Piacere a Dio (I): dove Dio non si vede. Santità e monotonia

Nella discrezione e nel silenzio dei sacramenti Gesù ci aspetta per aprirgli liberamente la nostra anima.

Nelle immediate vicinanze del tempio di Gerusalemme c’è una grande confusione. Un gruppo di uomini conduce a spintoni una donna sorpresa con un uomo che non era suo marito. Per noi è facile immaginare il dolore di Gesù al pensiero della sofferenza di quella povera donna e di fronte alla cecità di quegli uomini. Quanto poco conoscono suo Padre Dio! In realtà la trascinano li per tendere un tranello a Gesù: «Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (Gv8, 5). Ma non sono interessati alla risposta, quegli uomini, utilizzando la parola di Dio, vogliono una giustificazione alla sentenza che hanno già emesso. E per questo non saranno in grado di cogliere il gesto eloquentissimo che il Signore offre loro: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra» (Gv 8, 6). Perciò accetta la domanda e, con chiarezza, risponde: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». (Gv 8, 7). E, infine, si china di nuovo per scrivere nella polvere che stava ai suoi piedi.

Azioni e gesti discreti

In questo brano vediamo che Gesù, che quando parla in pubblico si mette in piedi, quando vuole scrivere qualcosa che riguarda la vicenda personale di quella donna, lo fa chinato verso il suolo. Questa di solito è la maniera con la quale comunica con noi: seduto, nascosto, come a voler occultare la sua divinità con azioni discrete e piccoli gesti. A volte, dare importanza a ciò che è scritto per terra costa; in numerose occasioni non siamo capaci di leggerlo subito. Passa talmente inosservato che l’evangelista non ci dice nulla di quello che Gesù ha scritto. Il Figlio di Dio appare sulla scena – allo stesso modo di come fa nella nostra vita – ma non vuole imporci la sua presenza, né la sua opinione, e neppure vuole dare in modo indiscutibile la corretta interpretazione della legge di Mosè, così come chiedevano. Gesù «non ha cambiato la storia forzando qualcuno o a forza di parole, ma col dono della sua vita. Non ha aspettato che diventassimo buoni per amarci, ma si è donato gratuitamente a noi. Anche noi, non aspettiamo che il prossimo diventi bravo per fargli del bene, che la Chiesa sia perfetta per amarla, che gli altri ci considerino per servirli. Cominciamo per primi. Questo è accogliere il dono della grazia. E la santità non è altro che custodire questa gratuità»[1].

Molte volte, magari, ci siamo chiesti perché Dio non si manifesta più chiaramente, perché non parla più forte. E, forse, ci siamo anche ribellati, di fronte a questo suo modo di essere e con molta ingenuità, abbiamo cercato di correggerlo. Benedetto XVI ci avvertiva riguardo a questa tentazione, facendoci vedere che, nel corso della storia, si ripete costantemente: «Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti»[2].

Desideriamo non cedere a questa tentazione. Ci piacerebbe ammirare e adorare il Dio nascosto nelle situazioni di ogni giorno, nelle persone che ci stanno intorno, nei sacramenti ai quali ci accostiamo frequentemente, come la confessione e la santa Messa. Vogliamo trovare Gesù in questa terra nella quale, di sua mano, scrive parole di affetto e di speranza. Per questo gli chiediamo di farci capire le sue ragioni per metterle in pratica, lo preghiamo di farci avere la saggezza per apprezzare il mistero del suo straordinario rispetto della nostra libertà. Nella scena evangelica vediamo che Gesù non se la prende né con la donna né con gli accusatori che gli stavano tendendo una trappola. Si mette tra di loro e prende su di sé le pietre, le urla, la condanna. Viene in mente il Libro dei re, quando ci dice che Dio non è nel vento forte che spezza le rocce, né nel terremoto, né nel fuoco; Dio è nel sussurro della brezza soave, proprio dove lo incontrò Elia e dove anche noi vogliamo trovarlo (cfr.1 Re 19, 11-13).

