La luce della fede (VII): La vita senza Dio

Dio è un Padre amorevole che ha creato l’uomo perché raggiungesse la felicità. L’uomo, però, ha disubbidito e ha preferito se stesso, anziché l’Amore di Dio.

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica inizia con questa domanda: «Qual è il disegno di Dio per l’uomo?». E risponde: «Dio, infinitamente perfetto e beato in se stesso, per un disegno di pura bontà ha liberamente creato l’uomo per renderlo partecipe della sua vita beata»[1]. In altre parole, Dio ha creato l’uomo perché sia felice e la via per riuscirci è andare da Lui (cfr. Mc 3, 13), partecipare alla sua vita beata. A questa felicità sono indirizzati tutti gli insegnamenti di Gesù: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11). Dio Padre, come tutti i padri del mondo, vuole che i suoi figli siano felici.

Questo disegno di Dio, è iscritto nel più profondo del nostro essere: l’uomo cerca, desidera e persegue la felicità

Questo disegno di Dio, anelito di un amore totale, è iscritto nel più profondo del nostro essere: l’uomo cerca, desidera e persegue la felicità in tutto il suo agire, e specialmente in tutti i suoi desideri e i suoi amori. Ventitré secoli fa Aristotele si era già reso conto di queste cose e nel primo capitolo della sua Etica nicomachea aveva scritto che tutti noi uomini siamo d’accordo a definire la felicità come il bene supremo e in base a questo ordiniamo tutti gli altri beni (salute, successo, onore, denaro, piaceri…)[2].

La realtà

In teoria, chiunque sa queste cose e potrebbe dire: «Io voglio proprio essere felice». Eppure, ciò non è affatto facile, perché spesso l’uomo non riesce a raggiungere la felicità. Se qualche volta abbiamo avuto l’esperienza di osservare il volto delle persone che ci stanno attorno durante un viaggio in metrò o in autobus, forse abbiamo individuato facce segnate dalla tristezza, dall’angoscia o dal dolore. «Gli uomini muoiono e non sono felici», sentenziava con un certo pessimismo uno scrittore ateo del XX secolo. E può darsi che anche noi ci siamo interrogati interiormente: «Signore, che cosa succede?».

Il progetto della Creazione includeva la nostra felicità, ma qualcosa è andato storto.

Il progetto della Creazione includeva la nostra felicità, ma qualcosa è andato storto.Il progetto della Creazione includeva la nostra felicità, ma qualcosa è andato storto. Non sempre otteniamo di essere felici e spesso, forse per questo, non riusciamo a fare felici gli altri. Non solo, ma non raramente siamo causa di sofferenze reciproche, comportandoci in maniera crudele e perversa. Anche noi dovremmo ripetere spesso: «Signore, abbi pietà del tuo popolo! Signore, perdono per tanta crudeltà!»[3], come pregava papa Francesco durante la visita ad Auschwitz-Birkenau durante la Giornata Mondiale della Gioventù del 2016. Più tardi, quella stessa sera, rivolgendosi alla folla dalla finestra dell’arcivescovado, aggiunse: «Sono stato ad Auschwitz, a Birkenau. Quanto dolore, quanta crudeltà! Com’è possibile che noi uomini, creati a somiglianza di Dio, siamo capaci di fare queste cose?».

Che cosa succede? Perché tante persone non sono felici? Perché proprio le realtà che promettono tanta felicità – l’amicizia, i legami familiari, le relazioni sociali, le cose create – a volte sono fonte di tanta insoddisfazione, amarezza e tristezza? Com’è possibile che noi uomini siamo capaci di produrre tanti guai? Le risposte a queste pungenti e dolorose domande convergono in un’unica parola: il peccato.

