifferenza generale, vengono scartati come foglie secche da bruciare.

Le ricche chiome multicolori degli alberi di acero ci ricordano invece l’importanza dell’insieme, di portare avanti comunità umane non omologatrici, ma realmente aperte e inclusive. E come ogni foglia è fondamentale per arricchire le fronde, così ogni famiglia, cellula essenziale della società, va valorizzata, perché «l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia» (S. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 86). Essa è la prima realtà sociale concreta, ma è minacciata da molti fattori: violenza domestica, frenesia lavorativa, mentalità individualistica, carrierismi sfrenati, disoccupazione, solitudine dei giovani, abbandono degli anziani e degli infermi... Le popolazioni indigene hanno tanto da insegnarci sulla custodia e la tutela della famiglia, dove già da bambini si impara a riconoscere che cosa è giusto e che cosa sbagliato, a dire la verità, a condividere, a correggere i torti, a ricominciare, a rincuorarsi, a riconciliarsi. Il male sofferto dai popoli indigeni, e di cui ora ci vergogniamo, ci serva oggi da monito, affinché la cura e i diritti della famiglia non vengano messi da parte in nome di eventuali esigenze produttive e interessi individuali.

Ritorniamo alla foglia d’acero. Nei tempi di guerra, i soldati ne facevano uso come bende e medicamenti per le ferite. Oggi, di fronte all’insensata follia della guerra, abbiamo nuovamente bisogno di lenire gli estremismi della contrapposizione e di curare le ferite dell’odio. Una testimone di tragiche violenze passate ha recentemente detto che «la pace ha un suo segreto: non odiare mai nessuno. Se si vuole vivere non si deve mai odiare» (Intervista a E. Bruck, in “Avvenire”, 8 marzo 2022). Non abbiamo bisogno di dividere il mondo in amici e nemici, di prendere le distanze e riarmarci fino ai denti: non saranno la corsa agli armamenti e le strategie di deterrenza a portare pace e sicurezza. Non c’è bisogno di chiedersi come proseguire le guerre, ma come fermarle. E di impedire che i popoli siano tenuti nuovamente in ostaggio dalla morsa di spaventose guerre fredde che ancora si allargano. C’è bisogno di politiche creative e lungimiranti, che sappiano uscire dagli schemi delle parti per dare risposte alle sfide globali.

Infatti le grandi sfide di oggi, come la pace, i cambiamenti climatici, gli effetti pandemici e le migrazioni internazionali sono accomunate da una costante: sono globali, sono sfide globali, riguardano tutti. E se tutte parlano della necessità dell’insieme, la politica non può rimanere prigioniera di interessi di parte. Occorre saper guardare, come la sapienza indigena insegna, alle sette generazioni future, non alle convenienze immediate, alle scadenze elettorali, al sostegno delle lobby. E anche valorizzare i desideri di fraternità, giustizia e pace delle giovani generazioni. Sì, come è necessario, per recuperare memoria e saggezza, ascoltare gli anziani, così, per avere slancio e futuro, occorre abbracciare i sogni dei giovani. Essi meritano un futuro migliore di quello che stiamo loro preparando, meritano di essere coinvolti nelle scelte per la costruzione dell’oggi e del domani, in particolare per la salvaguardia della casa comune, per la quale sono preziosi i valori e gli insegnamenti delle popolazioni indigene. A tale proposito, vorrei esprimere apprezzamento per il lodevole impegno locale a favore dell’ambiente. Si potrebbe quasi dire che gli emblemi tratti dalla natura, quali il giglio nella bandiera di questa Provincia del Québec, e la foglia d’acero in quella del Paese, confermino la vocazione ecologica del Canada.

Quando l’apposita Commissione si trovò a valutare le migliaia di bozzetti pervenuti per la realizzazione della bandiera nazionale, molti dei quali inviati da persone comuni, sorprese che quasi tutti contenessero proprio la rappresentazione della foglia d’acero. La partecipazione attorno a questo simbolo condiviso mi suggerisce di sottolineare una parola fondamentale per i canadesi: multiculturalismo. Esso sta alla base della coesione di una società tanto composita quanto variamente colorate sono le chiome degli aceri. La stessa foglia d’acero, con la sua molteplicità di punte e di lati, fa pensare a una figura poliedrica e dice che voi siete un popolo capace di includere, così che coloro che arrivano possano trovare posto in quella unità multiforme e apportarvi il loro contributo originale (cfr Evangelii gaudium, 236). Il multiculturalismo è una sfida permanente: è accogliere e abbracciare le diverse componenti presenti, rispettando, al contempo, la diversità delle loro tradizioni e culture, senza pensare che il processo sia compiuto una volta per tutte. Esprimo apprezzamento in tal senso per la generosità nell’ospitare numerosi migranti ucraini e afghani. Occorre anche lavorare per superare la retorica della paura nei confronti degli immigrati e per dare loro, secondo le possibilità del Paese, la possibilità concreta di essere coinvolti responsabilmente nella società. Per fare ciò i diritti e la democrazia sono indispensabili. Ma è necessario fronteggiare la mentalità individualista, ricordando che il vivere comune si fonda su presupposti che il sistema politico da solo non può produrre. Anche in questo la cultura indigena è di grande sostegno nel ricordare l’importanza dei valori della socialità. E pure la Chiesa cattolica, con la sua dimensione universale e la sua cura nei riguardi dei più fragili, con il legittimo servizio a favore della vita umana in ogni sua fase, dal concepimento e fino alla morte naturale, è lieta di offrire il proprio contributo.

In questi giorni ho sentito di numerose persone bisognose che bussano alle porte delle parrocchie. Anche in un Paese tanto sviluppato e progredito come il Canada, che dedica molta attenzione all’assistenza sociale, non sono pochi i senzatetto che si affidano alle chiese e ai banchi alimentari per ricevere aiuti e conforti essenziali, che – non dimentichiamolo – non sono solo materiali. Questi fratelli e sorelle ci portano a considerare l’urgenza di adoperarci per porre rimedio alla radicale ingiustizia che inquina il nostro mondo, per cui l’abbondanza dei doni della creazione è ripartita in modo troppo diseguale. È scandaloso che il benessere generato dallo sviluppo economico non vada a beneficio di tutti i settori della società. Ed è triste che proprio tra i nativi si registrino spesso molti tassi di povertà, cui si collegano altri indicatori negativi, come il basso indice di scolarizzazione, il non facile accesso alla casa e all’assistenza sanitaria. L’emblema della foglia d’acero, che compare abitualmente sulle etichette dei prodotti del Paese, sia di stimolo per tutti a compiere scelte economiche e sociali volte alla condivisione e alla cura dei bisognosi.

