La Settimana Santa 2022 con papa Francesco

"La pace del Signore segue la via della mitezza e della croce: è farsi carico degli altri". In questo articolo sono raccolte le parole di papa Francesco in questa Settimana Santa, dalla Domenica delle Palme (10 aprile) alla Domenica di Risurrezione (17 aprile).

Domenica delle Palme

Mercoledì Santo: La pace di Pasqua

Giovedì Santo: Santa Messa del Crisma

Giovedì Santo: Santa Messa in Coena Domini

Veglia pasquale nella notte santa

Messaggio Urbi et Orbi


Domenica delle Palme

Sul Calvario si scontrano due mentalità. Nel Vangelo, infatti, le parole di Gesù crocifisso si contrappongono a quelle dei suoi crocifissori. Questi ripetono un ritornello: “Salva te stesso”. Lo dicono i capi: «Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto» (Lc 23,35). Lo ribadiscono i soldati: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (v. 37). E infine, anche uno dei malfattori, che ha ascoltato, ripete il concetto: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso!» (v. 39). Salvare se stessi, badare a se stessi, pensare a se stessi; non ad altri, ma solo alla propria salute, al proprio successo, ai propri interessi; all’avere, al potere, all’apparire. Salva te stesso: è il ritornello dell’umanità che ha crocifisso il Signore. Pensiamoci.

Ma alla mentalità dell’io si oppone quella di Dio; il salva te stesso si scontra con il Salvatore che offre se stesso. Nel Vangelo odierno sul Calvario anche Gesù prende la parola tre volte, come i suoi oppositori (cfr vv. 34.43.46). Ma in nessun caso rivendica qualcosa per sé; anzi, nemmeno difende o giustifica se stesso. Prega il Padre e offre misericordia al buon ladrone. Una sua espressione, in particolare, marca la differenza rispetto al salva te stesso: «Padre, perdona loro» (v. 34).

Soffermiamoci su queste parole. Quando le dice il Signore? In un momento specifico: durante la crocifissione, quando sente i chiodi trafiggergli i polsi e i piedi. Proviamo a immaginare il dolore lancinante che ciò provocava. Lì, nel dolore fisico più acuto della passione, Cristo chiede perdono per chi lo sta trapassando. In quei momenti verrebbe solo da gridare tutta la propria rabbia e sofferenza; invece Gesù dice: Padre, perdona loro. Diversamente da altri martiri, di cui racconta la Bibbia (cfr 2 Mac 7,18-19), non rimprovera i carnefici e non minaccia castighi in nome di Dio, ma prega per i malvagi. Affisso al patibolo dell’umiliazione, aumenta l’intensità del dono, che diventa per-dono.

Fratelli, sorelle, pensiamo che Dio fa così anche con noi: quando gli provochiamo dolore con le nostre azioni, Egli soffre e ha un solo desiderio: poterci perdonare. Per renderci conto di questo, guardiamo il Crocifisso. È dalle sue piaghe, da quei fori di dolore provocati dai nostri chiodi che scaturisce il perdono. Guardiamo Gesù in croce e pensiamo che non abbiamo mai ricevuto parole più buone: Padre, perdona. Guardiamo Gesù in croce e vediamo che non abbiamo mai ricevuto uno sguardo più tenero e compassionevole. Guardiamo Gesù in croce e capiamo che non abbiamo mai ricevuto un abbraccio più amorevole. Guardiamo il Crocifisso e diciamo: “Grazie Gesù: mi ami e mi perdoni sempre, anche quando faccio fatica ad amarmi e perdonarmi”.

Lì, mentre viene crocifisso, nel momento più difficile, Gesù vive il suo comandamento più difficile: l’amore per i nemici. Pensiamo a qualcuno che ci ha ferito, offeso, deluso; a qualcuno che ci ha fatto arrabbiare, che non ci ha compresi o non è stato di buon esempio. Quanto tempo ci soffermiamo a ripensare a chi ci ha fatto del male! Così come a guardarci dentro e a leccarci le ferite che ci hanno inferto gli altri, la vita o la storia. Gesù oggi ci insegna a non restare lì, ma a reagire. A spezzare il circolo vizioso del male e del rimpianto. A reagire ai chiodi della vita con l’amore, ai colpi dell’odio con la carezza del perdono. Ma noi, discepoli di Gesù, seguiamo il Maestro o il nostro istinto rancoroso? È una domanda che dobbiamo farci: seguiamo il Maestro o seguiamo il nostro istinto rancoroso? Se vogliamo verificare la nostra appartenenza a Cristo, guardiamo a come ci comportiamo con chi ci ha feriti. Il Signore ci chiede di rispondere non come ci viene o come fanno tutti, ma come fa Lui con noi. Ci chiede di spezzare la catena del “ti voglio bene se mi vuoi bene; ti sono amico se sei mio amico; ti aiuto se tu mi aiuti”. No, compassione e misericordia per tutti, perché Dio vede in ciascuno un figlio. Non ci divide in buoni e cattivi, in amici e nemici. Siamo noi che lo facciamo, facendolo soffrire. Per Lui siamo tutti figli amati, che desidera abbracciare e perdonare. Ed è così anche in quell’invito al banchetto di nozze del figlio, quel signore invia i suoi servi all’incrocio delle strade e dice: “Portate tutti, bianchi, neri, buoni e cattivi, tutti, sani, ammalati, tutti…” (cfr Mt 22,9-10). L’amore di Gesù è per tutti, non ci sono privilegi in questo. Tutti. Il privilegio di ognuno di noi è essere amato, perdonato.

Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Il Vangelo sottolinea che Gesù «diceva» (v. 34) questo: non lo disse una volta per tutte al momento della crocifissione, ma trascorse le ore sulla croce con queste parole sulle labbra e nel cuore. Dio non si stanca di perdonare. Dobbiamo capire questo, ma capirlo non solo con la mente, capirlo con il cuore: Dio non si stanca di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono, ma Lui mai si stanca di perdonare. Lui non sopporta fino a un certo punto per poi cambiare idea, come siamo tentati di fare noi. Gesù – insegna il Vangelo di Luca – è venuto nel mondo a portarci il perdono dei nostri peccati (cfr Lc 1,77) e alla fine ci ha dato un’istruzione precisa: predicare a tutti, nel suo nome, il perdono dei peccati (cfr Lc 24,47). Fratelli e sorelle, non stanchiamoci del perdono di Dio: noi preti di amministrarlo, ogni cristiano di riceverlo e di testimoniarlo. Non stanchiamoci del perdono di Dio.

Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Notiamo ancora una cosa. Gesù non solo implora il perdono, ma dice anche il motivo: perdonali perché non sanno quello che fanno. Ma come? I suoi crocifissori avevano premeditato la sua uccisione, organizzato la sua cattura, i processi, e ora sono sul Calvario per assistere alla sua fine. Eppure Cristo giustifica quei violenti perché non sanno. Ecco come si comporta Gesù con noi: si fa nostro avvocato. Non si mette contro di noi, ma per noi contro il nostro peccato. Ed è interessante l’argomento che utilizza: perché non sanno, quell’ignoranza del cuore che abbiamo tutti noi peccatori. Quando si usa violenza non si sa più nulla su Dio, che è Padre, e nemmeno sugli altri, che sono fratelli. Si dimentica perché si sta al mondo e si arriva a compiere crudeltà assurde. Lo vediamo nella follia della guerra, dove si torna a crocifiggere Cristo. Sì, Cristo è ancora una volta inchiodato alla croce nelle madri che piangono la morte ingiusta dei mariti e dei figli. È crocifisso nei profughi che fuggono dalle bombe con i bambini in braccio. È crocifisso negli anziani lasciati soli a morire, nei giovani privati di futuro, nei soldati mandati a uccidere i loro fratelli. Cristo è crocifisso lì, oggi.

Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Molti ascoltano questa frase inaudita; ma uno solo la accoglie. È un malfattore, crocifisso accanto a Gesù. Possiamo pensare che la misericordia di Cristo abbia suscitato in lui un’ultima speranza e l’abbia portato a pronunciare quelle parole: «Gesù, ricordati di me» (Lc 23,42). Come a dire: “Tutti si sono dimenticati di me, ma tu pensi pure a chi ti crocifigge. Con te, allora, c’è posto anche per me”. Il buon ladrone accoglie Dio mentre la vita sta per finire e così la sua vita inizia di nuovo; nell’inferno del mondo vede aprirsi il paradiso: «Oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43). Ecco il prodigio del perdono di Dio, che trasforma l’ultima richiesta di un condannato a morte nella prima canonizzazione della storia.

Fratelli, sorelle, in questa settimana accogliamo la certezza che Dio può perdonare ogni peccato. Dio perdona tutti, può perdonare ogni distanza, mutare ogni pianto in danza (cfr Sal 30,12); la certezza che con Cristo c’è sempre posto per ognuno; che con Gesù non è mai finita, non è mai troppo tardi. Con Dio si può sempre tornare a vivere. Coraggio, camminiamo verso la Pasqua con il suo perdono. Perché Cristo continuamente intercede presso il Padre per noi (cfr Eb 7,25) e, guardando il nostro mondo violento, il nostro mondo ferito, non si stanca di ripetere – e noi lo facciamo adesso con il nostro cuore, in silenzio – di ripetere: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.


La pace di Pasqua

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siamo al centro della Settimana Santa, che si snoda dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua. Entrambe queste domeniche si caratterizzano per la festa che viene fatta intorno a Gesù. Ma sono due feste diverse.

Domenica scorsa abbiamo visto Cristo entrare solennemente a Gerusalemme, come una festa, accolto come Messia: e per Lui vengono stesi sulla strada mantelli (cfr Lc 19,36) e rami tagliati dagli alberi (cfr Mt 21,8). La folla esultante benedice a gran voce «colui che viene, il re», e acclama: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli» (Lc 19,38). Quella gente là festeggia perché vede nell’ingresso di Gesù l’arrivo di un nuovo re, che avrebbe portato pace e gloria. Ecco qual era la pace attesa da quella gente: una pace gloriosa, frutto di un intervento regale, quello di un messia potente che avrebbe liberato Gerusalemme dall’occupazione dei Romani. Altri, probabilmente, sognavano il ristabilimento di una pace sociale e vedevano in Gesù il re ideale, che avrebbe sfamato le folle di pani, come aveva già fatto, e operato grandi miracoli, portando così più giustizia nel mondo.

Ma Gesù non parla mai di questo. Ha davanti a sé una Pasqua diversa, non una Pasqua trionfale. L’unica cosa a cui tiene per preparare il suo ingresso a Gerusalemme è cavalcare «un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno» (v. 30). Ecco come Cristo porta la pace nel mondo: attraverso la mansuetudine e la mitezza, simboleggiate da quel puledro legato, su cui nessuno era salito. Nessuno, perché il modo di fare di Dio è diverso da quello del mondo. Gesù, infatti, appena prima di Pasqua, spiega ai discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Sono due modalità diverse: un modo come il mondo ci dà la pace e un modo come Dio ci dà la pace. Sono diversi.

La pace che Gesù ci dà a Pasqua non è la pace che segue le strategie del mondo, il quale crede di ottenerla attraverso la forza, con le conquiste e con varie forme di imposizione. Questa pace, in realtà, è solo un intervallo tra le guerre: lo sappiamo bene. La pace del Signore segue la via della mitezza e della croce: è farsi carico degli altri. Cristo, infatti, ha preso su di sé il nostro male, il nostro peccato e la nostra morte. Ha preso su di sé tutto questo. Così ci ha liberati. Lui ha pagato per noi. La sua pace non è frutto di qualche compromesso, ma nasce dal dono di sé. Questa pace mite e coraggiosa, però, è difficile da accogliere. Infatti, la folla che osannava Gesù è la stessa che dopo pochi giorni grida “Crocifiggilo” e, impaurita e delusa, non muove un dito per Lui.