Un nemico della felicità

Etimologicamente, la parola «peccato» viene dal latino peccatum, che significa «delitto, mancanza o atto colpevole». In greco, la lingua del Nuovo Testamento, «peccato» si dice hamartia, che significa «fallire il traguardo, non centrare il bersaglio»e si applicava soprattutto al guerriero che con la sua lancia falliva il bersaglio. Infine, in ebraico il termine comune per «peccato» è jattá’th, che significa ancheerrare, nel senso di non raggiungere una meta, un cammino, un obiettivo o un bersaglio preciso.

E così, dunque, un primo significato del peccato è mancare il bersaglio. Lanciamo una freccia diretta alla felicità, ma sbagliamo il tiro. In questo senso il peccato è un errore, un tragico equivoco e, al tempo stesso, un inganno: cerchiamo la felicità dove non c’è (come la fama o il potere), inciampiamo nel nostro cammino per raggiungerla (per esempio, accumulando beni superflui che impediscono al nostro cuore di provvedere alle necessità degli altri) o, peggio ancora, confondiamo il nostro anelito di felicità con un amore diverso (come nel caso di un amore infedele). Però, dietro al peccato c’è sempre la ricerca di un bene – reale o apparente – che pensiamo ci possa fare felici. Non comprenderemo il peccato finché non sapremo individuare l’anelito di felicità insoddisfatto che lo genera. Nostro Signore ci ha avvertito: «Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7, 21-22). Alcune volte un impetuoso desiderio di qualcosa che è peccato è dovuto a un insufficiente appagamento del desiderio fondamentale di amore, che provoca angoscia e tristezza, e al quale, erroneamente, si pensa di provvedere in malo modo. Per esempio, chi si sente poco amato e manca di vincoli affettivi saldi – con Dio, con la propria famiglia o con gli amici – facilmente reagirà con sfiducia e aggressività, ma anche con ingiustizia, alle pretese altrui per proteggerci e mettersi al sicuro; o cercherà un surrogato di questo amore in una relazione usa e getta, nel piacere o nelle cose materiali.

Soltanto l’amore di Dio sazia[4]. Benedetto XVI ne ha parlato in questi termini: «La felicità è qualcosa che tutti desideriamo, ma una delle grandi tragedie di questo mondo è che così tanti non riescono mai a trovarla, perché la cercano nei posti sbagliati. La soluzione è molto semplice: la vera felicità va cercata in Dio. Abbiamo bisogno del coraggio di porre le nostre speranze più profonde solo in Dio: non nel denaro, in una carriera, nel successo mondano, o nelle nostre relazioni con gli altri, ma in Dio. Egli solo può soddisfare il bisogno più profondo del nostro cuore»[5]. Invece, quando ci dimentichiamo di Lui, compare facilmente la frustrazione, la tristezza e la disperazione, conseguenze di un cuore insoddisfatto. Perciò è pieno di significato il consiglio di san Josemaría: «Non dimenticare, figliolo, che per te sulla terra c’è solo un male da temere e, con la grazia divina, da evitare: il peccato»[6].

L’offesa a Dio, Padre amorevole

Il Compendio del Catechismo definisce il peccato «un’offesa a Dio, nella disobbedienza al suo amore»[7]. Molta gente tuttavia si chiede: «A Dio importa veramente quello che io faccio, addirittura quello che penso? In che modo io posso arrecare danno a Dio? Forse Dio può soffrire, può provare dolore? In che modo io posso offendere Dio, che è assolutamente trascendente?».

IN GRECO, LA LINGUA DEL NUOVO TESTAMENTO, «PECCATO» SI DICE HAMARTIA, CHE SIGNIFICA «FALLIRE IL TRAGUARDO, NON CENTRARE IL BERSAGLIO»

Se per offendere intendiamo causare un danno, evidentemente Dio non può essere offeso da nulla di ciò che facciamo. Niente di ciò che io possa fare, causa un danno a Dio. Però Dio è Amore, è un padre pieno d’amore per i suoi figli e può avere compassione di noi. Non soltanto, ma Dio si è fatto uno di noi per prendere su di sé i nostri peccati e redimerci. Lo spiegava Benedetto XVI nella sua seconda enciclica: «Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire. L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene mostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato Qualcuno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio»[8]. San Paolo farà uso di una frase forte per fare riferimento al mistero di Cristo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore» (2 Cor 5, 21).