È lavorando di comune accordo, insieme, che si affrontano le sfide pressanti di oggi. Vi ringrazio per l’ospitalità, l’attenzione e la stima, dicendovi con sincero affetto che il Canada e la sua gente mi stanno veramente a cuore.


Giovedì 28 luglio

Santa Messa

Il viaggio dei discepoli di Emmaus, alla conclusione del Vangelo di san Luca, è un’immagine del nostro cammino personale e di quello della Chiesa. Sulla strada della vita, e della vita di fede, mentre portiamo avanti i sogni, i progetti, le attese e le speranze che abitano il nostro cuore, ci scontriamo anche con le nostre fragilità e debolezze, sperimentiamo sconfitte e delusioni, e a volte restiamo prigionieri di un senso di fallimento che ci paralizza. Il Vangelo ci annuncia che, proprio in quel momento, non siamo soli: il Signore ci viene incontro, si affianca a noi, cammina sulla nostra stessa strada con la discrezione di un viandante gentile che vuole riaprire i nostri occhi e far ardere di nuovo il nostro cuore. E quando il fallimento lascia spazio all’incontro con il Signore, la vita rinasce alla speranza e possiamo riconciliarci: con noi stessi, con i fratelli e con Dio.

Seguiamo allora l’itinerario di questo cammino che potremmo intitolare: dal fallimento alla speranza.

Anzitutto c’è il senso del fallimento, che abita il cuore di questi due discepoli dopo la morte di Gesù. Avevano inseguito un sogno con entusiasmo. In Gesù avevano riposto tutte le loro speranze e i loro desideri. Ora, dopo la scandalosa morte in croce, voltano le spalle a Gerusalemme per ritornare a casa, alla vita di prima. Il loro è un viaggio di ritorno, come per voler dimenticare quell’esperienza che ha riempito di amarezza i loro cuori, quel Messia messo a morte come un malvivente sulla croce. Se ne tornano a casa abbattuti, «col volto triste» (Lc 24,17): le aspettative che avevano coltivato sono cadute nel nulla, le speranze in cui avevano creduto sono andate in frantumi, i sogni che avrebbero voluto realizzare lasciano il posto alla delusione e all’amarezza.

Questa è un’esperienza che riguarda anche la nostra vita e lo stesso cammino spirituale, in tutte quelle occasioni in cui siamo costretti a ridimensionare le nostre attese e a fare i conti con le ambiguità della realtà, con le oscurità della vita, con le nostre debolezze. Ci succede ogni volta che i nostri ideali si scontrano con le delusioni dell’esistenza e i nostri propositi vengono disattesi a motivo delle nostre fragilità; quando coltiviamo progetti di bene ma poi non abbiamo la capacità di attuarli (cfr Rm 7,18); quando nelle attività che portiamo avanti o nelle nostre relazioni prima o poi facciamo l’esperienza di qualche sconfitta, di qualche errore, di un fallimento, di una caduta, mentre vediamo crollare ciò in cui avevamo creduto o ci eravamo impegnati, mentre ci sentiamo schiacciati dal nostro peccato e dai sensi di colpa.

E questo è ciò che accadde ad Adamo ed Eva, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: il loro peccato non solo li ha allontanati da Dio, ma li ha resi distanti tra loro: riescono solo ad accusarsi a vicenda. E lo vediamo anche nei discepoli di Emmaus, il cui malessere per aver visto crollare il progetto di Gesù lascia spazio solo a una sterile discussione. E ciò può verificarsi anche nella vita della Chiesa, la comunità dei discepoli del Signore che i due di Emmaus rappresentano. Pur essendo la comunità del Risorto, può trovarsi a vagare smarrita e delusa dinanzi allo scandalo del male e alla violenza del Calvario. Essa allora non può fare altro che stringere tra le mani il senso del fallimento e chiedersi: che cosa è successo? Perché è successo? Come è potuto succedere?

Fratelli e sorelle, sono le domande che ciascuno di noi pone a sé stesso; e sono anche gli interrogativi scottanti che questa Chiesa pellegrina in Canada sta facendo risuonare nel suo cuore in un faticoso cammino di guarigione e di riconciliazione. Anche noi, dinanzi allo scandalo del male e al Corpo di Cristo ferito nella carne dei nostri fratelli indigeni, siamo piombati nell’amarezza e avvertiamo il peso del fallimento. Permettetemi allora di unirmi spiritualmente a tanti pellegrini che qui percorrono la “scala santa”, che evoca quella salita da Gesù al pretorio di Pilato, e di accompagnarvi come Chiesa in queste domande che nascono dal cuore pieno di dolore:perché è accaduto tutto questo? Come ciò è potuto avvenire nella comunità di coloro che seguono Gesù?

Qui, però, dobbiamo stare attenti alla tentazione della fuga, presente nei due discepoli del Vangelo: fuggire, fare la strada all’indietro, scappare dal luogo dove i fatti sono avvenuti, tentare di rimuoverli, cercare un “posto tranquillo” come Emmaus pur di dimenticarli. Non c’è cosa peggiore, dinanzi ai fallimenti della vita, che quella di fuggire per non affrontarli. È una tentazione del nemico, che minaccia il nostro cammino spirituale e il cammino della Chiesa: vuole farci credere che quel fallimento sia ormai definitivo, vuole paralizzarci nell’amarezza e nella tristezza, convincerci che non c’è più niente da fare e che quindi non vale la pena di trovare una strada per ricominciare.

Il Vangelo ci rivela, invece, che proprio nelle situazioni di delusione e di dolore, proprio quando sperimentiamo attoniti la violenza del male e la vergogna della colpa, quando il fiume della nostra vita si inaridisce nel peccato e nel fallimento, quando spogliati di tutto ci sembra di non avere più nulla, proprio lì il Signore ci viene incontro e cammina con noi. Sulla strada verso Emmaus, Egli si affianca con discrezione per accompagnare e condividere i passi rassegnati di quei discepoli tristi. E che cosa fa? Non offre generiche parole di incoraggiamento, espressioni di circostanza o facili consolazioni ma, svelando nelle sante Scritture il mistero della sua morte e risurrezione, illumina la loro storia e gli eventi che hanno vissuto. Così apre i loro occhi a un nuovo sguardo sulle cose. Anche noi che condividiamo l’Eucaristia in questa Basilica possiamo rileggere molti avvenimenti della storia. Su questo stesso terreno vi furono in precedenza tre templi; e vi furono coloro che non fuggirono davanti alle difficoltà, tornarono a sognare malgrado gli errori propri e altrui; non si lasciarono vincere dal devastante incendio di cent’anni fa e, con coraggio e creatività, costruirono questo tempio. E quanti condividono l’Eucaristia dalle vicine Pianure di Abramo, possono pure percepire l’animo di quelli che non si lasciarono prendere in ostaggio dall’odio della guerra, dalla distruzione e dal dolore, ma seppero nuovamente progettare una città e un paese.

