Intervista con Mons. Javier Echevarría
Tutti abbiamo ancora negli occhi l’immagine delle interminabili code per onorare le spoglie di Giovanni Paolo II e la richiesta –Santo subito!– che si levò dalla piazza già l’8 aprile 2005, giorno del funerale. Trascorsi sei anni e dinnanzi all’imminente beatificazione, è naturale ricordare e riflettere su una così imponente figura. Molti lo hanno fatto e lo faranno. Mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei, ha avuto il privilegio di essere molto vicino a Giovanni Paolo II durante tutto il suo pontificato. Michele Dolz gli ha chiesto di rievocare i tratti salienti della personalità del nuovo beato, soffermandosi, com’è logico, sul rapporto di Giovanni Paolo II con l’Opus Dei.
Lei ha vissuto molto da vicino tutto il pontificato di Giovanni Paolo II. Potrebbe riassumerlo in qualche modo?
L’attività di Giovanni Paolo II fu così ampia e la sua figura così significativa, che supera ogni possibile sintesi o riassunto. Rappresenta qualcosa di unico in questi decenni di storia. Ha mostrato di nuovo con i fatti che il Papa è il «servo dei servi di Dio», l’infaticabile difensore della verità, l’avvocato di tutti gli uomini e di tutte le donne, nella cui dignità crede con tutte le sue forze. Ha reso presente Cristo nel nostro tempo, ha portato l’umanità a cercare in Gesù la risposta alle domande ultime sull’esistenza.
E della sua persona, che cosa le è rimasto più impresso?
Giovanni Paolo II insistette spesso sul fatto che ogni uomo, ogni donna, raggiunge la sua pienezza nella donazione, nel dono di sé stesso a Dio e agli altri. Ed egli personalmente si donò al Signore e alla Chiesa con costante generosità e autentico sacrificio. La differenza tra il Papa pieno di forza fisica che prese il timone della Chiesa nel 1978 e il Giovanni Paolo II degli ultimi anni, chinato sotto il peso della fatica e della malattia, non indica soltanto il passare del tempo: rivela anche la misura totale della sua donazione. In un’occasione accompagnai mons. Álvaro del Portillo nell’appartamento pontificio in un’ora avanzata della sera. Mentre attendevamo l’arrivo del Papa, sentimmo i passi di qualcuno che avanzava lungo un corridoio come trascinando i piedi. Era il Santo Padre, molto affaticato. Don Álvaro esclamò: «Santità, com’è stanco!». Il Papa lo guardò e con voce ferma e amabile rispose: «Se a quest’ora non fossi stanco, sarebbe segno che non avrei compiuto il mio dovere».
Cercando comunque di fare questi «riassunti impossibili», che cosa ha lasciato alla Chiesa Giovanni Paolo II?
Ci la lasciato uno splendido tesoro di dottrina e di esempio di carità pastorale. Del suo pontificato metterei in rilievo la spinta verso una nuova evangelizzazione attraverso la vita ordinaria, attraverso le persone attivamente presenti in tutti i campi dell’impegno umano, con un comportamento coerente con la fede.
Forse per questo s’intese molto bene con l’Opus Dei, il cui spirito è la santificazione e l’apostolato nella vita ordinaria...
Devo chiarire che la venerazione e la gratitudine dei fedeli dell’Opus Dei si estendono a tutti i Papi, per il lavoro che hanno svolto per il bene della Chiesa universale e perché tutti, da Pio XII a oggi, sono stati provvidenziali per lo sviluppo degli apostolati dell’Opus Dei. Con Giovanni Paolo II c’è un particolare debito di gratitudine, perché durante il suo pontificato ci sono stati eventi di speciale importanza per la storia dell’Opera, come l’erezione di questa parte della Chiesa in Prelatura personale, la beatificazione e la canonizzazione di san Josemaría o la creazione della Pontificia Università della Santa Croce. Senz’altro il Papa vedeva nell’Opera uno strumento efficace nella linea dell’evangelizzazione attraverso la vita ordinaria. Ma al tempo stesso direi che non ebbe una predilezione speciale per l’Opus Dei: Giovanni Paolo II fu veramente il Papa di tutti, un padre sensibile ai carismi che lo Spirito Santo suscita. Penso che, con lui, milioni di persone si sono sentite «figli prediletti»; e con questa gioia e gratitudine quotidiana hanno vissuto i fedeli dell’Opus Dei.
Giovanni Paolo II conosceva l’Opus Dei da molto tempo?