In qualche modo Dio soffre a causa del nostro peccato in quanto il peccato stesso danneggia noi. Egli non è un essere capriccioso che trasforma in peccato azioni di per sé indifferenti, e le proibisce perché gli dimostriamo la nostra obbedienza evitandole, ma un Padre amorevole che ci indica quello che ci può arrecare danno e può impedire la felicità alla quale siamo chiamati. I suoi comandamenti si potrebbero paragonare a un manuale di istruzioni dell’uomo – è bene tenere presente che il contenuto di questo manuale è stato iscritto nella natura creata dell’uomo ed è rivolto spontaneamente alla sua coscienza, senza che sia necessario aprire le pagine del manuale – per raggiungere la propria felicità e non intralciare quella altrui.

Il peccato danneggia l’amore che Dio ha per noi, quell’amore che vuole farci felici. In qualche modo, quando pecchiamo, è come se Dio si lamentasse tra le lacrime: «Ma che fai, figlio mio? Non capisci che questo danneggia te e gli altri miei figli? Non farlo! Non ingannarti! Guarda che lì non troverai ciò di cui senti la mancanza, la felicità, ma tutto il contrario! Ascoltami!». Proprio in questo senso si dice che il peccato «è un’offesa a Dio, nella disobbedienza al suo amore»[9]. Offendiamo il suo amore, lo mettiamo in dubbio con le nostre opere peccaminose.

Bisogna aggiungere che Dio non si spazientisce mai con noi; non adotta mai rivalse,neppure quando pecchiamo. In quei momenti è come se stesse soffrendo con noi e per noi in Cristo. Clemente di Alessandria diceva che «Dio, nel suo grande amore per gli uomini, difende l'uomo, come fa l'uccello madre, che vola sopra l'uccellino caduto dal nido, e mentre il serpente lo sta divorando, la madre svolazza intorno, piangendo i figli diletti (cfr. Dt 32, 11). Dio è un padre e cerca la sua creatura e guarisce la caduta e scaccia il serpente e riconforta l'uccellino, e lo esorta a volare di nuovo verso il nido»[10]. Così è Dio!

NON COMPRENDEREMO IL PECCATO FINCHÉ NON SAPREMO INDIVIDUARE L’ANELITO DI FELICITÀ INSODDISFATTO CHE LO GENERA.

Dio è come il padre della parabola del figlio prodigo, che scruta l’orizzonte per vedere se il figlio che ha peccato ritorna (cfr. Lc 15, 11-19). Il peccato ci allontana da Dio. Però questo non è vero da parte di Dio, ma soltanto da parte nostra. Sono parecchi i passi del Vangelo nei quali Gesù cerca il colloquio con i peccatori, e li difende dagli attacchi degli scribi e dei farisei. Dio non si allontana da noi, non smette di amarci. La distanza si crea nel nostro cuore, prima all’esterno e poi dentro di noi. Però Dio continua a essere legato a noi. Siamo noi che ci chiudiamo al suo amore. E basta un passo da parte nostra perché la sua misericordia entri nelle nostre anime. «Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15, 20). Il peccato è il nemico numero uno della felicità, ma può ben poco davanti alla misericordia di Dio: «Tutti siamo peccatori. Però Egli ci ama, ci ama»[11]. Questa è la nostra speranza.

Un attentato alla solidarietà umana

Dopo aver parlato dell’offesa a Dio, il Compendio aggiunge che il peccato, ogni peccato, «ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana»[12]. In realtà i due elementi sono uniti, perché l’uomo è sociale per natura. Però fissiamo la nostra attenzione sulla seconda parte: attenta alla solidarietà umana. Davanti a questa affermazione alcuni si domandano: «Perché il peccato personale è cattivo anche quando non coinvolge altre persone, se non arreco danno a nessuno?». In realtà abbiamo già visto che il peccato danneggia in ogni caso almeno una persona: me stesso. E proprio per questo offende Dio. Ma a questo punto dobbiamo vedere come ogni peccato, anche il più nascosto, ferisce l’unità degli esseri umani.