Infine, davanti ai discepoli di Emmaus, Gesùspezza il pane, riaprendo i loro occhi e mostrandosi ancora una volta come il Dio dell’amore che offre la vita per i suoi amici. In questo modo, li aiuta a riprendere il cammino con gioia, a ricominciare, a passare dal fallimento alla speranza. Fratelli e sorelle, il Signore vuole fare lo stesso anche con ciascuno di noi e con la sua Chiesa. Come possono essere riaperti i nostri occhi, come può il cuore ardere ancora in noi per il Vangelo? Che cosa fare mentre siamo afflitti da diverse prove spirituali e materiali, mentre cerchiamo la strada verso una società più giusta e fraterna, mentre desideriamo riprenderci dalle nostre delusioni e stanchezze, mentre speriamo di guarire dalle ferite del passato e riconciliarci con Dio e tra di noi?

C’è una sola strada, una sola via: è la via di Gesù, è la via che è Gesù (cfr Gv 14,6). Crediamo che Gesù si affianca al nostro cammino, lasciamoci incontrare da Lui; lasciamo che sia la sua Parola a interpretare la storia che viviamo come singoli e come comunità e a indicarci la via per guarire e per riconciliarci; spezziamo insieme con fede il Pane eucaristico, perché attorno a quella mensa possiamo riscoprirci figli amati del Padre, chiamati a essere fratelli tutti. Gesù, spezzando il pane, conferma ciò che già i discepoli hanno ricevuto come testimonianza dalle donne e a cui non hanno voluto credere: che è risorto! In questa Basilica, dove ricordiamo la madre della Vergine Maria, e in cui si trova anche la cripta dedicata all’Immacolata Concezione, non possiamo che evidenziare il ruolo che Dio ha voluto dare alla donna nel suo piano di salvezza. Sant’Anna, la Santissima Vergine Maria, le donne del mattino di Pasqua ci indicano una nuova via di riconciliazione: la tenerezza materna di tante donne ci può accompagnare – come Chiesa – verso tempi nuovamente fecondi, in cui possiamo lasciare alle spalle tanta sterilità e tanta morte, e rimettere al centro Gesù, il Crocifisso Risorto.

Infatti, al centro delle nostre domande, delle fatiche che portiamo dentro, della stessa vita pastorale, non possiamo mettere noi stessi e il nostro fallimento; dobbiamo mettere Lui, il Signore Gesù. Al cuore di ogni cosa mettiamo la sua Parola, che illumina gli avvenimenti e ci restituisce occhi per vedere la presenza operante dell’amore di Dio e la possibilità del bene anche nelle situazioni apparentemente perdute; mettiamo il Pane dell’Eucaristia, che Gesù spezza ancora per noi oggi, per condividere la sua vita con la nostra, abbracciare le nostre debolezze, sorreggere i nostri passi stanchi e donarci la guarigione del cuore. E, riconciliati con Dio, con gli altri e con noi stessi, possiamo anche noi diventare strumenti di riconciliazione e di pace nella società in cui viviamo.

Signore Gesù, nostra via, nostra forza e consolazione, ci rivolgiamo a Te come i discepoli di Emmaus: «Resta con noi, Signore, perché si fa sera» (Lc 24,29). Resta con noi, Signore, quando tramonta la speranza e scende oscura la notte della delusione. Resta con noi perché con Te, Gesù, la direzione del cammino cambia marcia e dai vicoli ciechi della sfiducia rinasce lo stupore della gioia. Resta con noi, Signore, perché con Te la notte del dolore si cambia nel mattino radioso della vita. Semplicemente diciamo: resta con noi, Signore, perché se Tu cammini al nostro fianco il fallimento si apre alla speranza di una vita nuova. Amen.

Vespri con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali

Cari fratelli Vescovi, cari sacerdoti e diaconi, consacrate, consacrati e seminaristi, operatori pastorali, buonasera!

Ringrazio Monsignor Poisson per le parole di benvenuto che mi ha rivolto e saluto tutti voi, specialmente quanti hanno dovuto affrontare un bel po’ di strada per arrivare: le distanze nel vostro Paese sono davvero grandi! E quindi, grazie! Sono contento di incontrarvi.

È significativo che ci troviamo nella Basilica di Notre-Dame de Québec, cattedrale di questa Chiesa particolare e sede primaziale del Canada, il cui primo Vescovo, Saint François de Laval, aprì il Seminario nel 1663 e per tutto il suo ministero si occupò della formazione dei preti. Degli “anziani”, cioè dei presbiteri, ci ha parlato la Lettura breve che abbiamo ascoltato. San Pietro ci ha esortati: «Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri» (1 Pt 5,2). Mentre siamo qui radunati come Popolo di Dio, ricordiamoci che è Gesù il Pastore della nostra vita, che si prende cura di noi perché ci ama davvero. A noi, pastori della Chiesa, è chiesta questa stessa generosità nel pascere il gregge, perché possa manifestarsi la sollecitudine di Gesù per tutti e la sua compassione per le ferite di ciascuno.

E proprio perché siamo segno di Cristo, l’Apostolo Pietro ci esorta: pascete il gregge, guidatelo, non lasciate che si smarrisca mentre vi occupate dei vostri affari. Prendetevene cura con dedizione e tenerezza. E – aggiunge – fatelo “volentieri”, non per forza: non come un dovere, non come stipendiati religiosi o funzionari del sacro, ma con cuore di pastori, con entusiasmo. Se noi guardiamo a Lui buon Pastore prima che a noi stessi, scopriamo di essere custoditi con tenerezza, sentiamo la vicinanza di Dio. Da qui nasce la gioia del ministero, e prima ancora la gioia della fede: non dal vedere ciò che noi siamo capaci di fare, ma dal sapere che Dio è vicino, che ci ha amati per primo e ci accompagna ogni giorno.