Quando appare troppo debole

Può anche succedere che questo modo di fare di Dio ci preoccupi. Possiamo pensare che questo silenzio rende facile calpestare i suoi diritti, ci può venire l’idea che è un comportamento rischioso, che lo mostra molto debole. In effetti, Dio ci ha dato una così grande libertà, che possiamo davvero scegliere le nostre strade, una molto diversa dall’altra, con la libertà sostenuta dalla sua grazia. Ma se a volte possiamo offendere Dio non è perché Lui si mostra particolarmente debole. Al contrario, è molto fiducioso, liberissimo nelle relazioni che stabilisce con noi. Può sembrare facile scavalcare l’amore che in realtà merita, ma questo accade perché ha voluto mettere il suo cuore per terra, per farci camminare sul soffice. Il Signore non soffre e neppure si offende per quello che ciò significa, quanto piuttosto per il danno che comporta a noi stessi. Gesù così ammonisce le donne che piangevano sulla via del Calvario: «Non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli» (Lc 23, 28.31).

Tuttavia, la cosa più sorprendente è che il Signore non si lamenta, non si arrabbia, non si stufa. Anche quando gli abbiamo lasciato poco spazio nel nostro cuore, non se ne va sbattendo la porta. Dio rimane sempre vicino, senza rumore, come nascosto nei sacramenti, aspettando di essere ospitato nella nostra anima quanto prima.

È pure vero che, siccome Gesù ci offre il suo amore una volta e un’altra ancora, le possibilità di sbagliare possono essere molte. Ma Lui non si preoccupa della ferita del suo cuore, per quanto immensa possa essere, se diventa la porta dalla quale noi entriamo per riposarci nel suo amore. Dio non è ingenuo e, per questo, ci ha detto che lo fa di tutto il cuore: «Il mio giogo è soave e il mio carico leggero» (Mt 11, 30). Tutta questa bontà, può confonderci e possiamo, anche inconsciamente, reagire con una certa incredulità. Fino anche a non capire la vera grandezza di tale regalo. Con parole san Josemaría, può succedere che gli uomini «vogliono rompere il giogo soave, allontanare da sé il peso, il meraviglioso peso di santità e di giustizia, di grazia, d'amore e di pace. Si irritano dinanzi all'amore e deridono la bontà inerme di un Dio che rinuncia a servirsi delle legioni di angeli per difendersi (cfr. Gv 18, 36; Mt 26, 52-54)»[3].

L’intimità della confessione

Tornando alla scena nel Tempio, dove avevano teso una trappola a Gesù, possiamo vedere che, anche se quella donna non abbia saputo onorare se stessa, i suoi accusatori non sono stati capaci di riconoscere in lei una figlia di Dio. Ma Cristo guarda con altri occhi. Che differenza tra lo sguardo di Gesù e il nostro! «A me, a te, a ciascuno di noi oggi dice: “Ti amo e ti amerò sempre, sei prezioso ai miei occhi»[4]. Santa Teresa di Gesù, in certo modo, sperimentò frequentemente questo sguardo: «Spesso considero, Gesù mio, quanto i vostri occhi si mostrino pieni di delizia e di gioia a chi vi ama, e Voi, mio bene, volete guardare con amore. Mi pare che un solo sguardo così soave alle anime che volete vostre, basti come premio per molti anni di servizio»[5]. «Guarda come sei stato amato quando non eri amabile; guarda come sei stato amato quando eri sciocco e cattivo; ancora prima che in te ci fosse qualcosa degna di amore. Sei stato amato per primo per diventare degno di essere amato»[6].

Nel sacramento della confessione abbiamo prova che a Gesù basta il pentimento per credere fermamente che lo amiamo. Gli bastò quello di Pietro e gli basta il nostro: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gn 21, 17). Quando andiamo al confessionale, in quelle parole e in quei gesti che danno forma al sacramento, diciamo al Signore: «Signore, ancora una volta, ti ho offeso, ho di nuovo cercato la felicità fuori di te, ho disprezzato il tuo amore, ma sai che ti amo». E allora, sentiamo con chiarezza, come quella donna: «Neanch’io ti condanno» (Gv 8, 11). E ci colmiamo di pace. Se qualche volta possiamo pensare che Dio ha fissato poche misure per non essere offeso da noi, di certo non ne ha prese per perdonarci. Un padre della Chiesa mette sulle labbra di Gesù queste parole: «Questa croce non è un pungiglione per me, ma per la morte. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l'amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, piuttosto introducono voi ancor più nel mio cuore. Il mio corpo disteso anziché accrescere la pena, allarga gli spazi del cuore per accogliervi. Il mio sangue non è perduto, lo dono in riscatto per voi» [7].

