“L’Opus Dei mi ha fatto scoprire che il mio lavoro è la mia malattia”

E’ la prima volta che il giornalista intervista una persona che giace a letto. Però è bene che l’intervistato stia a suo agio. Joaquín Romero, barcellonese, un architetto di 35 anni, è stato colpito dalla sclerosi multipla irreversibile. Ed ha sempre il sorriso sulle labbra... Intervista pubblicata sul “Diari de Tarragona” (Spagna).

Joaquín Romero è stato colpito dalla sclerosi multipla, una malattia incurabile, progressiva e degenerativa. Ogni tanto ha bisogno di abbandonare la sedia a rotelle, nella quale rimane tutto il giorno, per cambiare un poco di posizione. L’intervistato, sorridente, commenta con l’allegria che non lo abbandona mai: “Mi sembra di stare davanti a uno psichiatra”. E il giornalista sta al gioco, facendo una prima domanda classica:

Chi è Joaquín Romero?

Ogni tanto me lo chiedo anch’io. Mi dico: “Dio mio, chi è questa persona che ora cammina nella sedia a rotelle? Io studiavo, giocavo al calcio, facevo una vita normale. E questo della sedia sembra un’altra persona. Allora metto i piedi a terra e mi dico: sei lo stesso, Joaquín, solo che è cambiata la situazione”.

Che cosa si sente quando la malattia bussa alla porta?

E’ come se ti arrivasse in casa un invitato di riguardo, che si presenta senza essere stato invitato. Non sai se dirgli: “Che gioia!” oppure “Per te non c’è niente da mangiare”. Poi devi accettarlo, perchè non si può mandarlo via di casa; bisogna saperlo trattare, parlargli, ascoltarlo, per sapere che cosa vuole, che cosa gli si addice.

Si finisce col voler bene all’invitato imprevisto?

Sì, ma non per lui stesso. La sofferenza non è un bene in sè, come una casa, un’automobile, un amico. Il dolore non lo si ama e basta; bisogna appoggiarsi a qualcosa, alle stampelle. E allora il dolore è lo stesso, ma il modo di sopportarlo è diverso.

Dove hai trovato queste stampelle?

In Dio. Nel mio caso, attraverso l’Opus Dei, secondo il quale gli ammalati sono un tesoro. Io pensavo che non avrei potuto lavorare, che non avrei potuto avere una vita sociale, ma l’Opera mi ha fatto scoprire che il mio lavoro dovrà essere la mia malattia e che avrei avuto la possibilità di cercare di essere migliore io stesso e di avvicinare altre persone a Dio, per esempio, col sorriso. Sono stato a Roma, alla canonizzazione del Fondatore dell’Opus Dei. Il giorno prima ero a letto, a Barcellona, prostrato dall’effetto prodotto dal cortisone che mi avevano dato per una recente recrudescenza della malattia. Il giorno seguente, però, ero in Piazza San Pietro, con la mia sedia a rotelle che, come tante altre, si apriva il passo fra tanta gente. Sono stato felice, ma mi sono stancato molto. Il mio invitato era con me, come sempre.

Quando è arrivato l’invitato?

Quando avevo 22 anni. La mia vita fino allora aveva avuto due momenti particolarmente magici. Il primo è stato quando avevo 14 anni e ho terminato la scuola dell’obbligo con buoni voti. Sono andato in vacanza a Minorca con la mia famiglia, poi in Italia con alcuni amici. Giocavo a calcio, mi piaceva molto. Il secondo, quando ho cominciato i corsi di architettura. Avevo grandi progetti per la mia vita: riuscire a essere un buon professionista, sposarmi e avere molti figli.

E d’improvviso irrompe la malattia...

Non tanto improvvisamente. Il primo anno l’ho passato in mano ai medici che mi studiavano. Ho terminato gli studi, ma gli esami scritti finali non sono riuscito a farli perchè le mani si paralizzavano.

Quando è arrivata la sedia a rotelle?

Quando non ne ho potuto più farne a meno. Prima ho utilizzato una stampella; poi, due; e un giorno, la sedia. Volevo andare al funerale del padre di un amico e sentivo di non avere la forza di camminare per 50 metri dal parcheggio alla chiesa. Un amico mi portò in macchina, e mise dentro anche una sedia a rotelle nel caso ne avessi avuto bisogno. Tentai di farcela con l’aiuto delle stampelle, ma non ci riuscii. Allora chi mi accompagnava tirò fuori dalla macchina la sedia, mi ci misi su, e arrivato in chiesa mi sentii morire. Tutti mi guardavano; mi sentivo pugnalato da tanti occhi.

Ci si abitua?

Sì; quello a cui uno non si abitua mai è che certe volte la gente, vedendoti su una sedia a rotelle, ti tratti come se non fossi normale. Invece, noti il desiderio di aiutare che hanno molti. Credo che anche noi li aiutiamo ad essere migliori, ad avere buone disposizioni verso gli altri.

Che cosa vuoi fare in questa situazione?

Vorrei mettermi a lavorare. Con mio fratello Borja, ingegnere di telecomunicazioni, dieci anni più giovane di me, abbiamo ristrutturato la casa perchè possa essere autosufficiente, andare dal letto al bagno e alla doccia o possa aprire la porta, le finestre, accendere il televisore, parlare al telefono, scrivere al computer, ecc.

Ci siete riusciti?

Sì; e poi abbiamo fondato una ditta con le nostre iniziali – “B & J Ristrutturazioni” – e abbiamo cominciato a cercare clienti, persone diventate paraplegiche o tetraplegiche a causa di una malattia o di un incidente. Siamo in contatto con l’istituto Guttmann, il più famoso, e con altri centri di riabilitazione, con assistenti sociali... e ci offriamo di adattare la casa o l’appartamento dell’invalido, di fargli un vestito commisurato alle sue necessità concrete dovute alla situazione in cui si trova. E lo facciamo con l’aiuto delle nostre conoscenze tecniche e della mia esperienza personale.

Hai clienti?

Sì, anche se non è facile. Bisogna vincere, da parte loro, la tentazione dello scoraggiamento. Mi favorisce il fatto che posso parlare loro da sedia a sedia, e non come quelli che dicono di mettersi nei loro panni a distanza.

Che cosa dice a un cliente il quale, fra quelli che vengono a vederlo, si ribella domandandosi perchè Dio permette la sua sofferenza?

Comincio dicendogli che è molto positivo che si sia fatta questa domanda, perchè a qualunque domanda si deve cercare una risposta. Poi gli dico che io posso dargli una mano per tentare di trovare la risposta. Un motivo potrebbe essere quello di ricordarci di più di Dio, che forse avevamo dimenticato. Se così fosse, è un’occasione in più per stargli vicino, per cominciare a trattarlo, chiedergli perdono, dargli un bacio attraverso la confessione.

Gli direi anche: vallo a trovare davanti al Tabernacolo, lamentati, parlagli e quando non ti viene in mente niente, vattene e ritorna un altro giorno. Non pretenderai di conoscerlo in due giorni. Per avere un amico bisogna trattarlo.

Che cos’è il dolore per lei? Come lo definisce?

E’ la chiave, la risposta a molti interrogativi di una persona credente. Non ha nessun senso se non passa per la trascendenza. Ti insegna a conoscerti di più, a mettere ogni cosa al suo posto. E a conoscere meglio gli altri, ad essere comprensivo con i loro limiti.

    A. Coll // Diari de Tarragona