- Il lavoro, vocazione originaria dell’uomo.
- Una nuova dimensione.
- Invidiare la generosità di Dio.
IL VANGELO della Messa ci presenta una parabola a prima vista sconcertante: quella del padrone della vigna che va ad assumere operai durante tutta la giornata e che, al momento di retribuirli, sorprende pagando la stessa somma a coloro che hanno lavorato fin dal primo mattino e a quelli che si sono uniti molto più tardi (cfr. Mt 20,1-16). Questo brano ha dato luogo a diverse interpretazioni, che mettono l’accento su vari aspetti del testo. Nel contesto attuale, un tema che forse risuona con particolare forza è il dramma della disoccupazione: la situazione di molte persone che, come quegli operai, aspettano di trovare un lavoro. La tragedia, per queste persone, è duplice: da un lato, incontrano difficoltà per il sostentamento personale o familiare; dall’altro, si trovano ferite nella loro dignità umana, poiché «il lavoro costituisce una dimensione fondamentale dell'esistenza dell'uomo sulla terra»[1]; si tratta di un bene necessario non solo per la sussistenza, ma anche e soprattutto perché la donna e l’uomo possano realizzarsi come persone e, con la loro attività, servano gli altri e perfezionino il mondo, portandolo così a Dio.
«Il lavoro è la prima vocazione dell’uomo, è una benedizione di Dio, e si sbagliano, purtroppo, quelli che lo considerano un castigo»[2], insegnò san Josemaría. «Per la maggior parte degli uomini, essere santi significa santificare il proprio lavoro, nel santificarsi nel lavoro e nel santificare gli altri per mezzo del lavoro»[3]. Forse, in questo momento di preghiera, possiamo chiederci come stiamo santificando il nostro lavoro, con il desiderio e l’impegno di svolgerlo al meglio dopo averlo offerto al Signore nella Messa; come ci stiamo santificando nel lavoro, esercitando le virtù con docilità allo Spirito Santo, affinché ci trasformi in un altro Cristo attraverso l’attività che svolgiamo; come santifichiamo gli altri con il lavoro, trasmettendo luce e calore alle persone che ci circondano, con uno spirito apostolico manifestato nell’amicizia sincera che offriamo a ciascuno.
DA UNA PROSPETTIVA UMANA, tendiamo a dare più valore a quei lavori che ricevono una remunerazione maggiore, godono di prestigio sociale o si distinguono per la loro efficacia. A volte accade anche che le persone, forse non in teoria ma nella pratica, finiscano per concedere al lavoro un posto eccessivamente centrale nella propria vita, al punto che l’attività professionale invade gli spazi che dovrebbero essere dedicati al rapporto con Dio, alla vita familiare o alle relazioni di amicizia. Di fronte a queste situazioni, può essere opportuno fermarsi e riflettere: qual è il senso ultimo del mio lavoro? Sto lavorando come Dio vuole? Che cosa apprezza realmente il Signore nel mio lavoro?
«L'uomo, pertanto, non deve limitarsi a fare delle cose, a costruire oggetti. Il lavoro nasce dall'amore, manifesta l'amore, è ordinato all'amore»[4]. È l’amore ciò che il Signore apprezza del nostro lavoro, ed è ciò che trasforma un compito in apparenza insignificante in qualcosa di grandioso ed eroico. San Josemaría, in un’occasione, disse a due persone che si occupavano del giardino di una casa: «Che splendide sono tutte queste piante, tutti questi fiori... E voi, che ne pensate: vale di più il vostro lavoro o quello di un ministro?». Loro rimasero in silenzio, ma subito il fondatore dell’Opus Dei continuò: «Dipende dall’amore di Dio che ci mettete: se ci mettete più Amore di un ministro, il vostro lavoro vale di più»[5].
Il cristiano, sentendo la carità che è stata riversata nel suo cuore dallo Spirito Santo (cfr. Rm 5,5), vive colmo di gratitudine verso Dio e cerca di diffondere attorno a sé quell’amore che ha ricevuto. Lavorare per amore non esclude altri motivi legittimi – come guadagnare un salario, ottenere riconoscimento o provare la soddisfazione del dovere compiuto – ma li trascende e li ordina. In questo senso, risultano illuminanti le parole di san Paolo: «Se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza (...), ma non avessi la carità, non sarei nulla» (1Cor 13,2). Lo stesso si può dire del lavoro: quando il motore che lo muove è la ricerca della gloria di Dio, quel compito – per semplice o complesso che sia – acquista una grandezza soprannaturale. Ciò che conta, come insegnava san Josemaría, è «l'impegno per rendere divine le cose umane, grandi o piccole che siano, perché mediante l'amore tutte acquistano una nuova dimensione»[6].
LA PARABOLA del padrone della vigna mette in evidenza anche il problema dell’invidia: gli operai della prima ora protestano per la generosità del padrone verso coloro che hanno lavorato meno. Gesù si rivolgeva ad alcuni farisei che pensavano di trovarsi in una posizione privilegiata davanti a Dio, volevano essere distinti per le loro opere e non accettavano che il Signore potesse accogliere i peccatori. Invece di rallegrarsi per la misericordia divina, la percepivano come un’ingiustizia. Essi, come i lavoratori della parabola, «non riescono a vedere la bellezza del gesto del padrone, che non è stato ingiusto, ma semplicemente generoso –insegna Leone XIV–; non ha guardato solo al merito, ma anche al bisogno. Dio vuole dare a tutti il suo Regno, cioè la vita piena, eterna e felice. E così fa Gesù con noi: non fa graduatorie, a chi gli apre il cuore dona tutto Sé Stesso»[7].
L’invidia è uno dei vizi più antichi che la Scrittura ci presenta e genera, in chi la coltiva, una tristezza amara che può arrivare fino all’odio. Caino, vedendo che il Signore accoglieva con favore l’offerta di Abele e non la sua, «ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto» (Gen 4,5). Invece di volgere lo sguardo a tutti i doni che possedeva – era il primogenito di Adamo ed Eva – non sopportava che suo fratello fosse felice e ottenesse il favore di Dio. Consumato da quella tristezza invidiosa, si ribellò e mise fine alla vita di Abele.
«Alla radice di questo vizio c’è una falsa idea di Dio: non si accetta che Dio abbia la sua “matematica”, diversa dalla nostra. (...) Vorremmo imporre a Dio la nostra logica egoistica, invece la logica di Dio è l’amore. I beni che Lui ci dona sono fatti per essere condivisi. Per questo San Paolo esorta i cristiani: «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10). Ecco il rimedio all’invidia!»[8]. Possiamo chiedere alla Vergine Maria di insegnarci a gioire sinceramente per i doni che suo Figlio concede agli altri e a contemplare con gioia la misericordia con cui tratta tutti i suoi figli.
[1] San Giovanni Paolo II, Laborem exercens, n. 4.
[2] San Josemaría, Solco, n. 482.
[3] San Josemaría, Colloqui , n. 55.
[4] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 48.
[5] Salvador Bernal,Mons. Josemaría Escrivá de Balaguer. Appunti per un profilo del Fondatore dell'Opus Dei, Ares, Milano, 1977.
[6] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 60.
[7] Leone XIV, Udienza, 4-VI-2025.
[8] Francesco, Udienza, 28-II-2024.