Durante il Concilio Vaticano II gli presentarono, nell’aula conciliare, don Álvaro del Portillo, ma dopo non ci furono altri contatti fino a che nel 1971 il giovane cardinale di Cracovia, Karol Wojtyla, durante un Sinodo dei vescovi a Roma, partecipò a una conferenza del cardinal Höffner organizzata dal CRIS, Centro romano d’Incontri sacerdotali, promosso da alcuni sacerdoti dell’Opus Dei. In quell’occasione gli chiesero un’intervista sul sacerdozio per una pubblicazione del CRIS, perché era interessante ascoltare la voce di un vescovo che subiva la tirannia comunista. Prese nota delle domande e, dopo alcune settimane, inviò trentun cartelle scritte a mano in polacco. All’inizio di ogni pagina – era una carta di pessima qualità – aveva vergato una giaculatoria, Totus tuus, e alcuni versetti dalla sequenza dello Spirito Santo: Veni Sancte Spiritus… Dulce refrigerium… In labore requies… O lux beatissima… Reple cordis intima…
Di nuovo, nel 1974, il CRIS lo invitò come relatore a un ciclo d’incontri su Esaltazione dell’uomo e sapienza cristiana. Il tema trattato dal cardinal Wojtyla fu L’evangelizzazione e l’uomo interiore. Fu un discorso di grande profondità con un riferimento finale all’espressione con cui mons. Escrivá indicava la via per plasmare sulla terra la pace di Cristo: «Santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro e santificare con il lavoro». Il testo venne poi pubblicato in un libro insieme ad altri interventi di Wojtyla.
Nei primi tempi del suo pontificato, Giovanni Paolo II era solito regalare quel libro ai suoi visitatori. Quattro anni più tardi il cardinal Wojtyla venne a Villa Tevere, sede centrale dell’Opus Dei, a pranzo con don Álvaro. Fu un momento molto amichevole. Dopo, quando andammo a fare la visita al Santissimo Sacramento, il cardinale s’inginocchiò su un inginocchiatoio di legno che è lì conservato come una reliquia perché fu utilizzato da Pio VII e da san Pio X. E da san Josemaría, certo, al quale lo avevano regalato i nipoti di san Pio X. Quando don Álvaro gli spiegò questi particolari, il cardinal Wojtyla scese immediatamente dall’inginocchiatoio e s’inginocchiò sul pavimento dopo aver baciato la reliquia. Fu un gesto spontaneo di umiltà che non ho dimenticato. Si affezionò molto a don Álvaro, soprattutto dopo la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Le persone sante si capiscono molto bene fra di loro.
Il Papa & don Alvaro da mons. Deskur
Potrebbe raccontare qualche ricordo dei suoi primi incontri col nuovo Papa?
Inaspettatamente il primo incontro ebbe luogo il giorno dopo l’elezione, il 17 ottobre 1978. Mons. Andrea Deskur, il vescovo polacco che era allora presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali, ed era amico fraterno di don Álvaro e ancor più amico di Karol Wojtyla, fin dalla giovinezza, era ricoverato al Policlinico Gemelli a causa di un ictus sopravvenuto qualche giorno prima. Il giorno dell’elezione del Papa, don Álvaro telefonò a Deskur. Non voleva dargli direttamente la buona notizia per non provocargli un’emozione forse dannosa.
Si limitò a domandargli: «Andrea, sai chi hanno eletto Papa?». Deskur rispose: «Non potevano fare elezione migliore». E aggiunse: «Se vieni domani lo incontrerai». Don Álvaro pensò che il malato delirasse: come faceva a uscire dal Vaticano un Papa appena eletto? Il giorno dopo don Álvaro andò comunque a visitare il suo amico. Io lo accompagnai. E quale sorpresa quando uscendo dalla stanza del malato ci dissero che dovevamo attendere in un angolo con altre persone perché era arrivato il Papa e avevano bloccato l’uscita del piano. Maggior sorpresa ancora quando, nell’abbandonare la stanza del paziente, Giovanni Paolo II si rivolse verso don Álvaro e lo abbracciò. Don Álvaro si commosse filialmente e nel baciare l’anello al nuovo Pontefice notò che aveva il rosario in mano.