A questo proposito, è sempre attuale un grande racconto di Dostoevskij, la cosiddetta Leggenda del Grande Inquisitore. Si narra di Gesù che, dopo vari secoli, torna sulla Terra. Subito è accolto dalla folla festante, che lo riconosce e lo acclama. “Ah, sei tornato! Vieni, vieni con noi!”. Ma poi viene arrestato dall’Inquisitore, che rappresenta la logica mondana. Questi lo interroga e lo critica ferocemente. Il motivo finale del rimprovero è che Cristo, pur potendo, non ha mai voluto diventare Cesare, il più grande re di questo mondo, preferendo lasciare libero l’uomo anziché soggiogarlo e risolverne i problemi con la forza. Avrebbe potuto stabilire la pace nel mondo, piegando il cuore libero ma precario dell’uomo in forza di un potere superiore, ma non ha voluto: ha rispettato la nostra libertà. «Tu – dice l’Inquisitore a Gesù –, accettando il mondo e la porpora dei Cesari, avresti fondato il regno universale e dato la pace universale» (I fratelli Karamazov, Milano 2012, 345); e con sentenza sferzante conclude: «Se c’è qualcuno che ha meritato più di tutti il nostro rogo, sei proprio Tu» (348). Ecco l’inganno che si ripete nella storia, la tentazione di una pace falsa, basata sul potere, che poi conduce all’odio e al tradimento di Dio e a tanta amarezza nell’anima.

Alla fine, secondo questo relato, l’Inquisitore vorrebbe che Gesù «gli dicesse qualche cosa, magari anche qualche cosa di amaro, di terribile». Ma Cristo reagisce con un gesto dolce e concreto: «gli si avvicina in silenzio, e lo bacia dolcemente sulle vecchie labbra esangui» (352). La pace di Gesù non sovrasta gli altri, non è mai una pace armata: mai! Le armi del Vangelo sono la preghiera, la tenerezza, il perdono e l’amore gratuito al prossimo, l’amore a ogni prossimo. È così che si porta la pace di Dio nel mondo. Ecco perché l’aggressione armata di questi giorni, come ogni guerra, rappresenta un oltraggio a Dio, un tradimento blasfemo del Signore della Pasqua, un preferire al suo volto mite quello del falso dio di questo mondo. Sempre la guerra è un’azione umana per portare all’idolatria del potere.

Gesù, prima della sua ultima Pasqua, disse ai suoi: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). Sì, perché mentre il potere mondano lascia solo distruzione e morte – lo abbiamo visto in questi giorni –, la sua pace edifica la storia, a partire dal cuore di ogni uomo che la accoglie. Pasqua è allora la vera festa di Dio e dell’uomo, perché la pace, che Cristo ha conquistato sulla croce nel dono di sé, viene distribuita a noi. Perciò il Risorto, il giorno di Pasqua, appare ai discepoli e come li saluta? «Pace a voi!» (Gv 20,19.21). Questo è il saluto di Cristo vincitore, di Cristo risorto.

Fratelli, sorelle, Pasqua significa “passaggio”. È, soprattutto quest’anno, l’occasione benedetta per passare dal dio mondano al Dio cristiano, dall’avidità che ci portiamo dentro alla carità che ci fa liberi, dall’attesa di una pace portata con la forza all’impegno di testimoniare concretamente la pace di Gesù. Fratelli e sorelle, mettiamoci davanti al Crocifisso, sorgente della nostra pace, e chiediamogli la pace del cuore e la pace nel mondo.


Giovedì Santo, omelia nella Santa Messa del Crisma

Nella Lettura del profeta Isaia che abbiamo ascoltato, il Signore fa una promessa carica di speranza che ci tocca da vicino: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, / ministri del nostro Dio sarete detti. / […] Io darò loro fedelmente il salario, / concluderò con loro un’alleanza eterna» (61,6.8). Essere sacerdoti è, cari fratelli, una grazia, una grazia molto grande, che non è in primo luogo una grazia per noi, ma per la gente; [1] e per il nostro popolo è un dono grande il fatto che il Signore scelga, in mezzo al suo gregge, alcuni che si occupino delle sue pecore in modo esclusivo, come padri e pastori. È il Signore stesso a pagare il salario del sacerdote: «Io darò loro fedelmente il salario» ( Is 61,8). E Lui, lo sappiamo, è buon pagatore, benché abbia le sue particolarità, come quella di pagare prima gli ultimi e poi i primi: è nel suo stile.

La Lettura del libro dell’Apocalisse ci dice qual è il salario del Signore. È il suo Amore e il perdono incondizionato dei nostri peccati a prezzo del suo sangue versato sulla Croce: «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (1,5-6). Non c’è salario maggiore dell’amicizia con Gesù, non dimenticare questo. Non c’è pace più grande del suo perdono e questo lo sappiamo tutti. Non c’è prezzo più caro di quello del suo Sangue prezioso, che non dobbiamo permettere sia disprezzato con una condotta indegna.

Se leggiamo con il cuore, cari fratelli sacerdoti, questi sono inviti del Signore ad essergli fedeli, ad esser fedeli alla sua Alleanza, a lasciarci amare, a lasciarci perdonare; sono inviti non solo per noi stessi, ma anche affinché così possiamo servire, con una coscienza pulita, il santo popolo fedele di Dio. La gente lo merita e anche ne ha bisogno. Il Vangelo di Luca ci dice che, dopo che Gesù ebbe letto il passo del profeta Isaia davanti alla sua gente e si fu seduto, «gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (4,20). Anche l’Apocalisse ci parla oggi di occhi fissi su Gesù, dell’attrazione irresistibile del Signore crocifisso e risorto che ci porta ad adorare e a riconoscere: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. (1,7). La grazia finale, quando il Signore risorto ritornerà, sarà quella di un riconoscimento immediato: lo vedremo trafitto, riconosceremo chi è Lui e chi siamo noi, peccatori; niente più.