Questa, fratelli e sorelle, è la nostra gioia: non una gioia a buon mercato, quella che a volte il mondo ci propone illudendoci con dei fuochi d’artificio; questa gioia non è legata a ricchezze e sicurezze; nemmeno è legata alla persuasione che nella vita ci andrà sempre bene, senza croci e problemi. La gioia cristiana, piuttosto, è unita a un’esperienza di pace che rimane nel cuore anche quando siamo bersagliati da prove e afflizioni, perché sappiamo di non essere soli ma accompagnati da un Dio che non è indifferente alla nostra sorte. Come quando il mare è agitato: in superficie è in tempesta, ma in profondità rimane calmo e pacifico. Ecco la gioia cristiana: un dono gratuito, la certezza di saperci amati, sorretti, abbracciati da Cristo in ogni situazione della vita. Perché è Lui che ci libera dall’egoismo e dal peccato, dalla tristezza della solitudine, dal vuoto interiore e dalla paura, dandoci uno sguardo nuovo sulla vita, uno sguardo nuovo sulla storia: «Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (Evangelii gaudium, 1).

E allora possiamo domandarci: come va la nostra gioia? Come va la mia gioia? La nostra Chiesa esprime la gioia del Vangelo? Nelle nostre comunità c’è una fede che attira per la gioia che comunica?

Se vogliamo affrontare alla radice questi interrogativi, non possiamo fare a meno di riflettere su ciò che, nella realtà del nostro tempo, minaccia la gioia della fede e rischia di oscurarla, mettendo seriamente in crisi l’esperienza cristiana. Viene subito da pensare alla secolarizzazione, che da tempo ha ormai trasformato lo stile di vita delle donne e degli uomini di oggi, lasciando Dio quasi sullo sfondo. Egli sembra scomparso dall’orizzonte, la sua Parola non pare più una bussola di orientamento per la vita, per le scelte fondamentali, per le relazioni umane e sociali. Dobbiamo però fare subito una precisazione: quando osserviamo la cultura in cui siamo immersi, i suoi linguaggi e i suoi simboli, occorre stare attenti a non restare prigionieri del pessimismo e del risentimento, lasciandoci andare a giudizi negativi o a inutili nostalgie. Ci sono infatti due sguardi possibili nei confronti del mondo in cui viviamo: uno lo chiamerei “sguardo negativo”; l’altro “sguardo che discerne”.

Il primo, lo sguardo negativo, nasce spesso da una fede che, sentendosi attaccata, si concepisce come una specie di “armatura” per difendersi dal mondo. Con amarezza accusa la realtà dicendo: “il mondo è cattivo, regna il peccato”, e rischia così di rivestirsi di uno “spirito da crociata”. Stiamo attenti a questo, perché non è cristiano; non è infatti il modo di fare di Dio, il quale – ci ricorda il Vangelo – «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Il Signore, che detesta la mondanità e ha uno sguardo buono sul mondo. Egli benedice la nostra vita, dice bene di noi e della nostra realtà, si incarna nelle situazioni della storia non per condannare, ma per far germogliare il seme del Regno proprio là dove sembrano trionfare le tenebre. Se ci fermiamo a uno sguardo negativo, invece, finiremo per negare l’incarnazione, perché fuggiremo la realtà, anziché incarnarci in essa. Ci chiuderemo in noi stessi, piangeremo sulle nostre perdite, ci lamenteremo continuamente e cadremo nella tristezza e nel pessimismo: tristezza e pessimismo non vengono mai da Dio. Siamo chiamati, invece, ad avere uno sguardo simile a quello di Dio, che sa distinguere il bene ed è ostinato nel cercarlo, nel vederlo e nell’alimentarlo. Non è uno sguardo ingenuo, ma uno sguardo che discerne la realtà.

Per affinare il nostro discernimento sul mondo secolarizzato, lasciamoci ispirare da quanto scrisse San Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, Esortazione apostolica ancora oggi pienamente attuale: per lui la secolarizzazione è «lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede o con la religione» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 55), di scoprire le leggi della realtà e della stessa vita umana poste dal Creatore. Infatti, Dio non ci vuole schiavi, ma figli, non vuole decidere al posto nostro, né opprimerci con un potere sacrale in un mondo governato da leggi religiose. No, Egli ci ha creati liberi e ci chiede di essere persone adulte, persone responsabili nella vita e nella società. Altra cosa – distingueva San Paolo VI – è il secolarismo, una concezione di vita che separa totalmente dal legame con il Creatore, cosicché Dio diventa «superfluo e ingombrante» e si generano «nuove forme di ateismo» subdole e svariate: «la civiltà dei consumi, l’edonismo elevato a valore supremo, la volontà di potere e di dominio, discriminazioni di ogni tipo» (ibid.). Ecco, come Chiesa, soprattutto come pastori del Popolo di Dio, come pastori, come consacrate e come consacrati, come seminaristi e come operatori pastorali, sta a noi saper fare queste distinzioni, discernere. Se cediamo allo sguardo negativo e giudichiamo in modo superficiale, rischiamo di far passare un messaggio sbagliato, come se dietro alla critica sulla secolarizzazione ci fosse da parte nostra la nostalgia di un mondo sacralizzato, di una società di altri tempi nella quale la Chiesa e i suoi ministri avevano più potere e rilevanza sociale. E questa è una prospettiva sbagliata.

Invece, come nota un grande studioso di questi temi, il problema della secolarizzazione, per noi cristiani, non dev’essere la minore rilevanza sociale della Chiesa o la perdita di ricchezze materiali e privilegi; piuttosto, essa ci chiede di riflettere sui cambiamenti della società, che hanno influito sul modo in cui le persone pensano e organizzano la vita. Se ci soffermiamo su questo aspetto, ci accorgiamo che non è la fede a essere in crisi, ma certe forme e modi attraverso cui la annunciamo. E, perciò, la secolarizzazione è una sfida per la nostra immaginazione pastorale, è «l’occasione per la ricomposizione della vita spirituale in nuove forme e per nuovi modi di esistere» (C. Taylor, A Secular Age, Cambridge 2007, 437). Così lo sguardo che discerne, mentre ci fa vedere le difficoltà che abbiamo nel trasmettere la gioia della fede, allo stesso tempo ci stimola a ritrovare una nuova passione per l’evangelizzazione, a cercare nuovi linguaggi, a cambiare alcune priorità pastorali, ad andare all’essenziale.