Furono giorni molto intensi, quelli dell’inizio del pontificato. Potemmo vedere il Papa con una frequenza che non avremmo immaginato. Per esempio, poco dopo l’episodio che ho raccontato, don Álvaro volle andare a pregare al santuario della Mentorella, vicino a Roma, per raccomandare il nuovo Papa all’intercessione della santissima Vergine. E lì, appoggiato al cofano dell’automobile, scrisse una cartolina a Giovanni Paolo II nella quale manifestava il suo desiderio di aiutarlo con la preghiera; metteva inoltre a sua disposizione le più di sessantamila messe che quotidianamente i fedeli dell’Opus Dei offrivano per colui che era a capo dell’Opera: era, precisava in quelle righe, il miglior aiuto che poteva offrirgli. Dopo pochi giorni ricevette una telefonata dello stesso Papa: voleva ringraziarlo di quel gesto; dal tono di voce si percepiva che era commosso dal tesoro che era stato messo nelle sue mani, e si può dire che si toccava il grande amore del Pontefice all’Eucaristia.
Pochi giorni dopo, il 28 ottobre, Giovanni Paolo II ricevette per la prima volta don Álvaro in un’udienza informale. Eravamo presenti anche don Joaquín Alonso e io, e potemmo vedere come il Papa ascoltava con molta attenzione e affetto quanto don Álvaro gli riferiva. Ricordo che affermò con sicurezza, dando un significativo e affettuoso colpo di pugno sul tavolo, che la Chiesa avrebbe superato tutte le difficoltà con l’aiuto della Madonna, il primo Opus Dei, la più importante opera di Dio. Don Álvaro rispose che condivideva pienamente quella speranza. In quell’incontro don Álvaro commentò che, a motivo della sede vacante per l’improvviso decesso del venerato Giovanni Paolo I, non era stato possibile ricevere la lettera che il Papa aveva voluto inviare per il 50° anniversario della fondazione dell’Opus Dei. Mons. Del Portillo aggiunse che
Giovanni Paolo I aveva capito molto bene che l’Opus Dei, di fatto, non era un istituto secolare e che bisognava pensare alla soluzione giuridica opportuna.
E, riferendosi a quella lettera, Giovanni Paolo II disse: «La facciamo!». Il 5 dicembre di quell’anno, don Álvaro gli fece sapere che aveva pronte le arance che i polacchi sono soliti regalarsi il giorno di san Nicola, il 6 dicembre. Il Papa rimase sorpreso del fatto che conoscesse questo particolare e gli diede appuntamento per il giorno seguente. Insieme alle arance gli portammo diversi libri di san Josemaría, che il Papa fece collocare nell’ufficio dove lavoravano alcuni dei suoi collaboratori nella preparazione dei discorsi.
Quando bisognava riempire San Pietro...
Questi incontri «fuori programma» sembrano molto caratteristici di Giovanni Paolo II, il quale, soprattutto all’inizio, destò sorpresa col suo modo diretto di rapportarsi alla gente. Ma ci furono anche udienze ufficiali?
Certamente, tra l’altro perché si desiderava chiedere al Santo Padre – come ho già ricordato – la conclusione del cammino giuridico dell’Opus Dei, già propiziato da Paolo VI nella prima udienza concessa a don Álvaro del Portillo. E, in effetti, il Papa mosse i passi necessari per giungere a questa meta. Al tempo stesso, di quei primi mesi serbo un ricordo particolarmente gradito. Per l’Epifania 1979 era programmata l’ordinazione, nella Basilica di San Pietro, del successore del Papa nell’arcidiocesi di Cracovia, mons. Macharski. Il Santo Padre voleva celebrarla sull’altare della Confessione, ma gli suggerirono di utilizzare l’altare della Cattedra, poiché sarebbe stato molto difficile riempiere di gente la basilica e poteva risultare poco solenne. Non so chi propose al Papa di rivolgersi a mons. del Portillo per chiedergli di incoraggiare molte persone a partecipare all’ordinazione.
In quel momento ci trovavamo in un viaggio pastorale per diversi Paesi europei. In Svizzera ricevemmo la comunicazione da Roma. Di fronte alla richiesta del Papa, come sarebbe successo in altri momenti, don Álvaro ci mise tutto lo sforzo per mobilitare le persone dell’Opera, e queste i loro amici, allo scopo di riempire la basilica. E si riempì. Personalmente, don Álvaro non partecipò alla cerimonia perché desiderava che l’affetto dei partecipanti fosse tutto rivolto a Giovanni Paolo II e al nuovo arcivescovo. Alla fine della celebrazione il Papa ringraziò l’Opus Dei. Era la prima volta che un Papa faceva un riferimento pubblico all’Opera nella Basilica di San Pietro.