“Fissare gli occhi su Gesù” è una grazia che, come sacerdoti, dobbiamo coltivare. Al termine della giornata fa bene guardare al Signore, e che Lui ci guardi il cuore, insieme al cuore delle persone che abbiamo incontrato. Non si tratta di contabilizzare i peccati, ma di una contemplazione amorosa in cui guardiamo alla nostra giornata con lo sguardo di Gesù e vediamo così le grazie del giorno, i doni e tutto ciò che ha fatto per noi, per ringraziare. E gli mostriamo anche le nostre tentazioni, per riconoscerle e rigettarle. Come vediamo, si tratta di capire che cosa è gradito al Signore e che cosa vuole da noi qui e ora, nella nostra storia attuale.

E forse, se sosteniamo il suo sguardo pieno di bontà, da parte sua ci sarà anche un cenno affinché gli mostriamo i nostri idoli. Quegli idoli che come Rachele, abbiamo nascosto sotto le pieghe del nostro mantello (cfr Gen 31,34-35). Lasciare che il Signore guardi i nostri idoli nascosti - tutti ne abbiamo, tutti! - E questo lasciare che il Signore guardi questi idoli nascosti ci rende forti davanti ad essi e toglie loro il potere.

Lo sguardo del Signore ci fa vedere che, in realtà, in essi noi glorifichiamo noi stessi, [2] perché lì, in quello spazio che viviamo come se fosse esclusivo, si intromette il diavolo aggiungendo un elemento molto maligno: fa sì che non solo “compiacciamo” noi stessi dando briglia sciolta a una passione o coltivandone un’altra, ma ci conduce anche a sostituire con essi, con quegli idoli nascosti, la presenza delle Divine Persone, la presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito, che dimorano dentro di noi. È qualcosa che di fatto accade. Malgrado uno dica a sé stesso che distingue perfettamente che cos’è un idolo e chi è Dio, in pratica andiamo togliendo spazio alla Trinità per darlo al demonio, in una specie di adorazione indiretta: quella di chi lo nasconde, ma continuamente ascolta i suoi discorsi e consuma i suoi prodotti, in modo tale che alla fine non resta nemmeno un angolino per Dio. Perché Lui è così, Lui va avanti lentamente. E poi un’altra volta ho parlato dei demoni “educati”, quelli che Gesù dice che sono peggiori di quello che è stato cacciato via. Ma sono “educati”, suonano il campanello, entrano e passo a passo prendono possesso della casa. Dobbiamo stare attenti, questi sono gli idoli nostri.

È che gli idoli hanno qualcosa – un elemento – di personale. Quando non li smascheriamo, quando non lasciamo che Gesù ci faccia vedere che in essi stiamo cercando malamente noi stessi senza motivo e che lasciamo uno spazio in cui il Maligno si intromette. Dobbiamo ricordare che il demonio esige che noi facciamo la sua volontà e che lo serviamo, ma non sempre chiede che lo serviamo e lo adoriamo continuamente, no, sa muoversi, è un grande diplomatico. Ricevere l’adorazione di quando in quando gli basta per dimostrare che è il nostro vero signore e che persino si sente dio nella nostra vita e nel nostro cuore.

Detto questo, Vorrei condividere con voi, in questa Messa Crismale, tre spazi di idolatria nascosta nei quali il Maligno utilizza i suoi idoli per depotenziarci della nostra vocazione di pastori e, a poco a poco, separarci dalla presenza benefica e amorosa di Gesù, dello Spirito e del Padre.

Un primo spazio di idolatria nascosta si apre dove c’è mondanità spirituale, che è «una proposta di vita, è una cultura, una cultura dell’effimero, una cultura dell’apparenza, una cultura del maquillage». [3] Il suo criterio è il trionfalismo, un trionfalismo senza Croce. E Gesù prega affinché il Padre ci difenda da questa cultura della mondanità. Questa tentazione di una gloria senza Croce va contro la persona del Signore, va contro Gesù che si umilia nell’Incarnazione e che, come segno di contraddizione, è l’unica medicina contro ogni idolo. Essere povero con Cristo povero e “perché Cristo ha scelto la povertà” è la logica dell’Amore e non un’altra. Nel brano evangelico di oggi vediamo come il Signore si colloca nella sua umile cappella e nel suo piccolo villaggio, quello di tutta la vita, per fare lo stesso Annuncio che farà alla fine della storia, quando verrà nella sua Gloria, circondato dagli angeli. E i nostri occhi devono stare fissi su Cristo, nel qui e ora della storia di Gesù con me, come lo saranno allora. La mondanità di andar cercando la propria gloria ci ruba la presenza di Gesù umile e umiliato, Signore vicino a tutti, Cristo dolente con tutti quelli che soffrono, adorato dal nostro popolo che sa chi sono i suoi veri amici. Un sacerdote mondano non è altro che un pagano clericalizzato. Un sacerdote mondano non è altro che un pagano clericalizzato.

Un altro spazio di idolatria nascosta mette le radici là dove si dà il primato al pragmatismo dei numeri. Coloro che hanno questo idolo nascosto si riconoscono per il loro amore alle statistiche, quelle che possono cancellare ogni tratto personale nella discussione e dare la preminenza alla maggioranza, che, in definitiva, diventa il criterio di discernimento, è brutto. Questo non può essere l’unico modo di procedere né l’unico criterio nella Chiesa di Cristo. Le persone non si possono “numerare”, e Dio non dà lo Spirito “con misura” (cfr Gv 3,34). In questo fascino per i numeri, in realtà, ricerchiamo noi stessi e ci compiacciamo del controllo assicuratoci da questa logica, che non s’interessa dei volti e non è quella dell’amore, ama i numeri. Una caratteristica dei grandi santi è che sanno tirarsi indietro così da lasciare tutto lo spazio a Dio. Questo tirarsi indietro, questo dimenticarsi di sé e voler essere dimenticati da tutti gli altri è la caratteristica dello Spirito, il quale manca di immagine, lo Spirito non ha immagine propria semplicemente perché è tutto Amore che fa brillare l’immagine del Figlio e, in essa, quella del Padre. La sostituzione della sua Persona, che già di per sé ama “non apparire” - perché non ha immagine -, è ciò a cui mira l’idolo dei numeri, che fa sì che tutto “appaia”, seppure in modo astratto e contabilizzato, senza incarnazione.

