Una missione in Tanzania per donare PC e amicizia

Da due anni un gruppo di volontari coordinato dal Centro ELIS parte per la Tanzania con l'obiettivo di distribuire PC negli istituti scolastici e offrire lezioni di informatica agli studenti. In questa intervista Roberto, tra gli organizzatori del progetto, ci racconta la sua esperienza.

«Il progetto in Tanzania è nato due anni fa, quando a noi del team di ELIS è stato chiesto se fosse possibile recuperare alcuni computer da donare a degli istituti africani. - racconta Roberto, risk manager e data scientist - Molto lo dobbiamo al supporto di TIM, a cui abbiamo richiesto 400 computer, sperando di riceverne anche meno di un centinaio. In realtà, ce ne sono stati donati proprio 400. A quel punto, ci siamo chiesti: “perché non portarli direttamente sul posto e organizzare una formazione?”».

Così, nel 2023, Roberto e alcuni volontari sono andati per la prima volta in Tanzania, portando una ventina di PC e avviando un primo programma di formazione in una scuola secondaria.

«Durante quella prima spedizione, eravamo un gruppo di 10 persone. - spiega Roberto - L’esperienza è stata così positiva che abbiamo deciso di ripeterla anche nel 2024, con lo stesso obiettivo: portare PC e organizzare corsi di informatica».

Lo scorso anno i PC che sono stati messi a disposizione erano 500, molti dei quali sono stati distribuiti in diversi paesi dell'Africa: «Abbiamo lasciato loro altri 50 PC, - dice Roberto - perché la scuola vorrebbe iniziare a organizzare lezioni di informatica per tutti gli studenti, anche se al momento non hanno nessun docente specializzato».

Oltre le difficoltà

«Quando siamo arrivati la prima volta, molti ragazzi non sapevano nemmeno usare il mouse o la tastiera, non conoscevano le basi dell’informatica. - racconta Roberto - D’altra parte, in Africa l’apprendimento segue un ritmo diverso. Questa è stata una delle lezioni più forti: se da noi arrivasse un americano a tenere un corso innovativo, probabilmente gli studenti starebbero incollati ad ascoltarlo dalla mattina alla sera. Lì, invece, pur essendo molto felici di imparare, hanno un ritmo di apprendimento più lento. I cambiamenti si vedono sul lungo periodo, sugli anni, non nelle due settimane di permanenza».

«Ulteriori difficoltà le abbiamo riscontrate durante il viaggio, che è stato lunghissimo: in totale ci sono voluti sei giorni.- continua Roberto - Dall'aeroporto è necessario prendere un pullman, ma i mezzi pubblici partono solo alle sei del mattino e arrivano a destinazione la sera: quando ti metti in strada, potresti starci anche fino a 15 ore.

Alla fermata del pullman, inoltre, non volevano farci salire con i biglietti elettronici, accettavano solo quelli cartacei. Volevano farci pagare un supplemento. Lì gli stranieri sono visti come vere e proprie “banche”: pensano che abbiano sempre molti soldi con sé, ma fortunatamente, ci sono anche tante persone disposte ad aiutare, e alla fine tutto si è risolto».

Sei del Simba o dello Yanga?

«Le mattine erano dedicate alle lezioni, ma nei pomeriggi svolgevamo diverse attività e giochi. -spiega Roberto - Quest'anno abbiamo organizzato le Olimpiadi, con gare di salto in lungo, salto in alto, corsa e lancio del peso. Abbiamo portato 250 magliette di 10 colori diversi, uno per ogni squadra.

Quando abbiamo consegnato le magliette, tutti se le sono messe subito. È stato un momento davvero emozionante. Per realizzarle abbiamo dedicato molto tempo, scegliendo con cura fornitore, colori e taglie.

Molti ragazzi non sapevano nemmeno cosa fossero le Olimpiadi, - aggiunge Roberto - perché in TV vedono quasi esclusivamente il calcio. In Tanzania ci sono sostanzialmente due squadre, Simba e Yanga (che sono un po’ come Inter e Juventus in Italia) e appena conoscono qualcuno, la prima cosa che chiedono è: "Sei del Simba o dello Yanga?"».

«All’inizio gli studenti erano piuttosto timidi, - racconta Roberto - ma poi hanno iniziato a farci molte domande. Volevano sapere di più su di noi, sulla nostra vita quotidiana. "Dove vivete?", ci chiedevano. "Che lavoro fate? Com’è la vostra casa?". Erano molto curiosi, volevano anche vedere le foto sui nostri cellulari: osservavano attentamente le immagini della nostra città, dei nostri amici, delle nostre famiglie».

Festeggiamenti e condivisione

«La domenica partecipavamo alle funzioni religiose. - continua Roberto - Un giorno, nella parrocchia centrale, sono arrivati i rappresentanti di tutti i villaggi per una celebrazione speciale: circa 700 persone riunite per la Messa. È stato straordinario per come la vivevano, con un’intensità e una partecipazione incredibili. Dopo la celebrazione, tutti hanno pranzato insieme in un enorme banchetto comunitario, e anche noi ci siamo uniti a loro.

Un’altra volta siamo stati ospiti di una parrocchia dove si celebravano le Prime Comunioni. Dopo la cerimonia c’è stata una grande festa: la comunità ha voluto offrire dei doni al sacerdote in segno di gratitudine. Ma non si trattava di semplici regali: gli hanno portato sacchi di riso, ceste di cibo e altri prodotti raccolti con il lavoro nei campi. Era un gesto profondamente significativo, un vero atto di condivisione».

«Ciò che colpisce più di tutto è il senso di comunità. - conclude Roberto - Per loro, la comunità è fondamentale, e questa è una delle lezioni più belle da portarsi a casa. I ragazzi erano entusiasti di stare con noi e il legame che si è creato è fortissimo».