In varie occasioni il Papa contò sull’aiuto dei fedeli dell’Opus Dei per mobilitare molte persone...
In quei primi momenti, soprattutto. In seguito il Santo Padre poté contare anche sul sostegno di molti altri figli fedeli. Ricordo che Giovanni Paolo II volle, fin dall’inizio, celebrare in San Pietro le Messe per gli studenti universitari, come faceva a Cracovia. Facemmo del nostro meglio per aiutarlo a instaurare questa tradizione. Don Álvaro suggerì che si stampassero degli inviti personali nei quali si indicasse, oltre ai dati sulla Messa, un ampio orario di confessioni nella Basilica: egli s’impegnava a chiamare decine di confessori. Così fece, e fu una cosa molto indovinata.
In uno degli inviti che ricevemmo dal Papa per pranzare nell’appartamento pontificio, don Álvaro parlò della necessità di promuovere le confessioni per facilitare alla gente l’incontro con il Signore, sensibilizzando i sacerdoti e i laici a svolgere questo apostolato. Per illustrare quanto diceva, raccontò alcuni aneddoti sui buoni risultati ottenuti in tutto il mondo con questo modo di aiutare le anime. Giovanni Paolo II, con un sorriso d’assenso, commentò: «Lei mi ricorda i buoni parroci zelanti dei miei tempi, che consumavano la vita in questo modo di accudire le anime, perché le amavano con tutte le loro forze». Altre volte, in conversazioni simili, il Papa diceva, riferendosi ai fedeli dell’Opus Dei, laici e sacerdoti: «Voi avete il carisma della Confessione». So che lo diceva anche ad altre persone, parlando dell’Opus Dei, perché ce l’hanno riferito.
Immagino che situazioni simili si saranno ripetute nei viaggi di Giovanni Paolo II per il mondo, dovunque ci fossero membri dell’Opus Dei.
Dappertutto i fedeli della Prelatura, come gli altri cattolici, gli hanno dimostrato affetto e sostegno, naturalmente. Il Papa seppe conquistare il cuore di tutti e nei cinque continenti ha raccolto l’affetto e l’entusiasmo della gente.
Nei primi anni del pontificato si svolsero i tramiti finali per l’erezione dell’Opus Dei in Prelatura personale. Potrebbe raccontare qualcosa al riguardo?
Già Paolo VI e Giovanni Paolo I avevano manifestato l’intenzione di concludere l’iter giuridico dell’Opera, ma il Signore li chiamò prima che potessero affrontare la questione. Giovanni Paolo II volle interessarsene fin dall’inizio. Mise lo studio nelle mani del cardinal Sebastiano Baggio, prefetto della Congregazione per i Vescovi, e fu nominata una commissione paritetica composta da esperti di Diritto canonico della Santa Sede e dell’Opus Dei. Il Papa seguì con attenzione tutti i passi, conosceva molto bene i particolari. I dettagli tecnico-giuridici sono ben noti. Qui mi piacerebbe mettere in rilievo l’interesse paterno del Santo Padre in quel processo, pur lasciando ai canonisti intera libertà per studiare le questioni. Fu anche molto paterno – non solo prudente – nell’affrontare le difficoltà provocate dalle obiezioni di alcuni vescovi, del resto comprensibili trattandosi di una figura canonica nuova. Egli stesso cercò di farsene carico, disponendo che si considerassero quelle obiezioni e che si risolvessero in modo adatto.
In che misura Giovanni Paolo II intervenne nel governo dell’Opus Dei? Diede indicazioni?
La cosa più importante, com’è ovvio, fu l’erezione dell’Opus Dei in Prelatura personale, atto con il quale si metteva questa parte della Chiesa, composta da laici e sacerdoti, uomini e donne di ogni classe e condizione sociale, sotto la giurisdizione di un prelato perché – anche con il suo presbiterio – servisse meglio la Chiesa universale, in comunione con le Chiese particolari. Per il resto, suggeriva al Prelato delle iniziative apostoliche, poiché era molto convinto dell’efficacia dell’apostolato personale di ogni fedele dell’Opus Dei e di coloro – persone di tutti gli ambienti sociali – che si accostano al lavoro apostolico dell’Opera.
