Il valore della santità per i cristiani

“IL 2 OTTOBRE del 1928 un giovane prete spagnolo - su «ispirazione divina», dirà - si decise al grande passo. Fondò l'Opus Dei, un’istituzione apostolica che intendeva diffondere, tra persone di ogni ceto sociale, una vita cristiana vissuta in pienezza attraverso la santificazione della stessa esistenza quotidiana. E oggi, settantaquattro anni dopo, quel sacerdote, Josemaría Escrivá, viene iscritto nell'albo dei santi.” Articolo di Gian Franco Svidercoschi pubblicato su Il Tempo il 6 ottobre 2002.

È dunque il riconoscimento della esemplarità evangelica dell'uomo, del prete. È la conferma solenne di una istituzione, la quale, attenuatisi se non scomparsi gli odii e i sospetti di una volta, è riuscita finalmente ad esprimere la sua fecondità spirituale ed ecclesiale. Ma, più ancora, questa canonizzazione consacra una «rivoluzione», ossia il ritorno definitivo dei laici sulla scena della Chiesa. Nella comunità primitiva, tutti i cristiani erano detti «santi», come segno di appartenenza a un determinato popolo. Ma poi, con la sempre maggiore importanza assunta dagli Ordini monastici, la santità finì col diventare privilegio dei pochi ch'erano dotati di carismi straordinari, o che avevano vissuto il Vangelo in maniera radicale, eroica, spesso fino al martirio. E tutto questo andò avanti per secoli. Anche perché la Controriforma, sacralizzando il sacerdozio, aveva trasformato i preti in super-cristiani, mentre i laici erano solo dei plebei, il gregge.

E si arrivò al 2 ottobre del 1928, quando quel prete ventiseienne ribaltò la secolare convinzione (o presunzione) che ci fossero degli stati di vita superiori agli altri, più santi degli altri. Per Escrivá, tutti i cristiani, chierici e laici, potevano santificarsi nelle condizioni più ordinarie. «... c'è qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni». Dio non poteva essere considerato un'entità astratta, o, peggio, lontana dalla storia, dagli uomini, dai loro problemi. E perciò il lavoro, invece che essere visto come un castigo, una condanna, andava valorizzato come uno degli ambiti fondamentali della vita: è lì infatti che si intrecciano strettamente santificazione personale e santificazione dell'attività umana.

Molti anni dopo, arrivò il Concilio Vaticano II ad avallare le intuizioni di Escrivá. Nel documento principale, Lumen gentium, venne inserito un capitolo sulla «universale vocazione» alla santità, che era un primo fortissimo colpo di piccone contro il muro del clericalismo. Vi si diceva: «Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità». Prima e dopo il Concilio sono sbocciati diversi movimenti, come i Focolarini, il Rinnovamento nello Spirito, Comunione e Liberazione, i Neocatecumenali, la Comunità di Sant'Egidio. A conferma della eccezionale varietà di carismi e di esperienze che sta caratterizzando l'attuale stagione della Chiesa.

E comunque, Escrivá e la Prelatura dell’Opus Dei hanno avuto il merito di creare, per dir così, il clima ecclesiale dov'è maturata la piena rivalutazione dei laici cristiani. E di aver lanciato un progetto spirituale ch'è diventato sempre più attuale, specie in un momento in cui, mentre domina un forte relativismo etico, ci sono ancora troppi cattolici dalla fede tiepida, superficiale. «Che la tua vita - così Escrivá nel suo Cammino - non sia una vita sterile. Lascia traccia...».

Ecco perché la canonizzazione di oggi, per la prima volta, non sarà solo un riconoscimento canonico, non solo un evento solenne, ma anzitutto la manifestazione visibile che la santità è la condizione ordinaria del cristiano. Di ogni cristiano

Gian Franco Svidercoschi // Il Tempo