"Sento il peso dell’Opera e la forza di Dio"

Dieci anni fa mons. Javier Echevarría ha parlato della sua vita in una lunga intervista concessa a Pilar Urbano e pubblicata in spagnolo dalla rivista "Época" (maggio 1994) e in italiano da Studi cattolici (giugno 1994).

Sappiamo ben poco di lei... Dove è nato, com' era la sua famiglia?

Sono nato a Madrid, nella calle Fortuny, il 6 giugno 1932. Mio padre, ingegnere, era docente nell'istituto di ingegneria industriale. Poiché nessuno dei figli aveva scelto ingegneria, voleva avviare me su quella strada... Ha perfino scritto un libro pensando alla mia preparazione. A me però piacevano di più le materie umanistiche. Mio padre mi aiutava nello studio della matematica e davanti a qualunque problema mi spiegava tre o quattro modi per risolverlo. Questo eccesso peraltro mi rese antipatica la matematica e ho deciso di optare per il diritto.

Per esercitare l'avvocatura?

No. Avrei voluto essere agente di cambio e lavorare in borsa, come mio nonno, per guadagnare e vivere bene. Poi Dio è entrato nella mia vita e ho cambiato programmi: ho studiato, qui a Roma, diritto canonico all'Angelicum e diritto civile all'Università Lateranense, conseguendo le lauree e il dottorato.

Quanti fratelli siete in famiglia?

Saremmo potuti essere undici, ma ne siamo nati otto. Sono il minore dei sette che oggi siamo in vita. Perciò ho quasi cinquanta nipoti... La mia famiglia è originaria di Guipúzcoa, nei paesi baschi, ma già i nonni si erano trasferiti a Madrid.

Ricorda qualcosa della guerra civile spagnola?

Abbiamo trascorso quel periodo a Elizondo e a San Sebastián. Ci siamo rifugiati là, fuggendo da Madrid, perché ci fu detto che il portinaio della casa ci aveva denunciati. E infatti vennero a perquisire l'appartamento della calle Españoleto, dove abitavamo. Ero un ragazzino, e conservo solo una paio di impressioni: la mia famiglia seguiva l'andamento della guerra, ma non ho mai notato rancore, e tanto meno odio, verso coloro che combattevano dall'altra parte. Quello che desideravano i miei genitori era che finissero tutte quelle persecuzioni da parte dei comunisti. Durante la guerra ho frequentato la scuola dei marianisti; poi, dopo il ritorno a Madrid, i Maristi della calle García de Paredes, molto vicino, in effetti, al luogo in cui undici anni prima, nel 1928, Josemaría Escrivá aveva «visto» l'Opus Dei. Successivamente la scuola si trasferì in calle Eduardo Dato, che prima si chiamava Paseo del Cisne, dove transitava il tram «del cangrejo»... Al di là di quella coincidenza di calle García de Paredes, da piccolo sono vissuto anche nello stesso fabbricato in cui esisteva un centro dell'Opus Dei, in calle Martínez Campos, 15. Ricordo benissimo il giorno in cui hanno traslocato altrove. È stato nel 1940 o 41. Il portiere, per tutta spiegazione, ci aveva detto: «Sono degli uffici dove vivono anche alcune persone». Forse ne sapeva di più, ma disse solamente questo. La cosa curiosa è che mi è rimasto impresso nella memoria. Col passar del tempo, quando ho saputo che il fondatore dell'Opera aveva frequentato parecchio quella casa e che era solito salire e scendere per le scale senza prendere l'ascensore, ho pensato che forse qualche volta possiamo esserci incontrati e mi avrà raccomandato al mio angelo custode, pregando per la mia vocazione, cosa che era solito fare quando passava accanto a qualcuno.

Come è arrivato a conoscere l'Opera?

Avevo un cugino che era dell'Opus Dei, ma non avevo mai avuto la curiosità di chiedergli qualcosa. Poi, nel 1944, sulla rivista «Catolicismo» comparve un reportage sui primi tre membri dell'Opus Dei - tre ingegneri - che venivano ordinati sacerdoti. Un mio amico ha visto casualmente a casa sua quella rivista nel 1948 e l'ha mostrata a noi sei o sette ragazzi della combriccola. Era una cosa piuttosto nuova e ai miei amici fece una certa impressione. Non a me, per la verità. Una domenica pomeriggio, il 6 giugno, stavamo per andare al cinema. Il mio amico mi telefonò, proponendo un cambiamento di programma: «Ti piacerebbe andare a una residenza universitaria, in calle Diego de León, per interessarci di che cos’è l'Opus Dei?». E ci andammo tutti e sei. Ci accolsero molto bene. Non in gruppo: ciascuno di noi poté parlare con un membro dell'Opera e domandare quello che gli interessava sapere. Uscendo di lì mi portavo in tasca una immaginetta di Isidoro Zorzano, ingegnere, membro dell'Opus Dei, del quale era iniziato da poco il processo di beatificazione. Mi sembrò un «santo laico» attraente, che si sarebbe potuto imitare.