Una richiesta esplicita del Papa, per esempio, fu l’erezione del seminario internazionale Sedes Sapientiae, in Roma, con l’obiettivo di formare sacerdoti che potessero essere dopo formatori nei seminari dei diversi Paesi, anche di quelli che avevano appena raggiunto la libertà dopo il periodo di dominio sovietico. A suggerire queste iniziative di apostolato lo incoraggiava la risposta di don Álvaro, sempre pronta e fedele. Giovanni Paolo II andava parlando della nuova evangelizzazione almeno dal 1981, ma nel 1985 diede un forte impulso a questa priorità pastorale, soprattutto nei Paesi dell’Europa occidentale e dell’America del Nord, dove i sintomi del secolarismo crescevano in modo allarmante. Una data simbolica è l’11 ottobre 1985, giorno in cui il Santo Padre concluse un Sinodo straordinario di vescovi celebrato a Roma, invitando la Chiesa a un rinnovato impulso missionario, desiderio che confidò al prelato in un colloquio.
Don Álvaro si fece eco immediatamente di questo programma e già in data 25 dicembre dello stesso anno scrisse una lettera pastorale ai fedeli della prelatura, spingendoli a collaborare con tutte le forze in questo compito, che era particolarmente necessario soprattutto nei Paesi della Vecchia Europa, degli Stati Uniti e del Canada. Da quel momento in poi don Álvaro raddoppiò il suo sforzo pastorale in questo settore, con viaggi frequenti nei Paesi europei. Gli anni dal 1987 al 1990 sono caratterizzati dall’estensione di questo impegno in altri continenti: Asia e Oceania, America settentrionale e Africa.
Il Papa invitò don Álvaro a iniziare il lavoro dell’Opera nei Paesi scandinavi. E, naturalmente, in Polonia. Puntualizzava che era molto importante diffondere tra il popolo di Dio in Polonia la coscienza della necessità di una direzione spirituale, e sapeva come questa viene praticata assiduamente nell’Opus Dei. Questo incoraggiamento a continuare nella missione evangelizzatrice con lo spirito proprio dell’Opus Dei, il Papa continuò a darlo a don Álvaro – come poi fece con me – fino al termine della sua vita. Il 13 gennaio 1994 gli concesse un’udienza nella quale il Prelato lo informò sullo sviluppo dell’apostolato dei fedeli dell’Opus Dei e di altre iniziative che aveva in progetto; il Papa insistette sulla necessità di continuare a impegnarsi nella nuova evangelizzazione della società.
Don Álvaro usciva da quelle udienze molto confortato, con la rinnovata consapevolezza del bisogno di fare sempre l’Opus Dei – come aveva visto in san Josemaría – vivendo in piena unione col successore di Pietro e con tutti i vescovi. In quelle udienze il Papa diede diverse indicazioni, insieme alla spinta per continuare nei lavori apostolici che già si svolgevano: per esempio, la raccomandazione che si lavorasse molto in profondità con gli intellettuali, specialmente attraverso coloro che già si trovavano in quell’ambiente, cercando di sostenerli nel loro compito e mostrando loro che la fede e la ragione non vanno per vie separate né tantomeno opposte. Giovanni Paolo II pensava che gli intellettuali avevano un ruolo chiave per la nuova evangelizzazione, e si interessava affinché venisse offerta loro una cura pastorale particolare. Allo stesso modo considerava prioritaria l’evangelizzazione di coloro che occupano cariche di responsabilità nell’ambito politico ed economico, perché è il modo più efficace di migliorare la situazione di tutti, in primo luogo dei più bisognosi. In questo senso, stimolava i fedeli della prelatura e molte altre persone che lavoravano in business schools, dicendo: «Se coloro che studiano queste materie diventano cristiani, si convertono, sarà più facile sradicare la povertà».
E don Álvaro dava suggerimenti al Papa sulla Chiesa?
In certe occasioni ne chiedeva il Santo Padre. Già alla fine del 1978, quando si interrogava sull’opportunità d’intraprendere il viaggio in Messico per la riunione del CELAM – era una situazione assai delicata – il Papa disse a don Álvaro, davanti ad altre persone, che aveva sentito diverse opinioni in proposito. Chiaramente gli stava chiedendo la sua. Con semplicità, don Álvaro gli suggerì di fare il viaggio, perché avrebbe comportato un gran bene per la Chiesa in Messico, in America Latina e in tutto il mondo. Il tono di voce di don Álvaro era misurato: faceva capire che qualunque decisione prendesse il Papa, a lui andava bene. Il viaggio si fece coi risultati che tutti conosciamo. Naturalmente, il Papa si sarà consultato con altre persone e con gli organismi della Curia romana.