Cari fratelli e sorelle, c’è bisogno di annunciare il Vangelo per donare agli uomini e alle donne di oggi la gioia della fede. Ma questo annuncio non si dà anzitutto a parole, bensì attraverso una testimonianza traboccante di amore gratuito, come fa Dio con noi. È un annuncio che chiede di incarnarsi in uno stile di vita personale ed ecclesiale che possa far riaccendere il desiderio del Signore, infondere speranza, trasmettere fiducia e credibilità. E su questo mi permetto, in spirito fraterno, di proporvi tre sfide, che potrete portare avanti nella preghiera e nel servizio pastorale.

La prima sfida: far conoscere Gesù. Nei deserti spirituali del nostro tempo, generati dal secolarismo e dall’indifferenza, è necessario ritornare al primo annuncio. Lo ripeto: è necessario ritornare al primo annuncio. Non possiamo presumere di comunicare la gioia della fede presentando aspetti secondari a chi non ha ancora abbracciato il Signore nella vita, oppure soltanto ripetendo alcune pratiche o replicando forme pastorali del passato. Occorre trovare vie nuove per annunciare il cuore del Vangelo a quanti non hanno ancora incontrato Cristo. Ciò presuppone una creatività pastorale per raggiungere le persone là dove vivono, non aspettando che siano loro a venire: là dove vivono, trovando occasioni di ascolto, di dialogo e di incontro. Occorre ritornare all’essenzialità, occorre ritornare all’entusiasmo degli Atti degli Apostoli, alla bellezza di sentirci strumenti della fecondità dello Spirito oggi. Occorre tornare in Galilea. È l’appuntamento con Gesù Risorto: tornare in Galilea per – permettetemi l’espressione – ricominciare dopo il fallimento. Tornare in Galilea. E ognuno di noi ha la propria “Galilea”, quella del primo annuncio. Recuperare questa memoria.

Per annunciare il Vangelo, però, bisogna anche essere credibili. Ed ecco la seconda sfida: la testimonianza. Il Vangelo si annuncia in modo efficace quando è la vita a parlare, a rivelare quella libertà che fa liberi gli altri, quella compassione che non chiede nulla in cambio, quella misericordia che senza parole parla di Cristo. La Chiesa in Canada ha iniziato un percorso nuovo, dopo essere stata ferita e sconvolta dal male perpetrato da alcuni suoi figli. Penso in particolare agli abusi sessuali commessi contro minori e persone vulnerabili, scandali che richiedono azioni forti e una lotta irreversibile. Io vorrei, insieme a voi, chiedere ancora perdono a tutte le vittime. Il dolore e la vergogna che proviamo deve diventare occasione di conversione: mai più! E, pensando al cammino di guarigione e riconciliazione con i fratelli e le sorelle indigeni, mai più la comunità cristiana si lasci contaminare dall’idea che esista una superiorità di una cultura rispetto ad altre e che sia legittimo usare mezzi di coercizione nei riguardi degli altri. Recuperiamo l’ardore missionario del vostro primo Vescovo, Saint François de Laval, che si scagliò contro tutti coloro che degradavano gli indigeni inducendoli a consumare bevande per truffarli. Non permettiamo che alcuna ideologia alieni e confonda gli stili e le forme di vita dei nostri popoli per cercare di piegarli e di dominarli. Che i nuovi progressi dell’umanità siano assimilabili nelle loro identità culturali con le chiavi della cultura.

Ma per sconfiggere questa cultura dell’esclusione occorre che iniziamo noi: i pastori, che non si sentano superiori ai fratelli e alle sorelle del Popolo di Dio; che i consacrati vivano la fraternità e la libertà nell’obbedienza nella comunità; che i seminaristi siano pronti a essere servitori docili e disponibili e che gli operatori pastorali non intendano il loro servizio come potere. Si inizia da qui. Voi siete i protagonisti e i costruttori di una Chiesa diversa: umile, mite, misericordiosa, una Chiesa che accompagna i processi, che lavora decisamente e serenamente all’inculturazione, che valorizza ognuno e ogni diversità culturale e religiosa. Offriamo questa testimonianza!

Infine, la terza sfida: la fraternità. La prima, far conoscere Gesù; la seconda, la testimonianza; la terza, la fraternità. La Chiesa sarà credibile testimone del Vangelo quanto più i suoi membri vivranno la comunione, creando occasioni e spazi perché chiunque si avvicini alla fede trovi una comunità ospitale, che sa ascoltare, che sa entrare in dialogo, che promuove una qualità buona delle relazioni. Così diceva il vostro santo Vescovo ai missionari: «Spesso una parola amara, un’impazienza, un volto che respinge distruggeranno in un momento ciò che è stato costruito in molto tempo» (Istruzioni ai missionari, 1668).

Si tratta di vivere una comunità cristiana che così diventa scuola di umanità, dove si impara a volersi bene come fratelli e sorelle, disposti a lavorare insieme per il bene comune. Al cuore dell’annuncio evangelico, infatti, c’è l’amore di Dio, che trasforma e rende capaci di comunione con tutti e di servizio verso tutti. Un teologo di questa terra ha scritto: «L’amore che Dio ci dona trabocca in amore … È un amore che spinge il buon samaritano a fermarsi e prendersi cura del viandante assalito dai ladri. È un amore che non ha frontiere, che cerca il regno di Dio … e questo regno è universale» (B. Lonergan, “The Future of Christianity”, in A Second Collection: Papers by Bernard F.J. Lonergan S.J., London 1974, 154). La Chiesa è chiamata a incarnare questo amore senza frontiere, per costruire il sogno che Dio ha per l’umanità: essere fratelli tutti. Chiediamoci: come va la fraternità tra di noi? I Vescovi tra loro e con i preti, i preti tra loro e con il Popolo di Dio: siamo fratelli o concorrenti divisi in partiti? E come sono le nostre relazioni con chi non è “dei nostri”, con chi non crede, con chi ha tradizioni e usi diversi? Questa è la via: promuovere relazioni di fraternità con tutti, con i fratelli e le sorelle indigeni, con ogni sorella e fratello che incontriamo, perché nel volto di ognuno si riflette la presenza di Dio.

