Quando hai iniziato a portare la musica fuori dai luoghi convenzionali?
Tutto è iniziato in parrocchia, con una serie di progetti musicali. Poi sono arrivati gli ospedali, i reparti psichiatrici. Ma, ripensandoci ora, questa scelta ha radici antiche, come spesso le cose importanti. Uno dei primi segni è legato al ricordo di una mia zia. Da anni, in occasione delle feste di famiglia, mi chiedeva di suonarle l’Ave Maria di Schubert, ogni volta, sempre quella. Poi si ammalò di SLA. Non riconosceva più nessuno, fu ricoverata in una struttura. Un giorno vado a trovarla con il mio violino. Suono la sua Ave Maria. E lei… torna. Il suo viso si illumina. È stato come vedere un fiore aprirsi dopo il gelo.

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Oppure a Gerusalemme, durante un viaggio con don Massimiliano Nazio, in pieno clima di attentati. Nessuno voleva partire. Ma noi siamo andati. In un ospedale c’era una donna malata terminale, ricorderò per sempre il suo nome: Nelly. Ti guardava con una gioia non di questo mondo. Solo vedermi con il violino in mano – ancora prima di suonare – le ha acceso un sorriso, che sembrava spalancarsi sull’infinito. È allora che ho sentito con chiarezza: ecco dove devo stare, in un incontro personale che si fa relazione.
E da qui sembra non ti sia mai più fermato. Raccontaci della tua esperienza al Campus Bio-Medico.
Con il Campus si è acceso qualcosa che era già dentro di me, ma che non avevo ancora visto così chiaramente. Ho iniziato a suonare nel day hospital, poi nei reparti e nei corridoi, nelle sale d’attesa, nel centro per anziani fragili e, infine, all’hospice: è stato anche quello un viaggio, un percorso. Oggi continuo a costruire dialogo attraverso la musica in tutti questi ambienti. E posso dirlo senza esitazione: non esiste altro luogo dove abbia sperimentato un’attenzione tanto profonda e disarmata. Non è solo l’ascolto di chi ti sente suonare – è l’ascolto che ti guarda, che ti riconosce, che ti accoglie.

Un’attenzione che viene prima della musica, e che forse è già musica in sé.
Nel tempo, con i pazienti, i loro familiari, con il personale medico e sanitario, è nato un legame vero, forte, autentico che non ha bisogno di parole per esistere ed essere raccontato. È, semplicemente è. È una rete silenziosa fatta di sguardi, piccoli gesti, respiri che si accordano. In ospedale tutto si fa essenziale. E la musica, in quel contesto, non può più essere solo esecuzione: deve farsi presenza, offrirsi come dono. Grazie a Dio sono riuscito a fare rete e a coinvolgere in questa attività per il Campus numerosi musicisti.
Il dono non è solo ciò che portiamo: il dono più grande è quello che riceviamo. Perché in quelle stanze non suoniamo per qualcuno, ma con qualcuno. E allora capiamo che solo là dove si crea un’attenzione reale, dove il legame è autentico, la musica può davvero diventare una forma di amore, un modo per darsi al mondo senza riserve. E tutto questo non resta lì, non si chiude in quelle mura. Ma lo porti dentro, sul palco, in ogni teatro, in ogni concerto, nelle aule tra i nostri studenti.
Da quel luogo ho imparato che la musica è viva solo se è relazione. E che relazione e dono sono la stessa cosa, se ci passi davvero attraverso.
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