Dopo il viaggio in Messico, ci invitò a pranzo e raccontò con gioia molti particolari della sua visita a quel Paese. Non parlava del suo lavoro, ma della fede e della risposta del popolo messicano alla presenza del successore di san Pietro. Varie volte don Álvaro suggerì a Giovanni Paolo II di scrivere una lettera o un’esortazione su san Giuseppe, per favorire la devozione dei fedeli e per chiedergli di proteggere la Chiesa. Per questo fu straordinaria la sua gioia quando venne pubblicata l’esortazione apostolica Redemptoris Custos, del 15 agosto 1989.
Ricordo un altro suggerimento sulla vita di pietà. Avevamo invitato a pranzo a Villa Tevere un canonico spagnolo del Capitolo di San Pietro, mons. Pedro Altabella. Venne fuori il discorso sul bene che faceva alle anime l’esposizione permanente del Santissimo Sacramento in alcune chiese. Don Joaquín Alonso commentò che sarebbe un bene molto grande seguire questa consuetudine in San Pietro e don Álvaro lo appoggiò vivamente. Il canonico prese al volo il suggerimento e disse che si sarebbe mosso per farlo arrivare in altissimis. Poco tempo dopo iniziava nella basilica vaticana questo culto all’Eucaristia, che ha prodotto tanti buoni frutti. Era l’anno 1981.
La storia di un mosaico
A proposito di questi suggerimenti, ho sentito dire che qualche membro dell’Opus Dei ebbe a che fare col mosaico della Madonna Mater Ecclesiae, ben visibile in Piazza San Pietro.
Ogni anno vengono a celebrare la Pasqua a Roma alcune migliaia di studenti che frequentano i centri dell’Opus Dei in tutto il mondo. Nel 1980, nel corso di un incontro con Giovanni Paolo II, uno studente universitario gli disse che, osservando la Piazza San Pietro, aveva notato che era coronata da statue di santi ma non c’era alcuna immagine della Madonna. «Forse se ne potrebbe mettere una, Santo Padre», suggerì. Al che il Papa rispose subito: «Molto bene, molto bene!».
Quando gli raccontarono questo aneddoto, don Álvaro chiese all’architetto Javier Cotelo di pensare in che punto della piazza si potrebbe mettere un’immagine che attirasse gli sguardi. Javier fece subito un progetto che prevedeva un mosaico in un angolo del Palazzo Apostolico. Al Papa l’idea piacque molto e ordinò che venisse eseguita. L’8 dicembre 1981, solennità dell’Immacolata Concezione, il Santo Padre benedisse l’immagine e disse: «Oggi, recitiamo la nostra preghiera dell’Angelus, per la prima volta, davanti all’icona e sotto gli occhi della Vergine santissima, Madre della Chiesa, che s’affaccia su Piazza San Pietro dal mosaico, collocato su di un lato di questo Palazzo Apostolico. Nella cornice di questa piazza stupenda mancava un’immagine… Benedirò ora l’immagine della Madonna Madre della Chiesa, esprimendo l’auspicio che quanti verranno in questa Piazza di san Pietro levino verso di Lei lo sguardo, per rivolgerle, con sentimento di filiale confidenza, il proprio saluto e la propria preghiera».
Due giorni dopo, il Papa invitò don Álvaro a concelebrare la Santa Messa nella sua cappella privata e a fare colazione con lui: voleva esprimergli la sua soddisfazione per aver collocato l’immagine della Madonna in quel luogo. Più tardi il Papa ci fece arrivare come ricordo il cartone utilizzato per l’elaborazione del mosaico.
In tutti questi ricordi si nota un tratto davvero affettuoso da parte del Papa
I particolari di affetto paterno di Giovanni Paolo II furono tanti e sarebbe prolisso ricordarli. Mi viene alla memoria il 70° compleanno di don Álvaro, l’11 marzo 1984. Ricevette in casa un quadro della Madonna di Czestochowa con alcune righe autografe del Papa, piene di affetto verso la sua persona. Ma don Álvaro non si riteneva personalmente meritevole di quelle prove di affezione. Al tempo stesso penso che tutte le persone che frequentarono Giovanni Paolo II percepivano che «sapeva amare».
Il Papa ha visitato qualche centro dell’Opus Dei?