Tutto questo succedeva alla vigilia della morte di mio padre. Stava preparandosi alle vacanze estive con la famiglia a San Sebastiàn quando gli sopraggiunse un infarto fatale. Poiché la notizia non ce la diedero di colpo, ma dicendoci che era molto grave, ricordo che pregai per lui usando la preghiera dell'immaginetta di Isidoro.

Quell'estate ci fermammo a Madrid. Non era mai accaduto prima. Questo mi diede l'occasione di frequentare un centro dell'Opera, che - altra coincidenza - si trovava nella mia stessa via: la famiglia Echevarría era ritornata a calle Españoleto. Ed «Españoleto» si chiamava quella casa di gente giovane dove, tutte le volte che ci andavo, mi davano qualche lavoretto domestico: scartavetrare delle vecchie sedie per ridipingerle; aiutare nella decorazione; dare una mano in qualche lavoro di falegnameria... Mi faceva piacere il fatto di sentirmi utile e di essere trattato come uno che può fare qualcosa per gli altri. L'8 settembre ho chiesto l'ammissione all'Opera. Avevo sedici anni.

Da che cosa è stato maggiormente attratto?

Dall'atmosfera gioiosa: studiavano e lavoravano come matti, ma erano molto contenti. Il fatto che, senza cambiare stato, ci si potesse santificare nella propria professione. E la prospettiva grandiosa di poter portare molta gente a Cristo. Fin da piccolo ero molto socievole e mi piaceva avere molti e ottimi amici.

Come ha conosciuto il fondatore dell'Opus Dei?

Il Padre viveva a Roma già dal 1946, anche se veniva in Spagna con una certa frequenza. In uno di questi viaggi, nel novembre 1948, ci invitarono a un incontro con lui in calle Diego de León. Nell'Opera il sentimento di filiazione verso colui che è il Padre è una caratteristica consostanziale al carisma vocazionale. Senza che nessuno me lo suggerisse, io desideravo conoscere il Padre. Alla fine di quell'incontro familiare - saremo stati circa trentacinque - il Padre si rivolse ai tre di noi che eravamo gli ultimi arrivati e ci propose di andare quello stesso pomeriggio con lui a conoscere Molinoviejo, una casa in aperta campagna in prossimità di Segovia, adibita a convivenze e ritiri.

Ci infilammo in sei in una vecchia Vauxshall. Il Padre stava dietro. Io davanti condividevo il sedile con un altro. Guidava la macchina il dottor Odón Moles. Durante il tragitto facemmo molte cose: chiacchierammo, cantammo, ridemmo, pregammo... II Padre ci parlava di innumerevoli apostolati che l'Opera doveva fare in ogni parte del mondo e che ci stavano aspettando. Con la sua voce di baritono, di buon timbro e ben modulata, cantava canzoni popolari, canzoni d'amore che indirizzava a Dio: «Ho un amore che mi riempie di gioia...». Scherzava con noi: quando a una svolta della strada appariva una casupola vecchia, brutta, cadente, ci diceva: «Guardate!... Quello è Molinoviejo!». Ci siamo cascati un paio di volte. Purtroppo io mi sentii male, vomitai... e, poiché ero vestito di scuro per il lutto di mio padre, ne risultò un disastro. Mi aiutò a ripulirmi, mi tolse dall'imbarazzo della situazione, fece in modo che si viaggiasse col finestrino aperto nonostante fossimo in novembre e mi dimostrò tanto affetto che mi sentii destinatario delle attenzioni non di un padre, ma di un padre tenerissimo. A Molinoviejo andammo a vedere una cappella dedicata alla Madonna e l'oratorio. Alcuni universitari, sotto la guida di un allievo di Belle Arti, lo stavano decorando. Sulla spalliera continua di legno delle panche a muro avevano inciso alcune invocazioni e lodi di Maria tratte dalle litanie. Mi fecero impressione la tenerezza e la forza dell'amore del Padre verso la Vergine: mentre le leggeva, le pronunciava a una a una con una voce calda e vibrante, come se rivolgesse frasi amorose alla donna amata. Era un atteggiamento molto delicato e molto vigoroso, molto spirituale e molto virile allo stesso tempo. Si notava che, quando diceva quelle frasi, il Padre stava pregando.

