Creati a immagine e somiglianza di Dio, l’uomo e la donna sono chiamati a collaborare liberamente al disegno del Creatore. Questa libertà, tuttavia, fu messa alla prova fin dall’inizio e cedette all’orgoglio e all’egoismo. Da allora, continua a infrangersi a causa del peccato lungo il corso della storia. Ciò che il peccato divide, degrada e ferisce, ha bisogno di essere riconciliato, elevato e sanato. Il mistero dell’umanità del Verbo, che era presente fin dall’origine stessa del piano creatore di Dio, ci viene incontro nella storia della salvezza come dono di misericordia e mistero di morte e risurrezione.
Il lavoro umano partecipa delle due dimensioni dell’unico piano salvifico di Dio. L’articolo precedente metteva in risalto la prima: attraverso il proprio lavoro, l’essere umano coopera al disegno divino di condurre la creazione alla sua pienezza. La triste esperienza del peccato e le ferite inflitte alla nostra condizione umana ci invitano ora a considerare la seconda dimensione: come il lavoro possa integrarsi nel piano di salvezza.
Attività redenta e redentrice
Il Figlio di Dio, facendosi uomo, redense tutto ciò che assunse (cfr. Leone I, Lettera a Flaviano, DH 293). Volle condividere l’esperienza del lavoro e della vita ordinaria, facendo sì che l’agire umano non solo collaborasse al disegno creatore di Dio, ma partecipasse anche all’opera della redenzione. Infatti, poiché si tratta di un unico progetto che tende a una creazione rinnovata, con la libertà redenta da Cristo, l’uomo e la donna conducono la creazione verso una pienezza che comporta anche il riconciliare ciò che è diviso, il riordinare ciò che è disperso, il curare ciò che è ferito. Le conseguenze del peccato sul lavoro umano, infatti, non si limitano alla fatica e al sudore (cfr. Gen 3,17-19); il peccato può anche deformare il senso del lavoro, trasformandolo in strumento di egoismo e di orgoglio, di sfruttamento e di violenza. Tuttavia, poiché il lavoro è stato assunto e redento da Gesù Cristo, possiamo parlare anche qui, come canta la Chiesa nel Preconio pasquale, di una felix culpa: la capacità di partecipare all’opera della salvezza conferisce al lavoro umano una dignità e un valore ancora maggiori.
La costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II osserva con realismo che l’attività umana, costantemente minacciata dall’orgoglio e dall’amor proprio disordinato, ha bisogno di essere purificata e sanata dalla croce e dalla risurrezione di Gesù Cristo (cfr. n. 37). Subito dopo, il documento dedica un ampio e profondo sviluppo a mostrare come l’attività umana si elevi e si perfezioni nel mistero pasquale. A partire dall’esempio della vita di Gesù, comprendiamo che la carità, che conduce gli esseri umani alla santità, è anche la legge fondamentale della trasformazione del mondo (cfr. n. 38). Il lavoro redento, in quanto lavoro in Cristo, animato dal servizio e dalla carità, diventa allora capace di rinnovare il mondo per offrirlo a Dio purificato e sanato. Il Concilio, inoltre, sottolinea il valore delle piccole cose fatte per amore: la legge dell’amore, che costruisce la fraternità e trasforma gli ambienti, le relazioni e il lavoro, «non va ricercata unicamente negli avvenimenti importanti, ma, prima di tutto, nella vita ordinaria» (Ibidem).
La predicazione di san Josemaría sul lavoro, iniziata già prima del Concilio, si colloca in questa stessa prospettiva. È la carità di Gesù Cristo e la grazia del suo mistero pasquale a conferire al lavoro un valore salvifico, trasformandolo in opera di Dio. È l’amore che salva, che dà grandezza a ciò che sembra piccolo:
«[Il Lavoro umano], anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali — manifestando la loro dimensione divina — e viene assunto e incorporato nell'opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo. In tal modo il lavoro viene elevato all'ordine della grazia e si santifica: diventa opera di Dio, operatio Dei, opus De» (Colloqui, n. 10).