Nel piano delle visite pastorali alle parrocchie di Roma, fu presente anche nelle tre affidate all’Opus Dei e si trattenne nei centri annessi. Forse il fatto più singolare a questo riguardo è che, quando era in buona salute, passò varie volte da una casa per ritiri dell’Opera in Abruzzo, chiamata Tor d’Aveia. La tenuta è situata sulle pendici di un monte e da lì si possono fare delle belle gite oppure, d’inverno, andare a sciare. Com’è noto, il Papa aveva bisogno di prendersi un po’ di riposo ogni tanto e lì poteva farlo in modo discreto. Usciva dal Vaticano in privato, seguito dalla macchina della scorta, e arrivava a Tor d’Aveia – a poco più di un’ora da Roma – senza che nessuno lo notasse. Era un bel riposo per il Papa. Le donne dell’Opera incaricate della casa poterono avere delle chiacchierate con lui e con il suo segretario, ma serbarono il silenzio affinché nessuno disturbasse il Papa. Perfino don Álvaro ci andò solo una volta per dargli il benvenuto. In maniera analoga, Giovanni Paolo II soggiornò una volta in un’altra casa che utilizziamo a Ovindoli, non lontano da lì, dove c’è una stazione sciistica.
Lei è stata molte volte nella residenza del Papa, invitato a pranzo. Di che cosa si parlava in quegli incontri?
Di molti argomenti, in un contesto famigliare: la situazione della Chiesa, l’apostolato dei fedeli dell’Opus Dei in diversi Paesi ecc. Una di quelle volte regalò a don Álvaro un’edizione piccola del Nuovo Testamento, che egli utilizzò in seguito durante i viaggi per ricordare espressamente il Romano Pontefice. Non la usava nelle altre occasioni perché era scritto in caratteri molto minuti.
Qualche ricordo sull’attentato del 1981?
In quei momenti eravamo riuniti con il Consiglio del Prelato per gli apostolati femminili. Appena ricevuta la notizia, don Álvaro interruppe la riunione e ci recammo al Policlinico Gemelli. Don Álvaro poté passare, su invito di mons. Angelini, nel locale dov’erano alcuni membri della Curia, mentre i medici operavano il Santo Padre. Don Álvaro chiese immediatamente a tutta l’Opera di pregare per il Papa. Andavamo con frequenza al Gemelli, pur sapendo che non potevamo entrare a fargli visita: ci bastava pregare per la sua persona in quella maggiore vicinanza fisica. All’epoca del viaggio in Messico, don Álvaro aveva regalato al Papa una cassetta con canzoni messicane; sono canzoni d’amore che il popolo canta anche alla Madonna di Guadalupe. Ebbene, un giorno in cui ci permisero di visitare il Santo Padre al policlinico, lo trovammo in ascolto di quelle canzoni su un registratore. «Mi aiutano a pregare», commentò. Nulla faceva presagire quell’incontro, ma fu lo stesso Papa a chiedere che ci facessero passare nella sua stanza. Don Álvaro mise filialmente una mano sul braccio del Santo Padre e comprovò che la febbre era molto alta. L’incontro durò poco, com’è logico. Ma si notava che la Chiesa pregava per Pietro, come a Gerusalemme, e che Pietro offriva tutto per la Chiesa di Gesù Cristo.
Non abbiamo ancora parlato della beatificazione e canonizzazione di san Josemaría, proclamate da Giovanni Paolo II.
Il Papa era molto contento di elevare agli altari il fondatore dell’Opera. Come si ricorderà, prima del 1992 ci furono alcune incomprensioni che produssero un certo chiasso. Erano i colpi di coda del demonio per impedire ciò che, come disse Giovanni Paolo II subito dopo la beatificazione, fu «una grande manifestazione di fede». Terminata la celebrazione, Giovanni Paolo II manifestò la sua gioia nel vedere quella moltitudine in raccoglimento e preghiera, e disse a don Álvaro, che lo accompagnava verso la basilica di San Pietro: «Adesso capisco perché certi settari non volevano che ci fosse questa manifestazione di fede». E aggiunse che ringraziava il Signore per quella cerimonia nella quale aveva beatificato anche Madre Bakhita, canossiana, che gli aveva permesso di far conoscere a tutto il mondo la situazione tragica della Chiesa in Sudan. Insomma, quel che è rimasto per la storia è il bene che la devozione a san Josemaría sta facendo in tutta la Chiesa. E il Papa di questo era cosciente. Nella canonizzazione il Papa definì san Josemaría «il santo dell’ordinario», molto in sintonia con quella sua idea di evangelizzare la società attraverso la vita ordinaria: nella chiesa domestica che è ogni famiglia, nel lavoro, nello sport, nei rapporti sociali.