Un terzo spazio di idolatria nascosta, apparentato al precedente, è quello che si apre con il funzionalismo, un ambito seducente in cui molti, “più che per il percorso si entusiasmano per la tabella di marcia”. La mentalità funzionalista non tollera il mistero, punta all’efficacia. A poco a poco, questo idolo va sostituendo in noi la presenza del Padre. Il primo idolo sostituisce la presenza del Figlio, il secondo idolo quella dello Spirito, e questo la presenza del Padre. Il nostro Padre è il Creatore, ma non uno che solamente fa “funzionare” le cose, ma Uno che “crea” come Padre, con tenerezza, facendosi carico delle sue creature e operando affinché l’uomo sia più libero. Il funzionalista non sa gioire delle grazie che lo Spirito effonde sul suo popolo, delle quali potrebbe “nutrirsi” anche come lavoratore che si guadagna il suo salario. Il sacerdote con mentalità funzionalista ha il proprio nutrimento, che è il suo ego. Nel funzionalismo lasciamo da parte l’adorazione al Padre nelle piccole e grandi cose della nostra vita e ci compiacciamo dell’efficacia dei nostri programmi. Come ha fatto Davide quando, tentato da Satana, si impuntò per realizzare il censimento (cfr 1 Cr 21,1). Questi sono gli innamorati del piano di rotta, del piano del cammino, non del cammino.

In questi due ultimi spazi di idolatria nascosta (pragmatismo dei numeri e funzionalismo) sostituiamo la speranza, che è lo spazio dell’incontro con Dio, con il riscontro empirico. È un atteggiamento di vanagloria da parte del pastore, un atteggiamento che disintegra l’unione del suo popolo con Dio e plasma un nuovo idolo basato su numeri e programmi: l’idolo «il mio potere, il nostro potere», [4] il nostro programma, i nostri numeri, i nostri piani pastorali. Nascondere questi idoli (con l’atteggiamento di Rachele) e non saperli smascherare nella propria vita quotidiana fa male alla fedeltà della nostra alleanza sacerdotale e intiepidisce la nostra relazione personale con il Signore. Ma cosa vuole questo Vescovo che invece di parlare di Gesù ci parla degli idoli oggi? Qualcuno può pensare questo…

Cari fratelli, Gesù è l’unica via per non sbagliarci nel sapere che cosa sentiamo, a che cosa ci conduce il nostro cuore…; Egli è l’unica via per discernere bene confrontandoci con Lui, ogni giorno, come se anche oggi si fosse seduto nella nostra chiesa parrocchiale e ci avesse detto che oggi si è compiuto tutto quello che abbiamo ascoltato. Gesù Cristo, essendo segno di contraddizione – che non sempre è qualcosa di cruento o di duro, poiché la misericordia è segno di contraddizione e molto di più lo è la tenerezza – Gesù Cristo, dico, fa sì che questi idoli si rivelino, che si veda la loro presenza, le loro radici e il loro funzionamento, e così il Signore li possa distruggere, questa è la proposta: dare spazio perché il Signore possa distruggere i nostri idoli nascosti. E dobbiamo ricordarli, stare attenti, perché non rinasca la zizzania di questi idoli che abbiamo saputo nascondere tra le pieghe del nostro cuore.

E vorrei concludere chiedendo a San Giuseppe, padre castissimo e senza idoli nascosti, che ci liberi da ogni brama di possesso, poiché questa, la brama di possesso, è il terreno fecondo in cui crescono questi idoli. E che ci ottenga anche la grazia di non arrenderci nell’arduo compito di discernere questi idoli che, tanto frequentemente, nascondiamo o si nascondono. E chiediamo pure a San Giuseppe che, là dove dubitiamo su come fare meglio le cose, interceda per noi affinché lo Spirito ci illumini il giudizio, come illuminò il suo quando era tentato di lasciare “in segreto” ( lathra) Maria, in modo che, con nobiltà di cuore, sappiamo subordinare alla carità ciò che abbiamo appreso per legge. [5]


Giovedì Santo: Santa Messa in Coena Domini

Tutti i Giovedì Santo leggiamo questo brano del Vangelo: è una cosa semplice. Gesù, con i suoi amici, i suoi discepoli è a cena, la cena della Pasqua; Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli – cosa strana quella che ha fatto: a quel tempo i piedi li lavavano gli schiavi all’entrata della casa. E poi, Gesù – con un gesto che anche tocca il cuore – lava i piedi al traditore, quello che lo vende. Così è Gesù e ci insegna questo, semplicemente: fra voi, dovete lavare i piedi. È il simbolo: tra voi, dovete servirvi; uno serve l’altro, senza interessi. Che bello sarebbe se questo fosse possibile farlo tutti i giorni e a tutta la gente: ma sempre c’è l’interesse, che è come una serpe che entra. E noi ci scandalizziamo quando diciamo: “Sono andato a quell’ufficio pubblico, mi hanno fatto pagare una mancia”. Questo fa male, perché non è buono. E noi, tante volte, nella vita cerchiamo il nostro interesse, come se noi facessimo pagare una mancia tra noi. È importante invece fare tutto senza interesse: uno serve l’altro, uno è fratello dell’altro, uno fa crescere l’altro, uno corregge l’altro, e così bisogna fare andare avanti le cose. Servire! E poi, il cuore di Gesù, che al traditore dice: “Amico” e anche lo aspetta, fino alla fine: perdona tutto. Questo vorrei metterlo oggi nel cuore di tutti noi, anche nel mio: Dio perdona tutto e Dio perdona sempre! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. E ognuno di noi, forse, ha qualche cosa lì al cuore, che porta da tempo, che gli fa “ron-ron”, qualche scheletrino nascosto nell’armadio. Ma, chiedete perdono a Gesù: Lui perdona tutto. Soltanto vuole la fiducia nostra di chiedere perdono. Tu lo puoi fare quando stai da solo, quando stai con altri compagni, quando stai con il sacerdote. Questa è una bella preghiera per il giorno di oggi: “Ma, Signore, perdonami. Io cercherò di servire gli altri, ma Tu servi me con il Tuo perdono”. Lui ha pagato così con il perdono. Questo è il pensiero che vorrei lasciarvi. Servire, aiutarci l’un l’altro ed essere sicuri che il Signore perdona. E quanto perdona? Tutto! E fino a dove? Sempre! Non si stanca di perdonare: siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono.