(A questo punto, rivivendo quella scena ormai tanto lontana, a Javier Echevarría luccicano gli occhi. Inarcando leggermente le sopracciglia mi chiede che passi alla domanda successiva).

Dove ha conosciuto don Álvaro del Portillo?

L'anno successivo, 1949, vivevo a Gurtubay, un centro dell'Opera per universitari. Una mattina celebrò la Messa per noi un sacerdote alto, che pronunciava il latino alla romana. Pensai che fosse straniero. Era don Álvaro , che viveva a Roma e si trovava di passaggio per Madrid. Appena fatto colazione, ce ne andammo tutti all'università. Ma ci soffermammo in conversazione con lui dopo pranzo. Conservo due ricordi di quel primo incontro: ci parlò molto di fedeltà e di amore per la Chiesa e per il Papa, chiunque egli fosse; e ci regalò un pacchetto di Chesterfield che gli era stato dato in Vaticano. In Spagna erano tempi di carestia; per noi, abituati al tabacco nero e di basso prezzo, un trinciato scadente, fumare quelle sigarette americane era un lusso da film. Se, per giunta, venivano dal Vaticano, ci sembrava ancor più straordinario...

Quando pensa al beato Josemaría, quale idea, quale episodio forte le viene in mente?

Mi sovviene il fatto meraviglioso e reale, molto reale, del suo appassionato amore per Gesù Cristo e della sua paternità. Ho avuto la fortuna di vivere ventisei anni vicino a lui. Per me era sempre sorprendente la sincerità del suo affetto per ogni persona dell'Opera, anche se non l'aveva mai vista. Quanto poteva accadere a una figlia o a un figlio suo, ciò che gli raccontavano nelle lettere, ciò che potevano dirgli in un momento familiare... tutto lo interessava, prendeva tutto come qualcosa di proprio, perché ci amava veramente, come figli della sua orazione e della sua mortificazione. Tra lui e chiunque di noi non ci fu mai neppure la più tenue delle barriere: neppure una carta velina. L'ho visto piangere e soffrire per la morte di figlie e figli suoi che non conosceva neppure, con maggiore intensità che non i loro rispettivi parenti. Quando gli davano una di quelle notizie rimaneva umanamente distrutto, annichilito.

E chiudendo gli occhi come lo vede?

Lo vedo fra tante persone che parla di Dio. Lo vedo che va, che si fa incontro agli altri. Lo vedo che si dona a tutti noi, a tempo pieno, senza risparmiare un solo sforzo, senza riservare un minuto per sé. Tutte le nostre cose - un mal di denti, un esame, una preoccupazione familiare, una partita di pallone che stavamo per giocare -, tutto gli era noto c familiare. Eravamo la sua vita!

Di don Álvaro , col quale lei ha vissuto per quarantaquattro anni, che immagine le viene alla mente?

Vedo don Álvaro che scompare sempre, che si mette in un secondo piano dal quale poter vedere e udire nostro Padre, e aver cura di lui: guardandolo, anche fisicamente, col desiderio d'imparare da lui. E questo pur avendo delle magnifiche doti umane, mediante le quali conquistava le persone che avvicinava. Senza adulazione, in tutta giustizia, devo dire che don Álvaro , per la sua splendida intelligenza, per la sua ampia cultura, per la sua squisita educazione, per la sua capacità di relazioni sociali, per l'elevatezza del suo pensiero, per la profondità della sua vita interiore e per una lunga serie di virtù morali che ha vissuto con eroismo, è stato un gigante; e so di non esagerare. Tuttavia l'ho sempre visto dipendere dal fondatore, assecondandolo in tutto, per aiutarlo a realizzare l'Opus Dei. Egli fu un fedele esecutore di quello che il fondatore indicava.

È vero che monsignor Escrivá aveva una predilezione per lei?