In un testo pubblicato in Forgia, il fondatore dell’Opera definiva il lavoro come attività redenta e redentrice:
«Le attività professionali — anche il lavoro domestico è una professione di prim'ordine — sono testimonianze della dignità della creatura umana; occasioni di sviluppo della personalità; vincoli di unione con gli altri; fonti di risorse; mezzi per contribuire al miglioramento della società in cui viviamo, e per promuovere il progresso dell'umanità tutta… — Per un cristiano, queste prospettive si allungano e si allargano ancora di più, perché il lavoro — assunto da Cristo come realtà redenta e redentrice — si trasforma in mezzo e cammino di santità, in concreta occupazione santificabile e santificatrice» (Forgia, n. 702).
Un’opera divina
Quando parlava della missione dell’Opus Dei e di ciò che la vocazione a questo cammino ecclesiale comportava, san Josemaría presentava il lavoro umano come un’opera divina: un’attività che non si limita al solo piano della natura, ma che coinvolge anche quello della grazia. La vocazione all’Opus Dei, pertanto, è una chiamata a divinizzare le attività terrene, ad aprire le vie divine della terra, a trasformare in oro, come il re Mida, ciò che sembra fatto di un materiale meno nobile o prezioso (cfr. Amici di Dio, n. 308). Ma è evidente che non è l’uomo a divinizzare l’umano: è Dio stesso, con la sua grazia, a rendere redentrice la nostra azione. Da qui la necessità di lavorare in Cristo, come figli di Dio, partecipando alla missione del Verbo incarnato nella storia. Così si rivolgeva san Josemaría ai suoi figli e figlie spirituali:
«Nel lavorare non compite un’operazione meramente umana perché lo spirito dell’Opus Dei è che la trasformiate in opera divina. Con la grazia di Dio, date al vostro lavoro professionale in mezzo al mondo il suo significato più profondo e pieno, orientandolo alla salvezza delle anime, mettendolo in relazione con la missione redentrice di Cristo.» (Lettera 14, n. 20. Traduzione nostra)
Una parte importante della luce fondazionale che san Josemaría ricevette – e che trasmise a coloro che lo seguirono – fu la convinzione che un gran numero di uomini e donne siano chiamati, in virtù del loro Battesimo, a santificarsi senza abbandonare i luoghi e i contesti abituali della loro vita. La loro missione consiste nell’elevare le attività ordinarie all’ordine della grazia:
«Il Signore non ci ha creato per darci quaggiù una città definitiva (cfr Eb 13, 14), perché questo mondo è la via all'altro, alla dimora senza dolore (JORGE MANRIQUE, Coplas, V). Tuttavia, noi figli di Dio non dobbiamo disinteressarci delle attività terrene, nelle quali Dio ci colloca perché le santifichiamo, perché le impregniamo della nostra fede benedetta, l'unica che porta vera pace, autentica allegria alle anime e a tutti gli ambienti. Questa è stata la mia costante predicazione fin dal 1928: urge cristianizzare la società, portare a tutti i livelli della nostra umanità il senso soprannaturale, e poi impegnarci insieme a elevare all'ordine della grazia il dovere quotidiano, la propria professione, il proprio mestiere. Così, tutte le occupazioni umane saranno illuminate da una speranza nuova, che trascende il tempo e la caducità mondana» (Amici di Dio, n. 210)
Riconciliare il mondo con Dio
Come si deduce dagli scritti del fondatore dell’Opus Dei, il lavoro e le attività secolari dei cristiani sono mezzi attraverso i quali la redenzione si estende a tutto il mondo. Per loro tramite, la grazia raggiunge le pieghe più nascoste delle attività umane, anche quelle realtà che spesso tendiamo a considerare come meramente profane:
«Cristianizzare dal di dentro il mondo intero, dimostrando che Gesù ha redento tutta l'umanità: ecco la missione del cristiano» (Colloqui, n. 112)
«Cristo è asceso al Cielo, ma ha concesso a tutte le realtà umane oneste la possibilità concreta di essere redente» (È Gesù che passa, n. 120)
