Intervista al Prelato dell'Opus Dei

Monsignor Javier Echevarría intervistato da "La Repubblica" in occasione dell'ottantesimo anniversario della fondazione dell'Opus Dei.

Marco Politi intervista mons. Javier Echevarría

Ottantatremila aderenti laici, millenovecento sacerdoti, gran parte della presenza in Europa e America e seimilaseicento membri in Africa, Asia e Oceania, l’Opus Dei è come una grande azienda spirituale ormai consolidata. Guarda indietro ai suoi primi ottant’anni e scruta il futuro. «L’Opus Dei esiste per ricordare che Dio chiama tutti a diventare santi e per aiutare a vivere il Vangelo nelle mille situazioni della vita quotidiana», spiega programmaticamente il Prelato mons. Javier Echevarría. «Ottant’anni fa - aggiunge questo messaggio era nuovo rivoluzionario e lo è anche oggi». Nei suoi viaggi dice di cogliere tra la gente una ricerca di «senso ideale della vita, determinato da una speranza che magari non conoscono. E’ la ricerca di un Trascendente, dal quale magari rifuggono ma di cui hanno tanto bisogno».

A settantasei anni mons. Echevarría, nonostante il suo fisico esile e minuto, gioca ancora a tennis una volta la settimana, ascolta con passione Beethoven e appena può divora libri di teologia, filosofia, diritto canonico, storia della Chiesa e letteratura. Il tennis gli ha insegnato a parare i rovesci e i colpi radenti.

Mons. Echevarría, il Codice da Vinci alla fine vi ha fatto grande réclame, ma continua a circolare l’immagine di un’Opus simile ad una massoneria bianca.

«Non è paradossale parlare di segretezza dalle colonne di un quotidiano nazionale? Ogni giorno ci giungono centinaia di richieste di persone in cerca di una conoscenza diretta. Sul sito www. opusdei.org diamo notizie, documenti e aggiornamenti in ventotto lingue. Chiunque frequenti di persona un fedele della Prelatura conosce il suo impegno e la dedizione a Cristo. Trasparenza per noi significa lasciar apparire Gesù nell’amicizia e nei rapporti della vita quotidiana».

Magari siete particolarmente presenti tra i ceti dirigenti, influenti, benestanti.

«In realtà la maggioranza dei fedeli appartiene al ceto medio e molti fanno fatica ad arrivare alla fine del mese. Ma il punto vero è che qualsiasi professione onesta può essere santificata e diventare l’occasione di un incontro personale con Cristo. Le nostre attività di formazione spirituale si rivolgono a persone di ogni ceto».

Gli opusdeini non sono troppo eccessivi nell`ansia di proselitismo?

«Tutti i cristiani sono invitati a seguire l`invito di Gesù a diventare"pescatori di anime". L`apostolato e il proselitismo, intesi come annuncio cristiano sempre rispettoso della libertà, non sono fini a se stessi né attività autoreferenziali per questa o quella istituzione. L’Opus Dei non fa altro che fare eco, anche in questo aspetto, all’insegnamento della Chiesa universale».

Oggi su cosa si concentra la vostra missione?

«Si modula a seconda delle priorità del momento storico. Dare vita a una famiglia è oggi una grande sfida: la casa, l`asilo peri bambini, la cura degli anziani e dei malati, i ritmi di lavoro dei genitori. Perciò una delle priorità è la promozione di attività di formazione cristiana per tanti genitori sia fedeli della Prelatura sia non appartenenti all’Opus Dei».

Con agnostici ed atei come vi confrontate?

«Siamo interessati a tutti quanti. Le persone che hanno un’anima, anche se non lo sanno e non vogliono saperlo, per noi sono amici e fratelli e quindi ci mettiamo al servizio loro come di tutti gli altri».

Ottant’anni sono tanti. Cos’ha imparato l’Opus? Quali difetti sono da evitare?

«Io vedo ciò che ho sentito tante volte dire da san Josemaría Escrivá, non per orgoglio o superbia: che l’Opera non avrebbe avuto mai bisogno di nessun rinnovamento per adattarsi al mondo, perché il suo fine è di insegnare a tutti, a cominciare da noi, a santificare la quotidianità. Anche in futuro sarà necessario confrontarsi con il quotidiano. Dovremo sempre rivolgerci a quel Dio, che non ci abbandona mai e ci tende la mano, perché noi la accogliamo e poi partiamo con il suo aiuto».

E lei personalmente cosa ha imparato facendo il Prelato?

«Ogni giorno devo imparare a pregare, imparare a essere più mortificato, imparare a servire tutte le persone che incontro. Perché le parole del Signore non sono una semplice narrazione, ma una realtà. Ricordiamoci quando lui dice: "Se avete trattato male i malati, i poveri, coloro che non hanno la conoscenza, allora avete bistrattato me"».

Ha qualche ricordo particolare di san Josemaría?

«Mi colpiva il suo buonumore, unito al suo amore a Dio. Era un buon maestro che sapeva incoraggiare e correggere, un sacerdote e un Padre che si dedicava completamente al servizio di Dio e delle anime. Ma con lui si rideva e si scherzava anche. In macchina cantava canzoni che avevano per tema l’amore umano, che gli piaceva interpretare pensando al suo amore per Dio. Una volta ha detto che al momento di morire gli sarebbe piaciuto ascoltare quella canzone italiana che fa: "Aprite le finestre al nuovo sole, è primavera!"».

America latina, Africa, Asia sono alcuni dei vostri terreni di impegno. Quali iniziative sviluppate?

«Si parla spesso di civiltà dei consumi, ma non possiamo dimenticare che gran parte dell’umanità vive in condizioni di povertà e di miseria. Anche in Occidente. La risposta della Chiesa è sempre stata non solo la beneficenza ma di educare. Per esempio nelle Ande, in Perù, alcuni fedeli della Prelatura insieme ad altri hanno creato una rete di promodoras rurales: donne dei villaggi che diventano educatrici per l’alfabetizzazione, l’igiene, la sanità di base. In tanti paesi del Sud e del Nord del mondo la sfida è quella di aiutare la popolazione locale a farsi carico dello sviluppo della propria società».

Siete presenti anche in Cina.

«Per noi la Cina non è una novità, come non lo era l’Urss. Molti fedeli dell’Opus sono in Cina come diplomatici, ingeneri, avvocati, insegnanti. Questi fedeli sono cittadini normalissimi e hanno rapporti con tante persone che si sentono seguite, capite e amate. E si cerca anche di portare il seme di Cristo. Abbiamo iniziative di insegnamento e assistenza sociale a Hong Kong, Macao e Canton. E ci sono sacerdoti, che sono chiamati per andare nella Cina continentale ad aiutare altre persone».

Mons. Echevarría, c’è già stata la proclamazione a santo di Josemaría Escrivá. Ora avete iniziato il processo di beatificazione per il suo successore Álvaro del Portillo. Perché questa bulimia di avere santi propri?

«Guardi che non abbiamo fame di santi, ma di santità. Perché la santità ci porta ad essere vicini al Signore, che è pace e gioia per tutti quanti. Noi non vogliamo mettere in mostra qualcuno per dire: guardate quanto è diverso. E’ per fare vedere a tutti che anche loro, se vogliono,possono impegnarsi per diventare santi».

    La Repubblica