Ha parlato delle critiche, che non risparmiarono neanche Giovanni Paolo II. Con quale spirito affrontava
il Papa queste contrarietà?
Era molto soprannaturale e sapeva caricarsi la croce. Inoltre era molto determinato e andava avanti cercando il bene della Chiesa. Una volta don Álvaro partecipò alla recita del Rosario con il Papa. Ci andava solitamente un gruppo di persone e in quell’occasione era presente madre Teresa di Calcutta. Alla fine della preghiera, il Papa presentò don Álvaro a madre Teresa, la quale lo ringraziò perché dei sacerdoti dell’Opera avevano accudito molto bene le sue suore in varie parti del mondo. Allora il Papa le domandò, tra il serio e il faceto: «Madre, perché criticano il Papa e l’Opus Dei mentre tutti parlano bene di madre Teresa?». E lei rispose con grande sincerità: «Preghino per me perché sia umile».
Giovanni Paolo II volle pregare davanti alle spoglie di don Álvaro il giorno della sua morte. Potrebbe riferire qualche cosa di quei momenti?
L’11 marzo 1994, a motivo del suo 80° compleanno, don Álvaro ricevette un chirografo di Giovanni Paolo II, scritto su una fotografia: «Al venerato e amato fratello Álvaro del Portillo, che con l’anima grata al Signore, celebra il suo ottantesimo compleanno, esprimendogli il mio vivo apprezzamento per il suo fedele lavoro a servizio della Chiesa e implorando abbondanti grazie celesti per un ministero ancora prolungato e ricco di frutti, impartisco di cuore una speciale benedizione apostolica, facendola estensiva con affetto a tutti i sacerdoti e laici della Prelatura».
La sera del 22 marzo 1994 eravamo tornati da un pellegrinaggio in Terra Santa, e poche ore dopo, all’alba del 23, il Signore chiamò a Sé il prelato dell’Opus Dei. Comunicai la notizia a mons. Stanislaw Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II, verso le sei e mezza del mattino. Don Stanislaw mi disse che lo avrebbe comunicato al Santo Padre e che avrebbero raccomandato a Dio nella Messa l’eterno riposo del Prelato. Verso le dieci del mattino ci giunse l’amabile sorpresa di una chiamata telefonica del prefetto della Casa Pontificia, mons. Monduzzi, per informare che il Santo Padre desiderava venire nel pomeriggio nella sede della Curia prelatizia per pregare dinanzi alla salma. Non mi soffermo sui particolari di questa visita, ma voglio segnalare l’interesse manifestato da Giovanni Paolo II. Mi domandò a che ora e dove don Álvaro aveva celebrato la sua ultima Messa, perché sapeva che era ritornato a Roma il giorno prima. Quando gli risposi che aveva celebrato alle undici del mattino nella chiesa del Cenacolo, mi sorprese che il Papa facesse rapidamente il calcolo tra l’ora della Santa Messa e quella della sua dipartita verso il Cielo. Alla fine lo ringraziai per la visita, così insolita, ma il Papa tagliò corto dicendo: «Era un dovere, era un dovere!».
E Lei, dopo la sua nomina a prelato nel 1994, ebbe occasioni simili di rapporto con Giovanni Paolo II?
Il Papa continuò a essere ugualmente paterno e affettuoso. Per esempio, mi telefonò personalmente per annunciarmi la nomina a Prelato. Io, in diverse occasioni, gli diedi informazioni sullo sviluppo degli apostolati dell’Opera e ho potuto comprovare la sua gioia. Pochi mesi dopo la nomina, volle conferirmi l’ordinazione episcopale. A partire dal 2000 il Papa era già molto malato, ma continuò ad avere la delicatezza di ricevermi in udienza con una certa frequenza, per avere notizie delle attività apostoliche dell’Opera in tutto il mondo. Tre giorni dopo la morte del Papa andai con don Joaquín Alonso a pregare davanti alle sue spoglie nella basilica di San Pietro e a salutare don Stanislaw, il quale ci invitò a pregare nella cappella privata e dopo ci incoraggiò a salire sul terrazzo del Palazzo Apostolico. Voleva mostrarci il fiume di gente che si recava a rendere l’ultimo omaggio al Papa e la quantità di televisioni di tutto il mondo che si erano installate nei pressi di Piazza San Pietro. Poco dopo mi fece dono di una tonaca di Giovanni Paolo II affinché la conservassimo come una reliquia.