«Come uomo, il cristiano ha pieno diritto di cittadinanza nel mondo. Se poi accetta che Cristo viva e regni nel suo cuore, l'efficacia salvifica del Signore si manifesterà in tutte le sue opere: poco importa che esse siano rilevanti o modeste, perché agli occhi di Dio una vetta umana può essere bassezza, e quel che chiamiamo umile o modesto può essere un vertice cristiano di santità e di servizio» (È Gesù che passa, n. 183)
Affermare che il lavoro partecipa all’opera della redenzione equivale a dire che gli uomini e le donne che lavorano cooperano, in Cristo, alla salvezza del mondo. Attraverso il lavoro ben fatto, svolto con spirito di servizio e per amore del prossimo, ogni battezzato contribuisce a guarire le ferite del peccato, a rendere più umana la società e a restituire alla creazione la sua bellezza originaria. Questa idea ricorre spesso negli scritti di san Josemaría, dove i verbi “riconciliare” e “riordinare” sono impiegati di frequente come sinonimi del verbo “redimere”, spesso nel contesto dell’instaurazione del Regno di Cristo:
«Il Signore ci chiama ad avvicinarci a Lui con il desiderio di essere come Lui: Fatevi imitatori di Dio, quali figli suoi carissimi (Ef 5, 1), collaborando umilmente ma con fervore al divino proposito di unire ciò che è diviso, di salvare ciò che è perduto, di ordinare ciò che il peccato dell'uomo ha sconvolto, di ricondurre al suo fine ciò che se ne è allontanato, di ristabilire la divina concordia di tutto il creato» (È Gesù che passa, n. 65).
«Cristo, Nostro Signore, fu crocifisso, e dall'alto della croce ha redento il mondo, ristabilendo la pace tra Dio e gli uomini. Gesù stesso ricorda a tutti: Et ego si exaltatus fuero a terra omnia traham ad meipsum (Gv 12, 32), quando mi collocherete al vertice di tutte le attività della terra, compiendo il dovere di ogni momento ed essendo miei testimoni nelle cose grandi e piccole, allora omnia traham ad meipsum, attrarrò tutto a me, e il mio regno in mezzo a voi sarà una realtà» (È Gesù che passa, n. 183).
Gli insegnamenti del fondatore dell’Opus Dei sul valore redentore del lavoro si inseriscono con naturalezza in due grandi prospettive teologiche che il Magistero della Chiesa e la liturgia hanno accolto ed esplicitato: il popolo cristiano, in virtù del Battesimo, è un popolo sacerdotale; e il lavoro umano possiede una dimensione eucaristica.
Lavorare con animo sacerdotale
La partecipazione dei fedeli cristiani all’opera della redenzione si realizza attraverso il sacerdozio comune, che tutti ricevono con il Battesimo. Nel Nuovo Testamento, san Pietro e san Paolo parlano di un culto spirituale che i credenti rendono a Dio con tutta la loro vita (cfr. 1Pt 2,5; Rm 12,1). Nel secondo capitolo della Lumen gentium, i padri conciliari scelsero di parlare del popolo di Dio come di un popolo sacerdotale, attualizzando così la dottrina del sacerdozio comune dei fedeli: «Infatti per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all'ammirabile sua luce» (Lumen gentium, n. 2).
Nella consacrazione di un altare nel 1975, san Josemaría affermò che lo stesso corpo dei cristiani e le attività che ciascuno di essi svolge diventano un altare:
«Tutte le volte che consacro un altare cerco di trarne conseguenze personali. Ricordatevi come si consacra a Dio un altare.In primo luogo lo si unge. Anche voi e io, quando siamo diventati cristiani, siamo stati unti con l’olio santo sul petto e sulle spalle. Ci hanno unto anche il giorno della Confermazione. A noi sacerdoti hanno unto le mani. Spero, con la grazia del Signore, che ci ungeranno nel giorno dell’Estrema Unzione, che non ci fa paura. Che gioia saperci unti, consacrati, dal giorno della nascita fino a quello della morte! Sentirsi altare di Dio,proprietà di Dio, luogo dove Dio fa il suo sacrificio, il sacrificio eterno secondo l’ordine di Melchisedek» (A. Vázquez de Prada, Il fondatore dell'Opus Dei, vol. III, Leonardo International 2004).