Per me?... No, no... Non è vero... Forse con me e con altri che gli vivevamo vicini aveva più confidenza. Ma non ebbe mai figli prediletti. Se qualcuno ne avesse avuto, questo sarebbe stato don Álvaro , perché era uno strumento molto valido per la Chiesa e per l'Opera. Ci si deve ricordare che il fondatore era solito dire: «Don Álvaro non l'ho scelto io; è stato Dio che me lo ha messo al fianco». Io mi sentivo molto amato dal fondatore, ma pretendeva anche molto. Mi corresse, ed energicamente, in diverse occasioni. Una volta giunse a dirmi: «Figlio mio, se non cambi non potrò aver fiducia in te». Fu duro sentirglielo dire, ma il Padre aveva ragione e a me servì molto. Tuttavia, un paio d'anni dopo, mi chiese di essere suo segretario: «Puoi aprire tutti i cassetti, perché io non ho alcun segreto per te». Non è che monsignor Escrivá avesse cambiato parere; è che non aveva mai cessato di aver fiducia in me. Ma io ero uno fra tanti. Così stanno le cose.

Lei è stato scelto da Escrivá, per seguirlo a Roma?

No. Mi sono offerto io. Nel 1950 mi trovavo qui per seguire un corso di formazione di alcune settimane, quando il Padre ci comunicò che in quell'anno sarebbero venuti in sette dalla Spagna per frequentare il Collegio Romano della Santa Croce. Io gli dissi: «Mi piacerebbe essere uno di quei sette». Subito il Padre mi rispose: «Parlane con don Álvaro . Se sistemi la cosa con la tua famiglia io non ho obiezioni». Tornai a Madrid per parlare con mia madre di presenza e non per lettera. Sistemai le cose, ed eccomi qui.

Perché Escrivá la scelse come suo «custode»?

Non lo so proprio. Non gliel'ho mai domandato. Nel 1955 sono stato ordinato sacerdote. Nel 1956, all'inizio del Congresso generale dell'Opus Dei - svoltosi all'Hótel Pfauer, un modesto albergo di Einsiedeln, in Svizzera - nostro Padre mi disse: «Javier, devo scegliere due "custodi" da un elenco di nove nomi che mi ha fornito il Consiglio. Io vorrei che uno fosse don Álvaro e tu l'altro. Sei d'accordo?». Io avevo ventiquattro anni e pensai che c'erano molti che erano nell'Opera da molto più tempo di me, che avevano più esperienza, erano più dotati e avrebbero potuto farlo meglio di me. Ma mi sono fidato della grazia di Dio e del discernimento del Padre. Quando risposi che accettavo l'incarico mi disse: «Allora prendi il Codice e studiati i tuoi nuovi obblighi, per adempierli come si deve».

In che cosa consiste la funzione del «custode»?

A me incombeva l'obbligo di aver cura del Padre in tutti gli aspetti materiali: dal decidere se acquistargli delle scarpe fino ad accompagnarlo dal medico o preparare un viaggio. E anche fargli... non direi delle «correzioni», ma dargli indicazioni concrete su questioni esterne, visibili, nelle quali potesse migliorare o agire in altro modo. Dopo il 1975 anche don Álvaro mi diede l'incarico di suo «custode», ma sul piano spirituale: assumendo la direzione della sua anima.

Questa formula a tre - il Padre e i suoi «custodi» - consente una concatenazione, una continuità senza vuoti: quando il primo viene a morire, rimangono gli altri due e un terzo si aggiunge «di riserva»...

Ma non è questa la funzione. I custodi esistono perché il prelato, il Padre, non viva solo, non sia un uomo isolato al vertice; e, inoltre, perché lo si possa aiutare a essere migliore. Quella continuità si è verificata solo da quando eravamo custodi don Álvaro e io. Prima c'è sempre stato un custode che cambiava. Solo don Álvaro rimaneva.

Lei direbbe che don Álvaro fosse un uomo «bonaccione»?

Neppure per sogno! Era un uomo molto buono, molto santo, molto dedito agli altri; ma con un carattere «scolpito» e una grande fortezza. Nei compiti di governo dell'Opera l'ho udito riprendere con fermezza se si ritardava un adempimento, qualcosa che ci veniva richiesto da un altro Paese: «Non potete lasciar cadere le carte nel dimenticatoio: non c'è cosa più disarmante del silenzio amministrativo».