Per tutto questo, desideriamo essere davvero delicati, della stessa delicatezza con la quale ci tratta Dio. Ci preoccupa la semplice possibilità di abusare di tanta fiducia. Non ci piace sminuire il sacro, trasformandolo in una consuetudine da compiere ogni tanto. Il sacramento della confessione è stato guadagnato dal sangue di Gesù e non vogliamo smettere di ringraziarlo, anche con i fatti. Vogliamo sentire sempre questo divino perdono, con il quale diventa facile rimuovere qualunque ostacolo per saperci ancora una volta guardati e incoraggiati da Dio sino alla fine.

La Messa di Gesù è la nostra Messa

San Tommaso d’Aquino spiega così il valore della salvezza operata da Gesù sul Calvario: «Cristo, avendo patito per amore e per obbedienza, ha presentato a Dio un’offerta più grande di quanto non fosse necessaria quale riparazione per le offese del genere umano»[8]. E noi possiamo presentare questa offerta risanatrice come fosse nostra; Cristo ogni giorno ce ne fa dono nella celebrazione dell’Eucarestia. Per questo, a san Josemaría piaceva dire che è la «"nostra" Messa»[9], di ognuno di noi e di Gesù. Quanto è facile, se lo vogliamo, essere corredentori! Quanto è facile cambiare il corso della storia assieme a Lui!

Sant’Agostino, contemplando la scena del Vangelo che stiamo meditando, annotava che «lì rimangono soltanto in due: la miserabile e la Misericordia. Quando tutti gli altri se ne erano andati e rimase soltanto la donna, sollevò lo sguardo e lo posò su di lei. Prima abbiamo ascoltato la voce della giustizia; ora ascoltiamo anche la voce della misericordia»[10]. Quanto è soave la voce di Gesù che la invita alla santità. Ormai non è più sola nella sua lotta. Saprà sempre che lo sguardo di Gesù l’accompagna. Una volta che abbiamo gustato questa soavità non vogliamo più vivere diversamente: «Ti ho gustato e muoio di fame e di sete»[11]. Come è naturale ora frequentare Gesù presente nell’Eucarestia con questa dolcezza e con questo rispetto. Che non è rispettare la distanza, né semplice cortesia o buona educazione; è affetto vero, che è fatto di libertà e di meraviglia. Anche nel modo di accostarci per ricevere la Comunione, nel silenzio davanti al Tabernacolo o nel fare con calma la genuflessione scopriamo una occasione per corrispondere a tutto questo amore sparso per ciascuno. Non sono altro che dimostrazioni di quella purezza interiore che desideriamo e che tante volte abbiamo chiesto alla Vergine nella Comunione spirituale.

Nella santa Messa sperimentiamo in modo speciale che «quando Egli chiede qualcosa, in realtà sta offrendo un dono. Non siamo noi che gli facciamo un favore: è Dio che illumina la nostra vita, riempiendola di significato»[12]. Quanti ringraziamenti ci piacerebbe rivolgere a Dio per aver reso la santità così a portata di mano! Ora, ci è facile vederci come quella donna, lanciati da Gesù verso la speranza: «Va' e d'ora in poi non peccare più» (Gv 8, 11). È questa la notizia più bella. Gesù le ha detto che il peccato non è inevitabile, non è il suo destino, non è l’ultima parola. C’è una luce fuori del tunnel che, nel nostro caso, arriva con forza con i sacramenti. E se nessuno la condanna, perché mai dovrebbe condannarsi da sola? Ormai sa che, con la forza che ha ricevuto da Gesù, può tornare a fare felice il marito, essere lei stessa felice.

Diego Zalbidea


[1] Francesco, Omelia della Messa di Natale, 24-XII-2019.

[2] Benedetto XVI, Udienza, 1-VI-2011.

[3] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 185.

[4] Francesco, Omelia della Messa di Natale, 24-XII-2019.

[5] Santa Teresa di Gesù, Exclamaciones, 14.

[6] Sant’Agostino, Discorso n. 142.

[7] San Pietro Crisologo, Sermone 108: PL 52, 499-500.

[8] San Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, III, q. 48, a. 2, co.

[9] San Josemaría, Cammino, n. 533.

[10] Sant’Agostino, Trattato sul Vangelo di san Giovanni, 33, 5-6.

[11] Sant’Agostino, Confessioni, X, 38.

[12] Fernando Ocáriz, Felici perché "chiamati", così lasceremo traccia, Avvenire, 10-X-2018.