Queste, cari fratelli e sorelle, sono soltanto alcune sfide. Non dimentichiamo che possiamo portarle avanti solo con la forza dello Spirito, che sempre dobbiamo invocare nella preghiera. Non lasciamo invece entrare in noi lo spirito del secolarismo, pensando di poter creare progetti che funzionano da soli e con le sole forze umane, senza Dio. È un’idolatria, questa, idolatria dei progetti senza Dio. E, mi raccomando, non chiudiamoci nell’“indietrismo” ma andiamo avanti, con gioia!

Mettiamo in pratica queste parole che rivolgiamo a Saint François de Laval:

Sei stato l’uomo della condivisione, visitando i malati,
vestendo i poveri, lottando per la dignità delle popolazioni originarie,
sostenendo i missionari sfiniti,
sempre pronto a tendere la mano a chi stava peggio di te.
Quante volte i tuoi progetti sono stati abbattuti!
Ogni volta tu li hai rimessi in piedi.
Avevi capito che l’opera di Dio non è di pietra
e che in questa terra di scoraggiamento
c’era bisogno di un costruttore di speranza.

Vi ringrazio per tutto quello che fate e vi benedico di cuore. E per favore, continuate a pregare per me.


Venerdì 29 luglio

Incontro con una Delegazione di Indigeni presenti in Québec

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi saluto cordialmente e vi ringrazio per essere venuti qui da diversi luoghi. La vastità di questa terra fa pensare alla lunghezza del percorso di guarigione e riconciliazione che stiamo affrontando insieme. In effetti, la frase che ci ha accompagnato da marzo, da quando i delegati indigeni mi hanno fatto visita a Roma, e che caratterizza la mia visita qui tra di voi, è Camminare Insieme: Walking Together / Marcher Ensemble.

Sono venuto in Canada come amico per incontrarvi, per vedere, ascoltare, imparare, apprezzare come vivono le popolazioni indigene di questo Paese. Non sono venuto come turista, sono venuto come fratello, a scoprire in prima persona i frutti buoni e cattivi prodotti dai membri della famiglia cattolica locale nel corso degli anni. Sono venuto in spirito penitenziale, per esprimervi il dolore che portiamo nel cuore come Chiesa per il male che non pochi cattolici vi hanno arrecato appoggiando politiche oppressive e ingiuste nei vostri riguardi. Sono venuto come pellegrino, con le mie limitate possibilità fisiche, per muovere ulteriori passi in avanti con voi e per voi: perché si prosegua nella ricerca della verità, perché si progredisca nel promuovere percorsi di guarigione e di riconciliazione, perché si vada avanti a seminare speranza per le future generazioni di indigeni e di non indigeni, che desiderano vivere insieme fraternamente, in armonia.

Ma vorrei dirvi, ormai prossimo alla conclusione di questo intenso pellegrinaggio, che, se sono venuto animato da questi desideri, ritorno a casa molto più arricchito, perché porto nel cuore il tesoro impareggiabile fatto di persone e di popolazioni che mi hanno segnato; di volti, sorrisi e parole che rimangono dentro; di storie e luoghi che non potrò dimenticare; di suoni, colori ed emozioni che vibrano fortemente in me. Davvero posso dire che, mentre vi ho fatto visita, sono state le vostre realtà, le realtà indigene di questa terra, a visitare il mio animo: mi sono entrate dentro e mi accompagneranno sempre. Oso dire, se me lo permettete, che ora, in un certo senso, mi sento anch’io parte della vostra famiglia, e ne sono onorato. Il ricordo della festa di Sant’Anna, vissuta insieme a diverse generazioni e a tante famiglie indigene, rimarrà indelebile nel mio cuore. In un mondo purtroppo così spesso individualista, quanto è prezioso quel senso di familiarità e di comunità che presso di voi è tanto genuino! E quanto è importante coltivare bene il legame tra i giovani e gli anziani, e custodire un rapporto sano e armonioso con l’intero creato!

Cari amici, vorrei affidare al Signore quanto abbiamo vissuto in questi giorni e il prosieguo del cammino che ci attende; e affidarli anche alla cura premurosa di chi sa custodire ciò che nella vita conta: penso alle donne, e a tre donne in particolare. Anzitutto a Sant’Anna, di cui ho potuto avvertire la tenerezza e la protezione, venerandola insieme a un popolo di Dio che riconosce e onora le nonne. In secondo luogo penso alla Santa Madre di Dio: nessuna creatura merita più di lei di essere definita pellegrina, perché sempre, anche oggi, anche ora, è in cammino: in cammino tra Cielo e terra, per prendersi cura di noi per conto di Dio e per condurci per mano a suo Figlio. E infine, la mia preghiera e il mio pensiero sono andati spesso in questi giorni a una terza donna dalla presenza mite che ci ha accompagnati, e i cui resti sono conservati non lontano da qui: mi riferisco a santa Kateri Tekakwitha. La veneriamo per la sua vita santa, ma non potremmo pensare che la sua santità di vita, connotata da una dedizione esemplare nella preghiera e nel lavoro, nonché dalla capacità di sopportare con pazienza e dolcezza tante prove, sia stata resa possibile anche da certi tratti nobili e virtuosi ereditati dalla sua comunità e dall’ambiente indigeno in cui crebbe?

Queste donne possono aiutare a mettere insieme, a tornare a tessere una riconciliazione che garantisca i diritti dei più vulnerabili e sappia guardare la storia senza rancori né dimenticanze. Due di loro, la Santissima Vergine Maria e Santa Kateri, hanno ricevuto da Dio un progetto di vita e, senza domandare ad alcun uomo, hanno detto “sì” con coraggio. Queste donne avrebbero potuto rispondere male a tutti coloro che si opponevano a quel progetto, oppure rimanere soggette alle norme patriarcali del tempo e rassegnarsi, senza lottare per i sogni che Dio stesso aveva impresso nelle loro anime. Non fecero questa scelta, ma con mansuetudine e fermezza, con parole profetiche e gesti decisi si aprirono la strada e adempirono ciò a cui erano state chiamate. Che esse benedicano il nostro cammino comune, intercedano per noi, per questa grande opera di guarigione e riconciliazione tanto gradita a Dio. Io vi benedico di cuore. E vi chiedo, per favore, di continuare a pregare per me.

Incontro con i giovani e con gli anziani

Cari fratelli e sorelle, buonasera!

Saluto cordialmente la Signora Governatore Generale e tutti voi, felice di incontrarvi. Vi ringrazio per le vostre parole, così come per i canti, le danze e le musiche, che ho tanto apprezzato!