Quarant'anni fa io avevo l'incarico di amministrare il Collegio Romano. Una volta, il bilancio non mi quadrava: mancavano 600 lire, una somma insignificante per una casa in cui vivevamo più di trenta persone. Speravo che don Álvaro mi dicesse: «Non preoccuparti», invece mi disse: «Devi trovarle. Hai l'obbligo di risponderne fino all'ultimo centesimo. Quel denaro non è tuo: lo amministri a nome di altri».

O più di recente, quando lui era prelato e io vicario generale, mi diceva: «Non facciamo le cose per essere visti, ma ci vedono. Devi agire sempre alla presenza di Dio, perché con ogni gesto, con ogni parola, con ogni dettaglio puoi scandalizzare la gente o la puoi avvicinare a Dio». A1 fondatore, pur senza pignoleria, non gliene passava una. Ricordo che a volte nostro Padre commentava: «Mi volete così santo, così santo, da non lasciarmi fare nulla!».

Mi sembra che per il successore la sfida stia nel fatto che, tra santo e santo, hanno lasciato l'asticella molto alta...

Sì, hanno lasciato l'asticella molto alta, ma hanno anche lasciato un'asta molto forte. Da una parte, loro aiutano dal Cielo, e dall'altra è ben nitido l'esempio di come hanno agito. Basterà pensare, di fronte a qualunque situazione: «che cosa farebbe il fondatore?» o: «che cosa farebbe don Álvaro ?» per avere la sicurezza quasi totale che continuando così non si sbaglia.

Ma questa sequela imitativa non racchiude il pericolo che ogni prelato sia come una «fotocopia» del precedente?

No. Don Álvaro ha imitato il beato Josemaría solo in quanto concerneva lo spirito dell'Opera; ma hanno avuto due personalità completamente diverse. Forse per questo andavano così bene in coppia. Entrambi erano molto colti quanto a conoscenze teologiche, storiche, letterarie, filosofiche, artistiche, canoniche... E in tutte queste materie avevano molta consonanza, molta compenetrazione. Però nostro Padre era molto intuitivo e rapidissimo nell'azione; don Álvaro , molto riflessivo. Nostro Padre reagiva di fronte ai fatti in modo immediato, che poteva apparire più spontaneo; don Álvaro aveva anch'egli un modo di reagire genuino, spontaneo, ma non lo esprimeva finché non lo avesse maturato al suo interno.

Ricordo in questo momento che nel 1958, alla morte di Pio XII, la televisione italiana mise in onda delle immagini morbose, sgradevoli, riprese durante la sua agonia. L'Ordine dei medici italiano sospese il medico del Papa, che aveva autorizzato quella ripresa nella camera del Romano Pontefice. Orbene, monsignor Escrivá fu turbato, si risentì moltissimo, come un buon figlio che vede maltrattato suo padre. Don Álvaro rimase in silenzio. Solo più tardi commentò: «Il Padre ha ragione. È una cosa che indigna. Quale figlio può consentire che dell'agonia di suo padre o di sua madre si faccia uno spettacolo?».

Possiamo prendere un altro aspetto: la veracità. II beato Josemaría era un uomo chiaro, schietto, immediato; diceva quello che vedeva e chiamava le cose col loro nome. Don Álvaro , pur con un temperamento diverso, più mansueto, era una persona altrettanto incapace di doppiezza, senza seconde intenzioni: trasparente.

Ma come gusti e passioni erano molto differenti?

Certamente. Per esempio, Escrivá non faceva altro esercizio fisico che il camminare. Invece del Portillo aveva praticato molto il nuoto, lo hockey, il cross, il tennis, l'equitazione, il calcio.

Le diversità spiccavano più appariscenti nelle cose più piccole. Per esempio don Álvaro si sentiva a suo agio vestendo il clergyman; il fondatore, per i suoi gusti, non se lo sarebbe messo mai. Ricordo che nel settembre del 1968 facevamo viaggio per nave da Napoli a Cadice. Il fatto di stare diversi giorni su una nave a nostro Padre non piaceva proprio: «Mi sembra una perdita di tempo, è come stare racchiuso in un guscio di noce». Invece don Álvaro ne era entusiasta, perché «essere in alto mare», diceva, «è molto rilassante». Erano molto diversi. Ma percorsero lo stesso cammino, vissero lo stesso spirito e sono... due santi dello stesso calibro.

Così dicendo lei intende affermare che il, successore avrà il proprio stile personale, ma dovrà

mettere i piedi dove li hanno messi i suoi predecessori?