E adesso, io cercherò di fare lo stesso gesto che ha fatto Gesù: lavare i piedi. Lo faccio di cuore perché noi sacerdoti dovremmo essere i primi a servire gli altri, non sfruttare gli altri. Il clericalismo alle volte ci porta su questa strada. Ma dobbiamo servire. Questo è un segno, anche un segno di amore per questi fratelli e sorelle e per tutti voi, qui; un segno che vuol dire: “Io non giudico nessuno. Io cerco di servire tutti”. C’è Uno che giudica, ma è un Giudice un po’ strano, il Signore: giudica e perdona. Seguiamo questa cerimonia con la voglia di servire e perdonarci.


[1] Perché il sacerdozio ministeriale è al servizio del sacerdozio comune. Il Signore ha scelto alcuni perché «in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Presbyterorum Ordinis, 2; cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 10). «I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli» ( Lumen gentium, 18).

[2] Cfr Catechesi nell’Udienza generale, 1 agosto 2018.

[3] Omelia nella Messa a S. Marta, 16 maggio 2020.

[4] J.M. Bergoglio, Meditaciones para religiosos, Bilbao, Mensajero, 2014, 145.

[5] Cfr Lett. ap. Patris corde, 4, nota 18.


Veglia pasquale nella notte santa

Molti scrittori hanno evocato la bellezza delle notti illuminate dalle stelle. Invece le notti di guerra sono solcate da scie luminose di morte. In questa notte, fratelli e sorelle, lasciamoci prendere per mano dalle donne del Vangelo, per scoprire con loro il sorgere della luce di Dio che brilla nelle tenebre del mondo. Quelle donne, mentre la notte si diradava e le prime luci dell’alba spuntavano senza clamori, si recarono al sepolcro per ungere il corpo di Gesù. E lì vivono un’esperienza sconvolgente: prima scoprono che la tomba è vuota; quindi vedono due figure in vesti sfolgoranti, le quali dicono loro che Gesù è risorto; e subito corrono ad annunciare la notizia agli altri discepoli (cfr Lc 24,1-10). Vedono, ascoltano, annunciano: con queste tre azioni entriamo anche noi nella Pasqua del Signore.

Le donne vedono. Il primo annuncio della Risurrezione non è affidato a una formula da capire, ma a un segno da contemplare. In un cimitero, presso una tomba, dove tutto dovrebbe essere ordinato e tranquillo, le donne «trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù» (vv. 2-3). La Pasqua, dunque, inizia ribaltando i nostri schemi. Giunge con il dono di una speranza sorprendente. Ma non è facile accoglierla. A volte – dobbiamo ammetterlo – nel nostro cuore questa speranza non trova spazio. Come le donne del Vangelo, anche in noi prevalgono domande e dubbi, e la prima reazione di fronte al segno imprevisto è la paura, «il volto chinato a terra» (cfr vv. 4-5).

Troppo spesso guardiamo la vita e la realtà con gli occhi rivolti verso il basso; fissiamo soltanto l’oggi che passa, siamo disillusi sul futuro, ci chiudiamo nei nostri bisogni, ci accomodiamo nel carcere dell’apatia, mentre continuiamo a lamentarci e a pensare che le cose non cambieranno mai. E così restiamo immobili davanti alla tomba della rassegnazione e del fatalismo, e seppelliamo la gioia di vivere. Eppure il Signore, in questa notte, vuole donarci occhi diversi, accesi dalla speranza che la paura, il dolore e la morte non avranno l’ultima parola su di noi. Grazie alla Pasqua di Gesù possiamo fare il salto dal nulla alla vita, «e la morte non potrà ormai più defraudarci della nostra esistenza» (K. Rahner, Cosa significa la Pasqua, Brescia 2021, 28): essa è stata tutta e per sempre abbracciata dall’amore sconfinato di Dio. È vero, può intimorirci e paralizzarci. Ma il Signore è risorto! Alziamo lo sguardo, togliamo il velo dell’amarezza e della tristezza dai nostri occhi, apriamoci alla speranza di Dio!

In secondo luogo, le donne ascoltano. Dopo che ebbero visto la tomba vuota, due uomini in abito sfolgorante dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (vv. 5-6). Ci fa bene ascoltare e ripetere queste parole: non è qui! Ogni volta che pretendiamo di aver compreso tutto di Dio, di poterlo incasellare nei nostri schemi, ripetiamo a noi stessi: non è qui! Ogni volta che lo cerchiamo solo nell’emozione, tante volte passeggera, o nel momento del bisogno, per poi accantonarlo e dimenticarci di Lui nelle situazioni e nelle scelte concrete di ogni giorno, ripetiamo: non è qui! E quando pensiamo di imprigionarlo nelle nostre parole, nelle nostre formule, nelle nostre abitudini, ma ci dimentichiamo di cercarlo negli angoli più oscuri della vita, dove c’è chi piange, chi lotta, soffre e spera, ripetiamo: non è qui!