Per il fondatore, la santificazione del lavoro e il sacerdozio comune dei fedeli erano due dimensioni inseparabili di una stessa realtà. San Josemaría esortava spesso a vivere con animo sacerdotale, espressione che solitamente collegava alla necessità di agire con mentalità laicale. In questo modo, sottolineava che l’esercizio del sacerdozio comune non si limitava a una serie di pratiche religiose, ma si realizzava soprattutto attraverso l’impegno nelle attività temporali, proprie dei fedeli laici per la loro vocazione secolare (cfr. Lettera 25, n. 3; Lettera 10, n. 1; cfr. anche Forgia, n. 369; Colloqui, n. 117).
I cristiani manifestano il loro animo sacerdotale non solo attraverso la preghiera, le pratiche spirituali o le opere apostoliche, né unicamente offrendo con pazienza le difficoltà quotidiane. Per san Josemaría, gli ambiti privilegiati per l’esercizio del sacerdozio comune sono il lavoro e le occupazioni ordinarie, quelle che riempiono la giornata di chi vive in mezzo al mondo. Insegnava che la scrivania o il banco di lavoro sono come un altare, e aggiungeva che anche il letto coniugale degli sposi lo è, sottolineando così che il lavoro a cui si riferiva comprendeva, in senso ampio, tutta l’esistenza ordinaria e i doveri del proprio stato. Per qualsiasi cristiano, affermava, lavorare ha delle analogie con il celebrare la santa Messa: una Messa che dura tutto il giorno.
«Servirlo non solo sull’altare, ma in tutto il mondo, che per noi è un altare. Tutte le opere degli uomini si compiono come su un altare, e ciascuno di voi, in quell’unione di anime contemplative che è la vostra giornata, celebra in qualche modo la propria messa che dura ventiquattro ore, nell’attesa della messa successiva, che durerà altre ventiquattro ore, e così fino alla fine della nostra vita» (Appunti tratti da una meditazione, 19-III-1968. Citato in J. Echevarría, Vivere la Santa Messa, Rialp, Madrid 2010, p. 17. Traduzione nostra).
Tutte le attività terrene in cui i fedeli esercitano le virtù cristiane – la cura della famiglia, la testimonianza nella vita sociale, il riposo e il tempo libero vissuti con senso cristiano – confluiscono, infatti, in quella messa di cui parlava san Josemaría. Tuttavia, l’esercizio del lavoro, sia esso intellettuale o manuale, sembra occupare un posto privilegiato. In un incontro familiare in America Latina, commentava che un chirurgo, nel momento in cui indossa il camice prima di entrare in sala operatoria, può considerare quel gesto come se si rivestisse dei paramenti, allo stesso modo in cui il sacerdote si prepara a celebrare l’Eucaristia. Allo stesso modo, un piccolo crocifisso sul tavolo di studio, accanto ai libri, può ricordare che un’ora di studio, per un apostolo moderno, è un’ora di preghiera. Lo sforzo e l’impegno intellettuale, quando sono orientati al servizio degli altri e al bene comune, diventano così un’offerta gradita a Dio (cfr. Cammino, nn. 277, 302, 335).
La dimensione eucaristica del lavoro
Nella predicazione di san Josemaría sulla santificazione delle attività terrene, l’esortazione a lavorare con animo sacerdotale si collega alla prospettiva teologica che riconosce al lavoro la sua profonda dimensione eucaristica. La tradizione cristiana di tutti i tempi esprime implicitamente questa prospettiva quando parla dell’offerta del lavoro, un’abitudine profondamente radicata nella vita di molti cristiani. Il lavoro, in questo senso, è un sacrificio offerto a Dio. Ma, in cosa consiste esattamente questa offerta? Si tratta unicamente di innalzare a Dio lo sforzo e il sacrificio che il lavoro comporta, come se fosse una forma di preghiera?