Poco fa ho ascoltato diversi di voi, ex-alunni delle scuole residenziali: grazie per quanto avete avuto il coraggio di dire, condividendo grandi sofferenze, che non avrei immaginato. Ciò ha ridestato in me l’indignazione e la vergogna che mi accompagnano da mesi. Anche oggi, anche qui, vorrei dirvi che sono molto addolorato e desidero chiedere perdono per il male commesso da non pochi cattolici nelle scuole che hanno contribuito alle politiche di assimilazione culturale e di affrancamento. Mamianak (?). Mi è tornata alla mente la testimonianza di un anziano, il quale descriveva la bellezza del clima che regnava nelle famiglie indigene prima dell’avvento del sistema delle scuole residenziali. Paragonava quella stagione, in cui nonni, genitori e figli stavano armoniosamente insieme, alla primavera, quando gli uccellini cantano felici attorno alla mamma. Ma all’improvviso – diceva – il canto si è fermato: le famiglie sono state disgregate, i piccoli portati via, lontani dal loro ambiente; su tutto è calato l’inverno.

Tali parole, mentre provocano dolore, suscitano anche scandalo; ancora di più se le confrontiamo con la Parola di Dio, il quale comandò: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Es 20,12). Questa possibilità non c’è stata per tante vostre famiglie, è venuta meno quando i figli sono stati separati dai genitori e il proprio Paese è stato avvertito come pericoloso ed estraneo. Quelle assimilazioni forzate rievocano un’altra pagina biblica, il racconto del giusto Nabot (cfr 1 Re, 21), che non voleva cedere la vigna ereditata dai suoi padri a chi, governando, era disposto a usare ogni mezzo pur di strappargliela. E vengono pure alla mente quelle parole forti di Gesù contro chi scandalizza i piccoli e disprezza uno solo di loro (cfr Mt 18,6.10). Quanto male nello spezzare i legami tra genitori e figli, nel ferire gli affetti più cari, nel danneggiare e scandalizzare i piccoli!

Cari amici, siamo qui con la volontà di percorrere insieme un tragitto di guarigione e di riconciliazione che, con l’aiuto del Creatore, ci aiuti a fare luce sull’accaduto e a superare il passato oscuro. A proposito di sconfiggere l’oscurità, anche ora, come nel nostro incontro di fine marzo, avete acceso il qulliq. Esso, oltre a dare luce durante le lunghe notti invernali, permetteva, diffondendo calore, di resistere al rigore del clima: era dunque essenziale per vivere. Anche oggi permane un bellissimo simbolo di vita, di un vivere luminoso che non si arrende alle oscurità della notte. Così siete voi, testimonianza perenne della vita che non si spegne, di una luce che risplende e che nessuno è riuscito a soffocare.

Sono colmo di gratitudine per l’opportunità di essere qui nel Nunavut, all’interno dell’Inuit Nunangat. Ho provato a immaginare, dopo il nostro incontro a Roma, questi luoghi vasti che abitate da tempi immemorabili e che per altri sarebbero ostili. Voi avete saputo amarli, rispettarli, custodirli e valorizzarli, tramandando di generazione in generazione valori fondamentali, quali il rispetto per gli anziani, un genuino senso di fraternità e la cura per l’ambiente. C’è una bella e armoniosa corrispondenza tra voi e la terra che abitate, perché anch’essa è forte e resiliente, e risponde con tanta luce al buio che per gran parte dell’anno la avvolge. Ma pure questa terra, come ogni persona e popolazione, è delicata e occorre prendersene cura. Prendersi cura, tramandare la cura: a questo in particolare sono chiamati i giovani, sostenuti dall’esempio degli anziani! Cura per la terra, cura per le persone, cura per la storia.

Vorrei allora rivolgermi a te, giovane Inuit, futuro di questa terra e presente della sua storia. Vorrei dirti, citando un grande poeta: «Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero» (J.W. von Goethe, Faust, I, Nacht). Non basta vivere di rendita, occorre riconquistare quanto si è ricevuto in dono. Non temere, dunque, di ascoltare e riascoltare i consigli dei più anziani, di abbracciare la tua storia per scriverne pagine nuove, di appassionarti, di prendere posizione davanti ai fatti e alle persone, di metterti in gioco! E per aiutarti a far risplendere la lampada della tua esistenza, vorrei darti anch’io, come fratello anziano, tre consigli.

Il primo: cammina verso l’alto. Abiti queste vaste regioni del nord. Che esse ti ricordino la tua vocazione a tendere verso l’alto, senza lasciarti trascinare in basso da chi vuol farti credere che sia meglio pensare solo a te stesso e usare il tempo che hai unicamente per il tuo svago e i tuoi interessi. Amico, non sei fatto per vivacchiare, per passare le giornate bilanciando doveri e piaceri, sei fatto per librarti verso l’alto, verso i desideri più veri e belli che porti nel cuore, verso Dio da amare e il prossimo da servire. Non pensare che i grandi sogni della vita siano cieli irraggiungibili. Sei fatto per spiccare il volo, per abbracciare il coraggio della verità e promuovere la bellezza della giustizia, per “elevare la tua tempra morale, essere compassionevole, servire gli altri e costruire relazioni” (cfr Inunnguiniq Iq Principles 3-4), per seminare pace e cura dove ti trovi; per accendere l’entusiasmo di chi ti vive accanto; per andare oltre, non per livellare tutto quanto.

Ma – potresti dirmi – vivere così è più arduo che volare. Certo, non è facile, perché è sempre in agguato quella “forza di gravità spirituale” che spinge per trascinarci in basso, paralizzare i desideri, affievolire la gioia. Allora, pensa alla rondine dell’artico che noi chiamiamo “charrán”: essa non lascia che i venti contrari o gli sbalzi di temperatura le impediscano di andare da un’estremità all’altra della terra; a volte sceglie vie che non sono dirette, accetta deviazioni, si adatta a certi venti… ma sempre mantiene chiara la meta, sempre va verso la destinazione. Incontrerai gente che proverà ad azzerare i tuoi sogni, che ti dirà di accontentarti di poco, di lottare solo per quel che ti conviene. Allora ti chiederai: perché devo darmi da fare per quello in cui gli altri non credono? E ancora: come posso decollare all’interno di un mondo che sembra scendere sempre più in basso tra scandali, guerre, imbrogli, mancanza di giustizia, distruzione dell’ambiente, indifferenza nei riguardi dei più deboli, delusioni da parte di chi dovrebbe dare l’esempio? Di fronte a queste domande, qual è la risposta?