Se ha buon senso metterà i piedi dove li ha messi il beato Josemaría, che è dove li ha messi Álvaro del Portillo. Se così non fosse, significherebbe deviare dalla via maestra. Ora, questa fedeltà al «cammino» non toglie a ciascuno il proprio modo di camminare. Nell'Opus Dei la personalità non viene annullata, ma realizzata.

Ma quale margine di libertà creativa e innovatrice può avere il nuovo prelato?

Libertà totale. L'Opera non avrà mai bisogno di un aggiornamento, perché siamo gente comune e siamo sempre aggiornati. Il nuovo prelato avrà tutta la capacità creativa e tutto il margine di manovra di cui ha bisogno per mettere a frutto le circostanze presenti e inserirvi lo spirito dell'Opera. Non si tratta di copiare quello che già si è fatto. Le realtà quotidiane con le quali ci si deve santificare sono diverse da quelle che ha vissuto il fondatore. Il nuovo prelato dovrà affrontare il proprio momento storico.

L'Opera potrà vivere tranquilla se il prossimo Papa non le sarà così favorevole, così propizio, quanto lo è stato Giovanni Paolo II?

Io so che monsignor Escrivá non si è mai sentito né abbandonato, né trascurato, né poco amato dai Romani Pontefici. Il contrario sono menzogne, invenzioni di alcuni ripetute da altri. L'ho udito molte volte ripetere: «Dalla Santa Sede, dal Santo Padre, non ci possono venire altro che beni, anche se a volte ci possono sembrare contrarietà». Per noi il Papa - chiunque egli sia - sarà sempre il Vicario di Cristo, con una responsabilità davanti a Dio che deve adempiere. Quello che egli decide lo riceveremo sempre come proveniente da Cristo stesso. Pertanto, anche nell'ipotesi che qualche decisione del Papa risultasse per noi dolorosa o incomprensibile, essa sarebbe comunque buona. Perciò l'Opera non si sentirà mai preoccupata, né insicura, né malvoluta. Una cosa è la simpatia, altra è la carità e l'affetto di chi governa la Chiesa, che non ci potranno mai mancare.

È tutta da scrivere la storia delle relazioni personali tra i cinque ultimi Papi e i due successivi Padri che ha avuto 1'Opus Dei. Per esempio, si è detto mentendo che Paolo VI non stimava monsignor Escrivá. A noi consta invece - circostanza ratificata dai suoi segretari - che usasse abitualmente Cammino come libro di meditazione. Anzi: in una delle sue ultime udienze, Paolo VI disse al fondatore, faccia a faccia: «Monsignore, lei è un santo». E questo un Papa non lo dice per adulare. Non diciamo poi dell'amicizia, del rapporto naturale, fiducioso e spontaneo, tra Giovanni Paolo II e monsignor del Portillo. Il Papa vedeva in don Álvaro un figlio leale e sincero che gli diceva le cose come stavano, non come avrebbe voluto che fossero.

Si può dire che Giovanni Paolo Il si sia appoggiato sull'Opus Dei?

Sì, si può dire. Ma la cosa meno importante è che lo si dica: ciò che importa è che questo Papa e tutti quelli che verranno dopo devono potersi appoggiare sull'Opus Dei, perché per questo l’Opus Dei esiste: per servire la Chiesa come essa vuole esser servita. Espanderci per il mondo intero e avere molte vocazioni, se questo non fosse per meglio servire la Chiesa, a noi non interesserebbe nulla.

È necessario che il prelato dell'Opus Dei sia vescovo?

Non è necessario. Ma l'esperienza ha dimostrato che va molto bene per l'Opera e per le relazioni con gli altri vescovi.

Monsignor Echevarría, lei ha trascorso 44 anni dedicati a tempo pieno a viver-e... la vita di un'altra persona. Lei ha avuto una vita propria? Ha potuto essere sé stesso?

Certo che ho avuto la mia propria vita. Non avrei mai sognato di realizzare la mia vita in un modo così ambizioso. Vivendo per conto mio avrei avuto orizzonti molto più ristretti e voli molto più limitati. Se non fossi stato, giorno dopo giorno, accanto a due uomini di quella statura umana e spirituale, non mi sarei neppure posto l'ambizione di intendermi con tutto il mondo, di preoccuparmi per tutte le anime. E neppure l'interesse per tutte le culture. E neppure il desiderio di servire gli altri. Né l'ampiezza di vedute, per vedere i problemi della Chiesa e della società civile. Né mi sarei aperto alla conoscenza - non come curiosità, ma come preoccupazione personale - della situazione degli uomini in tutti i Paesi del mondo, delle loro condizioni di lavoro, del loro livello di libertà e di dignità... viaggiando e vedendo vivere, nell'ambiente loro proprio, gente di tutte le nazioni, di tutte le condizioni sociali, di tutte le razze, di tutte le religioni. Io, come uomo del mio tempo, come cristiano e come sacerdote, sono una persona ambiziosamente realizzata. E ho il cuore aperto a tutto il mondo, grazie all'esser vissuto con due uomini dallo spirito grande, cristianamente grande.