In realtà, la dimensione eucaristica del lavoro va oltre le circostanze esterne – come le difficoltà – o i sentimenti interiori – come il sacrificio o lo sforzo. Il lavoro è offerta eucaristica perché trasforma la materia del mondo e la consacra a Dio. In modo analogo a come nella santa Messa il pane e il vino sono trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo, il lavoro cristiano realizza anch’esso una trasformazione: quella del mondo, rendendolo più conforme ai disegni di Dio. Lavorare cristianamente significa dare alle attività umane una nuova forma, la forma della carità di Cristo. Attraverso il lavoro, il cristiano può trasformare e, quindi, consacrare ciò che passa per le sue mani (cfr. Lumen gentium, n. 34). Così, chi lavora può portare verità dove c’è menzogna, fiducia dove c’è sfiducia, amore dove c’è inimicizia, beni dove c’è povertà, unità dove c’è divisione e guarigione dove c’è malattia, sia fisica che spirituale.
La dimensione eucaristica del lavoro si manifesta in modo particolarmente chiaro nella liturgia della santa Messa, che la Chiesa celebra seguendo fedelmente le parole e i gesti di Gesù. A differenza di quanto avveniva nell’antica alleanza, in cui sull’altare si offrivano frutti raccolti direttamente dalla terra o animali del gregge, sull’altare cristiano si presentano il pane e il vino. Questi non sono prodotti che la natura offre già compiuti, ma richiedono l’intervento del lavoro umano per essere realizzati. Così lo esprime il rito dell’offertorio nelle preghiere del messale riformato dopo il Concilio Vaticano II, descrivendo il pane e il vino come «frutto della terra e del lavoro dell’uomo» e «frutto della vite e del lavoro dell’uomo».
In modo sorprendente, il lavoro umano si trova così integrato nell’atto supremo della redenzione – il sacrificio del Calvario – che si rende presente in maniera incruenta in ogni celebrazione eucaristica. Il lavoro di un medico e di un’insegnante, di un informatico e di un’infermiera, di un operaio e di un’attrice teatrale, di un artista e di un ingegnere, di un cuoco e di un’imprenditrice, di un avvocato o di un politico, la cura che un padre e una madre di famiglia pongono nella formazione dei figli, così come tutte le altre innumerevoli attività, umili o rilevanti, che compongono l’immensa varietà delle occupazioni umane oneste, trovano tutte posto su quell’altare. Tutte possono essere offerte insieme al lavoro che ha reso possibile la preparazione del pane e del vino, partecipando così al mistero redentore di Cristo. Come ricordava san Josemaría: «Qualunque lavoro, anche il più nascosto, anche il più insignificante, offerto al Signore, ha la forza della vita di Dio!» (Forgia, n. 49).
C’è un momento particolarmente significativo nella vita del fondatore dell’Opus Dei in cui il suo insegnamento sulla dimensione eucaristica del lavoro si tradusse in un’immagine eloquente. Si tratta della celebrazione della santa Messa nel campus dell’Università di Navarra, a Pamplona, l’8 ottobre 1967:
«Pensate un momento alla cornice della nostra Eucaristia, della nostra Azione di Grazie: ci troviamo in un tempio singolare; si potrebbe dire che la navata è il campus universitario, la pala d'altare è la biblioteca dell'Università; attorno ci sono le gru per la costruzione dei nuovi edifici; e, sopra di noi, il cielo di Navarra… Non è forse vero che questo sguardo a ciò che abbiamo intorno vi conferma — con un'immagine viva e indimenticabile — che è la vita ordinaria il vero "luogo" della vostra esistenza cristiana? Figli miei, lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. È in mezzo alle cose più materiali della terra che ci dobbiamo santificare, servendo Dio e tutti gli uomini» (Colloqui, n. 113)
Dopo questa spiegazione teologica sulla partecipazione del lavoro umano all’opera della creazione e della redenzione, nei prossimi articoli riprenderemo e commenteremo altri insegnamenti di san Josemaría. Vedremo come il lavoro umano, le attività ordinarie e la vocazione all’Opus Dei si illuminino reciprocamente, delineando un modo specifico di partecipare alla missione del Verbo incarnato: come figli nel Figlio.