Ascoltiamo anche noi la domanda rivolta alle donne: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”. Non possiamo fare Pasqua se continuiamo a rimanere nella morte; se restiamo prigionieri del passato; se nella vita non abbiamo il coraggio di lasciarci perdonare da Dio, che perdona tutto, il coraggio di cambiare, di rompere con le opere del male, di deciderci per Gesù e per il suo amore; se continuiamo a ridurre la fede a un amuleto, facendo di Dio un bel ricordo di tempi passati, invece che incontrarlo oggi come il Dio vivo che vuole trasformare noi e il mondo. Un cristianesimo che cerca il Signore tra i relitti del passato e lo rinchiude nel sepolcro dell’abitudine è un cristianesimo senza Pasqua. Ma il Signore è risorto! Non attardiamoci attorno ai sepolcri, ma andiamo a riscoprire Lui, il Vivente! E non abbiamo paura di cercarlo anche nel volto dei fratelli, nella storia di chi spera e di chi sogna, nel dolore di chi piange e soffre: Dio è lì!

Infine, le donne annunciano. Che cosa annunciano? La gioia della Risurrezione. La Pasqua non accade per consolare intimamente chi piange la morte di Gesù, ma per spalancare i cuori all’annuncio straordinario della vittoria di Dio sul male e sulla morte. La luce della Risurrezione, perciò, non vuole trattenere le donne nell’estasi di un godimento personale, non tollera atteggiamenti sedentari, ma genera discepoli missionari che “tornano dal sepolcro” (cfr v. 9) e portano a tutti il Vangelo del Risorto. Ecco perché, dopo aver visto e ascoltato, le donne corrono ad annunciare la gioia della Risurrezione ai discepoli. Sanno che potrebbero essere prese per pazze, tant’è che il Vangelo dice che le loro parole parvero «come un vaneggiamento» (v. 11), ma non sono preoccupate della loro reputazione, di difendere la loro immagine; non misurano i sentimenti, non calcolano le parole. Soltanto avevano il fuoco nel cuore per portare la notizia, l’annuncio: “Il Signore è risorto!”.

E com’è bella una Chiesa che corre in questo modo per le strade del mondo! Senza paure, senza tatticismi e opportunismi; solo col desiderio di portare a tutti la gioia del Vangelo. A questo siamo chiamati: a fare esperienza del Risorto e condividerla con gli altri; a rotolare quella pietra dal sepolcro, in cui spesso abbiamo sigillato il Signore, per diffondere la sua gioia nel mondo. Facciamo risuscitare Gesù, il Vivente, dai sepolcri in cui lo abbiamo rinchiuso; liberiamolo dalle formalità in cui spesso lo abbiamo imprigionato; risvegliamoci dal sonno del quieto vivere in cui a volte lo abbiamo adagiato, perché non disturbi e non scomodi più. Portiamolo nella vita di tutti i giorni: con gesti di pace in questo tempo segnato dagli orrori della guerra; con opere di riconciliazione nelle relazioni spezzate e di compassione verso chi è nel bisogno; con azioni di giustizia in mezzo alle disuguaglianze e di verità in mezzo alle menzogne. E, soprattutto, con opere di amore e di fraternità.

Fratelli e sorelle, la nostra speranza si chiama Gesù. Egli è entrato dentro il sepolcro del nostro peccato, è arrivato nel punto più lontano in cui ci eravamo perduti, ha percorso i grovigli delle nostre paure, ha portato il peso delle nostre oppressioni e, dagli abissi più oscuri della nostra morte, ci ha risvegliati alla vita e ha trasformato il nostro lutto in danza. Facciamo Pasqua con Cristo! Egli è vivo e ancora oggi passa, trasforma, libera. Con Lui il male non ha più potere, il fallimento non può impedirci di ricominciare, la morte diventa passaggio per l’inizio di una vita nuova. Perché con Gesù, il Risorto, nessuna notte è infinita; e anche nel buio più fitto, in quel buio brilla la stella del mattino.

In questo buio che voi vivete, Signor Sindaco, Signore Parlamentari e Signori Parlamentari, il buio oscuro della guerra, della crudeltà, tutti noi preghiamo, preghiamo con voi e per voi, questa notte. Preghiamo per tante sofferenze. Noi possiamo darvi soltanto la nostra compagnia, la nostra preghiera e dirvi: “Coraggio! Vi accompagniamo!”. E anche dirvi la cosa più grande che oggi si celebra: Christòs voskrés! [Cristo è risorto!]


Messaggio Urbi et Orbi

Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua!

Gesù, il Crocifisso, è risorto! Viene in mezzo a coloro che lo piangono, rinchiusi in casa, pieni di paura e di angoscia. Viene a loro e dice: «Pace a voi!» (Gv 20,19). Mostra le piaghe nelle mani e nei piedi, la ferita nel costato: non è un fantasma, è proprio Lui, lo stesso Gesù che è morto sulla croce ed è stato nel sepolcro. Davanti agli sguardi increduli dei discepoli Egli ripete: «Pace a voi!» (v. 21).

Anche i nostri sguardi sono increduli, in questa Pasqua di guerra. Troppo sangue abbiamo visto, troppa violenza. Anche i nostri cuori si sono riempiti di paura e di angoscia, mentre tanti nostri fratelli e sorelle si sono dovuti chiudere dentro per difendersi dalle bombe. Facciamo fatica a credere che Gesù sia veramente risorto, che abbia veramente vinto la morte. Che sia forse un’illusione? Un frutto della nostra immaginazione?

No, non è un’illusione! Oggi più che mai risuona l’annuncio pasquale tanto caro all’Oriente cristiano: «Cristo è risorto! È veramente risorto!» Oggi più che mai abbiamo bisogno di Lui, al termine di una Quaresima che sembra non voler finire. Abbiamo alle spalle due anni di pandemia, che hanno lasciato segni pesanti. Era il momento di uscire insieme dal tunnel, mano nella mano, mettendo insieme le forze e le risorse... E invece stiamo dimostrando che in noi non c’è ancora lo spirito di Gesù, c’è ancora lo spirito di Caino, che guarda Abele non come un fratello, ma come un rivale, e pensa a come eliminarlo. Abbiamo bisogno del Crocifisso Risorto per credere nella vittoria dell’amore, per sperare nella riconciliazione. Oggi più che mai abbiamo bisogno di Lui, che venga in mezzo a noi e ci dica ancora: «Pace a voi!».