Vorrei dire a te, giovane, a te, fratello, sorella giovane: tu sei la risposta. Tu, fratello, tu, sorella. Non solo perché se ti arrendi hai già perso in partenza, ma perché il futuro è nelle tue mani. Sono nelle tue mani la comunità che ti ha generato, l’ambiente in cui vivi, la speranza dei tuoi coetanei, di chi, anche senza chiedertelo, attende da te il bene originale e irripetibile che puoi immettere nella storia, perché “ciascuno di noi è unico” (cfr Principle 5). Il mondo che abiti è la ricchezza che hai ereditato: amalo, come ti ha amato chi ti ha dato la vita e le gioie più grandi, come ti ama Dio, che per te ha creato ciò che di bello esiste e non smette di fidarsi di te nemmeno per un brevissimo istante. Egli crede nei talenti che ti ha dato. Ogni volta che lo cerchi comprenderai come la via che ti chiama a percorrere tende sempre verso l’alto. Lo avvertirai quando guarderai il cielo pregando e soprattutto quando alzerai lo sguardo al Crocifisso. Capirai che Gesù dalla croce non ti punta mai il dito contro, ma ti abbraccia e ti incoraggia, perché crede in te anche quando tu hai smesso di credere in te stesso. Allora non perdere mai la speranza, lotta, metticela tutta e non te ne pentirai. Vai avanti nel cammino, “passo dopo passo verso il meglio” (cfr Principle 6). Imposta il navigatore della tua esistenza verso una meta grande, verso l’alto!

Il secondo consiglio: vieni alla luce. Nei momenti di tristezza e sconforto, pensa al qulliq: contiene un messaggio per te. Quale? Che esisti per venire alla luce ogni giorno. Non solo il giorno della tua nascita, quando non dipese da te, ma ogni giorno. Quotidianamente sei chiamato a portare nel mondo una luce nuova, quella dei tuoi occhi, del tuo sorriso, del bene che tu e solo tu puoi aggiungervi. Nessun altro può farlo. Ma, per venire alla luce, c’è da lottare ogni giorno con l’oscurità. Sì, c’è uno scontro quotidiano tra luce e tenebre, che non avviene là fuori da qualche parte, ma dentro ciascuno di noi. La via della luce domanda scelte di cuore coraggiose contro il buio delle falsità, chiede di “sviluppare buone abitudini per vivere bene” (cfr Principle 1), di non inseguire scie luminose che spariscono in fretta, fuochi d’artificio che lasciano solo fumo. Sono «illusioni, parodie della felicità», come disse qui in Canada San Giovanni Paolo II: «Non vi è forse tenebra più fitta di quella che si insinua nell’animo dei giovani quando falsi profeti estinguono in essi la luce della fede, della speranza, dell’amore» (Omelia nella XVII Giornata Mondiale della Gioventù, Toronto, 28 luglio 2002). Fratello, sorella, Gesù ti è vicino e desidera illuminare il tuo cuore per farti venire alla luce. Lui ha detto: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12), ma ha anche detto ai suoi discepoli: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14). Anche tu, dunque, sei luce del mondo e lo diventerai sempre di più, se lotti per allontanare dal cuore il triste buio del male.

Per imparare a farlo, c’è da apprendere un’arte continua, che richiede di “superare le difficoltà e le contraddizioni attraverso una continua ricerca di soluzioni” (cfr Principle 2). È l’arte di separare ogni giorno la luce dalle tenebre. Per creare un mondo buono, dice la Bibbia, Dio cominciò proprio così, separando la luce dalle tenebre (cfr Gen 1,4). Anche noi, se vogliamo diventare migliori, dobbiamo imparare a distinguere la luce dalle tenebre. Da dove si comincia? Puoi iniziare chiedendoti: che cosa mi appare luccicante e seducente, ma poi mi lascia dentro un grande vuoto? Questo è tenebra! Che cosa, invece, mi fa bene e mi lascia pace nel cuore, anche se prima mi chiede di uscire da certe comodità e dominare certi istinti? Questo è luce! E – mi domando ancora – qual è la forza che ci permette di separare dentro di noi la luce dalle tenebre, che ci fa dire “no” alle tentazioni del male e “sì” alle occasioni di bene? È la libertà. Libertà che non è fare tutto quello che mi pare e mi piace; non è quello che posso fare nonostante gli altri, ma per gli altri; non è totale arbitrio, ma responsabilità. La libertà è il dono più grande che il nostro Padre nei cieli ci ha dato insieme alla vita.

Infine, il terzo consiglio: fai squadra. I giovani fanno grandi cose insieme, non da soli. Perché voi giovani siete come le stelle del cielo, che qui brillano in modo stupendo: la loro bellezza nasce dall’insieme, dalle costellazioni che compongono, e che danno luce e orientamento alle notti del mondo. Anche voi, chiamati alle altezze del cielo e a splendere in terra, siete fatti per brillare insieme. Bisogna permettere ai giovani di fare gruppo, di stare in movimento: non possono passare le giornate isolati, tenuti in ostaggio da un telefono! I grandi ghiacci di queste terre mi fanno venire in mente lo sport nazionale del Canada, l’hockey su ghiaccio. Come riesce il Canada a conquistare tutte quelle medaglie olimpiche? Come hanno fatto Sarah Nurse o Marie-Philip Poulin a segnare tutti quei gol? L’hockey coniuga bene disciplina e creatività, tattica e fisicità; ma a fare la differenza è sempre lo spirito di squadra, presupposto indispensabile per affrontare le imprevedibili circostanze di gioco. Fare squadra significa credere che per raggiungere grandi obiettivi non si può andare avanti da soli; occorre muoversi insieme, avere la pazienza di intessere fitte reti di passaggi. Significa pure lasciare spazio agli altri, uscire velocemente quand’è il proprio turno e fare il tifo per i compagni. Ecco lo spirito di squadra!

Amici, camminate verso l’alto, venite alla luce ogni giorno, fate squadra! E fate tutto questo nella vostra cultura, nel bellissimo linguaggio Inuktitut. Vi auguro, ascoltando gli anziani e attingendo alla ricchezza delle vostre tradizioni e della vostra libertà, di abbracciare il Vangelo custodito e tramandato dai vostri antenati e di incontrare il volto Inuk di Gesù Cristo. Io vi benedico di cuore e vi dico: qujannamiik! [grazie!]


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