Pochi anni fa lei ha subìto un infarto mentre predicava...

Sì. È stato nelle Asturie.

...e ha tenuto duro sino alla fine.

Sì, ma... (si mette a ridere) perché non sapevo che fosse un infarto!

Ma avrebbe comprensione per chi non avesse questa tempra e lasciasse a metà la sua predica?

Non solo lo comprenderei, ma lo loderei. E questo che si deve fare: curarsi per continuare a servire.

Il fatto è che circola già un cliché prefabbricato su di lei, come uomo rigoroso, esigente, duro, cresciuto all'ombra di Escrivá...

Sono molto orgoglioso di essere «cresciuto» vicino a monsignor Escrivá. Avrei voluto imparare ancor più da lui. E quello che ha sempre insegnato era di dilatare il mio cuore di sacerdote. Di tenere le braccia aperte a tutti, da qualunque parte provenissero e in qualunque modo venissero: anche se si fossero presentati come miei mortali nemici. A qualunque ora, in qualunque luogo o circostanza, di avere il cuore spalancato per chiunque abbia bisogno di me.

Don Javier, lei ha carattere...

Sì, ho carattere. E l'avevo molto prima di conoscere monsignor Escrivá.

Quando morì Escrivá e il suo corpo era ancora caldo, del Portillo gli tolse il lignum Crucis che portava al collo e se lo mise «,finché non ci sarà un nuovo Padre». Ora, dopo la morte di don Álvaro , anche lei si è messo questa reliquia del legno della Croce?

Sì, ma non subito; dopo un paio di giorni. Ho evitato di fare le stesse cose materiali che, alcuni anni prima, aveva fatto don Álvaro , perché non si pensasse che ci fosse una presunzione di continuità. Ho visto il lignum Crucis dentro l'armadio di don Álvaro e ho pensato che sarebbe stato più dignitoso conservarlo sul petto di un sacerdote: per questo me lo sono posto al collo.

E allora ha sentito su di sé «il peso» dell'Opera?

Ho sentito il peso dell'Opera, ma anche la forza di Dio. L'Opera, piaccia o non piaccia, è spiritualmente monolitica. Per essere più chiaro: «un cuore solo e un'anima sola». Stanno tutti pregando perché io possa farcela. E arrivano lettere a migliaia, da tutte le parti del mondo, da ogni genere di persone...

Che cos'è «il peso» dell'Opera?

È la santità di più di settantamila persone, che devono corrispondere a un impegno con Dio nel proprio lavoro, nei doveri del proprio stato, nei rapporti con gli altri uomini. E questo peso si nota, perché tutti siamo fragili e possiamo non dare il meglio di noi o faticare ad ambientarci in quella grande orchestra che è la Chiesa.

In qualche occasione Giovanni Paolo II ha parlato dell'Opus Dei come di una potenza: «il potente Opus Dei»...

Sì, ma immediatamente don Álvaro gli disse: «Santità, il nostro unico potere, la nostra unica forza, è la preghiera». E il Papa, facendo un cenno affermativo con la testa, rispose: «A questo mi riferivo». II Papa fu impressionato da una lettera che monsignor del Portillo gli scrisse dal santuario della Mentorella, nel 1978, all'inizio del suo pontificato. In quella lettera gli offriva tutto il tesoro dell'Opera: l'orazione e le Messe di ogni giorno, che allora erano 60.000 e ora saranno 74.000 o qualcosa di più.

Qui a Villa Tevere, quando lei scende a pregare nella cripta dove sono tumulati Escrivá e del Portillo, i due grandi «patroni» dell'Opera, che cosa chiede per il nuovo prelato?

Chiedo che sia un buon pastore, un pastore leale, che si dedichi totalmente ai suoi figli e figlie, senza che mai lo possa separare da essi neppure la benché minima cortina di fumo.

a cura di Pilar Urbano