Solo Lui può farlo. Solo Lui ha il diritto oggi di annunciarci la pace. Solo Gesù, perché porta le piaghe, le nostre piaghe. Quelle sue piaghe sono nostre due volte: nostre perché procurate a Lui da noi, dai nostri peccati, dalla nostra durezza di cuore, dall’odio fratricida; e nostre perché Lui le porta per noi, non le ha cancellate dal suo Corpo glorioso, ha voluto tenerle in sé per sempre. Sono un sigillo incancellabile del suo amore per noi, un’intercessione perenne perché il Padre celeste le veda e abbia misericordia di noi e del mondo intero. Le piaghe nel Corpo di Gesù risorto sono il segno della lotta che Lui ha combattuto e vinto per noi, con le armi dell’amore, perché noi possiamo avere pace, essere in pace, vivere in pace.

Guardando quelle piaghe gloriose, i nostri occhi increduli si aprono, i nostri cuori induriti si schiudono e lasciano entrare l’annuncio pasquale: «Pace a voi!».

Fratelli e sorelle, lasciamo entrare la pace di Cristo nelle nostre vite, nelle nostre case, nei nostri Paesi!

Sia pace per la martoriata Ucraina, così duramente provata dalla violenza e dalla distruzione della guerra crudele e insensata in cui è stata trascinata. Su questa terribile notte di sofferenza e di morte sorga presto una nuova alba di speranza! Si scelga la pace. Si smetta di mostrare i muscoli mentre la gente soffre. Per favore, per favore: non abituiamoci alla guerra, impegniamoci tutti a chiedere a gran voce la pace, dai balconi e per le strade! Pace! Chi ha la responsabilità delle Nazioni ascolti il grido di pace della gente. Ascolti quella inquietante domanda posta dagli scienziati quasi settant’anni fa: «Metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?» (Manifesto Russell-Einstein, 9 luglio 1955).

Porto nel cuore tutte le numerose vittime ucraine, i milioni di rifugiati e di sfollati interni, le famiglie divise, gli anziani rimasti soli, le vite spezzate e le città rase al suolo. Ho negli occhi lo sguardo dei bambini rimasti orfani e che fuggono dalla guerra. Guardandoli non possiamo non avvertire il loro grido di dolore, insieme a quello dei tanti altri bambini che soffrono in tutto il mondo: quelli che muoiono di fame o per assenze di cure, quelli che sono vittime di abusi e violenze e quelli a cui è stato negato il diritto di nascere.

Nel dolore della guerra non mancano anche segni incoraggianti, come le porte aperte di tante famiglie e comunità che in tutta Europa accolgono migranti e rifugiati. Questi numerosi atti di carità diventino una benedizione per le nostre società, talvolta degradate da tanto egoismo e individualismo, e contribuiscano a renderle accoglienti per tutti.

Il conflitto in Europa ci renda più solleciti anche davanti ad altre situazioni di tensione, sofferenza e dolore, che interessano troppe regioni del mondo e non possiamo né vogliamo dimenticare.

Sia pace per il Medio Oriente, lacerato da anni di divisioni e conflitti. In questo giorno glorioso domandiamo pace per Gerusalemme e pace per coloro che la amano (cfr Sal 121 [122]), cristiani, ebrei, musulmani. Possano israeliani, palestinesi e tutti gli abitanti della Città Santa, insieme con i pellegrini, sperimentare la bellezza della pace, vivere in fraternità e accedere con libertà ai Luoghi Santi nel rispetto reciproco dei diritti di ciascuno.

Sia pace e riconciliazione per i popoli del Libano, della Siria e dell’Iraq, e in particolare per tutte le comunità cristiane che vivono in Medio Oriente.

Sia pace anche per la Libia, perché trovi stabilità dopo anni di tensioni, e per lo Yemen, che soffre per un conflitto da tutti dimenticato con continue vittime: la tregua siglata nei giorni scorsi possa restituire speranza alla popolazione.

Al Signore risorto chiediamo il dono della riconciliazione per il Myanmar, dove perdura un drammatico scenario di odio e di violenza, e per l’Afghanistan, dove non si allentano le pericolose tensioni sociali e dove una drammatica crisi umanitaria sta martoriando la popolazione.

Sia pace per tutto il continente africano, affinché cessino lo sfruttamento di cui è vittima e l’emorragia portata dagli attacchi terroristici – in particolare nella zona del Sahel – e incontri sostegno concreto nella fraternità dei popoli. Ritrovi l’Etiopia, afflitta da una grave crisi umanitaria, la via del dialogo e della riconciliazione, e cessino le violenze nella Repubblica Democratica del Congo. Non manchi la preghiera e la solidarietà per le popolazioni del Sudafrica orientale, colpite da devastanti alluvioni.

Cristo risorto accompagni e assista le popolazioni dell’America Latina, che in alcuni casi hanno visto peggiorare, in questi tempi difficili di pandemia, le loro condizioni sociali, esacerbate anche da casi di criminalità, violenza, corruzione e narcotraffico.

Al Signore Risorto domandiamo di accompagnare il cammino di riconciliazione che la Chiesa Cattolica canadese sta percorrendo con i popoli autoctoni. Lo Spirito di Cristo Risorto sani le ferite del passato e disponga i cuori alla ricerca della verità e della fraternità.

Cari fratelli e sorelle, ogni guerra porta con sé strascichi che coinvolgono tutta l’umanità: dai lutti al dramma dei profughi, alla crisi economica e alimentare di cui si vedono già le avvisaglie. Davanti ai segni perduranti della guerra, come alle tante e dolorose sconfitte della vita, Cristo, vincitore del peccato, della paura e della morte, esorta a non arrendersi al male e alla violenza. Fratelli e sorelle, lasciamoci vincere dalla pace di Cristo! La pace è possibile, la pace è doverosa, la pace è primaria responsabilità di tutti!


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