La Genesi descrive come il primo peccato spezza il filo dell’amicizia che univa la famiglia umana. Dopo la caduta, l’uomo e la donna ci vengono mostrati come se si indicassero reciprocamente con un dito accusatore: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato» (Gn 3, 12), dice Adamo. La sua relazione, prima marcata dallo stupore amante, ora passa sotto il segno del desiderio e del dominio: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gn 3, 16), dice Dio a Eva[13].

«NON DIMENTICARE, FIGLIOLO, CHE PER TE SULLA TERRA C’È SOLO UN MALE DA TEMERE E, CON LA GRAZIA DIVINA, DA EVITARE: IL PECCATO» (SAN JOSEMARÍA)

San Giovanni Paolo II lo spiegava in questi termini: «Poiché col peccato l'uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, anche il suo equilibrio interiore si rompe e proprio al suo interno scoppiano contraddizioni e conflitti. Così lacerato, l'uomo produce quasi inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli altri uomini e col mondo creato»[14]. Infatti, chi si lascia guidare dai peccati interni di rancore o di critica, sta già trattando ingiustamente gli altri, ed è impossibile che non si manifesti esternamente nella omissione dell’amore dovuto al prossimo o anche in mancanze esterne di carità verso di lui; chi commette peccati di impurità, sia pure interiori, altera la propria capacità di guardare e, dunque, di amare, e in realtà sta trattando gli altri, almeno alcuni, come oggetti e non come persone; chi, egoisticamente, pensa soltanto al proprio beneficio, difficilmente potrà smettere di commettere ingiustizie e rovinare il clima di fiducia che deve condividere con gli altri. In sostanza, il peccato introduce nell’uomo una divisione interna, una perdita di libertà tale che «non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società»[15].

Il peccato semina la divisione nel cuore degli uomini e si frappone sul loro cammino, mentre tutti insieme sono diretti verso la felicità. Davanti alla sua crudezza potrebbe farsi strada la tentazione del pessimismo e della tristezza, soprattutto se evitassimo di guardare Cristo. Contemplare il passaggio di Gesù caricato della Croce, dolorante ma sereno, fragile ma maestoso, ci colma di speranza e di ottimismo perché, per quanto grandi siano le nostre miserie e i nostri peccati, lì c’è Lui, che con «la sua caduta ci risolleva, [con] la sua morte ci risuscita. Alla nostra recidività nel male, Gesù risponde con la sua insistenza nel redimerci, con abbondanza di perdono. E, perché nessuno disperi, si rialza faticosamente, abbracciando la Croce»[16].

José Ángel Brage

[1]Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1

[2] Cfr. Aristotele, Etica a Nicomaco, nn. 1095-1097.

[3] Papa Francesco, Visita ad Auschwitz, 29-VIII-2016.

[4] Cfr. Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 361.

[5] Benedetto XVI, Discorso agli studenti della Residenza Universitaria Santa Maria di Twickenham, Londra, 17-IX-2010.

[6] San Josemaría, Cammino, n. 386.

[7] Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 392.

[8] Benedetto XVI, Enc. Spe Salvi (30-XI-2007), n. 39.

[9] Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 392.

[10]Clemente di Alessandria, Protréptico, 10.

[11]Papa Francesco, Parole pronunciate dalla finestra dell’Arcivescovado di Cracovia durante la Giornata Mondiale della Gioventù, 29-VIII-2016.

[12]Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 392.

[13] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 400.

[14]San Giovanni Paolo II, Es. ap. Reconciliatio et Paenitentia (2-XII-1984) n. 15.

[15]Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes (7-XII-1965), n. 10.

[16]San Josemaría, Via Crucis, VII stazione.