La luce della fede (XI): Un Dio che lascia fare? Il male e il dolore

Perché esiste il male? Che senso ha il dolore? Perché Dio permette il male? Sono queste le domande che ogni persona si fa a un certo punto della propria vita. Fanno riferimento a uno dei grandi misteri dell’uomo.

L’esistenza del male nel mondo, specialmente nelle sue forme più acute e difficili da capire, è una delle cause più frequenti dell’abbandono della fede. Davanti a vicende che sembrano chiaramente ingiuste e senza senso, e di fronte alle quali ci sentiamo impotenti, sorge in modo naturale la domanda su come Dio può permettere una cosa simile. Perché il Signore, che è buono, che è onnipotente, permette che avvengano mali simili? Perché persone semplici, che già sopportano grandi pesi nella vita, debbono subire il dramma di una tragedia imprevista, come un disastro naturale? Perché Dio non interviene? Sono domande che non rivolgiamo al mondo, e neppure ai nostri simili, ma a Dio, perché confessiamo che Lui è il Creatore e il Signore del mondo[1].

Tali questioni, in certo qual modo, superano i confini della Rivelazione e penetrano nel mistero di Dio stesso; in fin dei conti, non c’è nulla nella creazione che sfugga alla sapienza e alla volontà di Dio. Così come non possiamo comprendere l’infinita bontà di Dio, neppure possiamo sondare completamente i suoi progetti. Per questo assai spesso l’atteggiamento migliore di fronte al male e al dolore è quello dell’abbandono fiducioso in Dio, che sempre “sa di più” e “può di più”.

Però è anche naturale che cerchiamo di illuminare l’oscuro mistero del male, in modo che la fede non si spenga in seguito all’esperienza della vita, ma, proprio in quei momenti, continui ad essere una luce chiara nel nostro percorso, «lampada per i miei passi» (Sal 119, 105).

Il male proviene dalla libertà creata

Dio non ha creato un mondo chiuso, al quale possa accedere solo Lui, e neppure ha fatto il mondo perfetto. Lo ha fatto aperto a molte possibilità e perfettibile, e ha creato gli uomini e le donne perché lo abitassero e lo completassero con il loro ingegno. Ci ha fatto intelligenti e liberi, e ci ha dato la possibilità di sviluppare questi talenti. In questo senso Dio, nel chiamarci all’esistenza, ci mette alla prova: ci assegna il compito di fare il bene secondo le nostre possibilità. E questo è, di solito, un’attività faticosa. «Impiegateli fino al mio ritorno» (Lc 19, 13). Come nella ben nota parabola di Gesù, i talenti non si possono seppellire o nascondere: ognuno di noi è chiamato a far fruttare la propria vita, a moltiplicare quello che riceviamo. Però spesso non lo facciamo, o magari facciamo esattamente l’opposto, ci proponiamo volontariamente cose cattive e le realizziamo: spesso siamo colpevoli.

L’umanità lo è stata fin dal principio, da quell’atto che è stato l’inizio di tutti i mali. Tutto quello che c’è di male nel mondo ruota attorno a questo: al cattivo uso della libertà, alla capacità che abbiamo di distruggere le opere di Dio; in noi stessi, negli altri, nella natura. Quando lo facciamo, ci priviamo di Dio, il nostro cuore si ottenebra, e possiamo far sì addirittura che la nostra vita o quella di altri si trasformi in un inferno. Questo è il vero male, quello che dobbiamo temere di più: il peccato. Dal peccato, infatti, derivano in un modo o nell’altro gli altri mali.

La sofferenza come prova o purificazione

Ma, allora, il male è sempre il frutto diretto della colpa? Per prima cosa dobbiamo chiarire che cos’è il male. In se stesso non è altro che l’altra faccia del bene, la faccia che la realtà mostra quando manca il bene, quando ciò che dovrebbe essere non è e ciò che dovrebbe essere presente non c’è. Il male è privazione, non ha un’identità positiva; è negatività, e per esistere ha bisogno di aggrapparsi al bene[2]. Noi soffriamo quando sentiamo l’assenza del bene. Naturalmente, la colpa, nostra o degli altri, produce sempre un danno; tuttavia, non sempre quando patiamo un danno lo patiamo per essere stati colpevoli.

Nella Sacra Scrittura il libro di Giobbe tratta questo problema in profondità. Gli amici di Giobbe vogliono persuaderlo che le disgrazie che il Signore gli ha inviato sono conseguenza dei suoi peccati, della sua ingiustizia. Anche se non poche volte è così, perché i delitti meritano un castigo – cosa logica secondo l’ordine umano e anche secondo quello divino –, il caso di Giobbe ci fa vedere che anche i giusti e gli innocenti soffrono. Riferendosi a questo libro sacro, san Giovanni Paolo II ha scritto: «Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa ed abbia carattere di punizione»[3]. In realtà, per Giobbe la sofferenza non fu che una prova per la sua fede, e da essa uscì fortificato. Certe volte Dio ci mette alla prova, ma ci dà sempre la sua grazia per superarla, e cerca il modo di farci crescere nell’amore, che è il senso ultimo del bene.

Altre volte la sofferenza ha un significato di purificazione. Così è successo con Israele al tempo di Mosè, quando il popolo era volubile e capriccioso. Dio lo purificò con un lungo viaggio attraverso il deserto, e così lo andò formando finché fu in grado di entrare nella terra promessa e riconoscere la fedeltà di Dio alla parola data. Spesso la sofferenza acquista – nella Provvidenza divina – un valore simile, purificatore. Esistono persone che, immersi nel trambusto della vita, non si pongono gli interrogativi decisivi finché una malattia, o un rovescio economico o familiare, li induce a interrogarsi più a fondo. Ed è frequente che avvenga un cambiamento, una conversione, un miglioramento o una disponibilità alle necessità del prossimo. Allora la sofferenza è anche pedagogia di Dio, che vuole che l’uomo non si perda , che non si dissolva fra le delizie del percorso o tra gli aneliti mondani. Pertanto, benché nella vita di ciascuno vi sia una quantità di male sulla quale conta la Provvidenza divina, questo male alla fine si rivela un servizio al bene dell’uomo.

La sofferenza nella natura

Sotto questa luce acquista un certo senso anche la sofferenza naturale, quella che è presente e quasi iscritta nel nostro ambiente creato: la fatica di crescere nel sapere di più e progredire, la caducità degli esseri che invecchiano e muoiono, la mancanza di armonizzazione nei fenomeni naturali (che s’impongono come se volessero distruggere l’ordine della creazione). Sofferenze che non possiamo evitare, che non padroneggiamo né controlliamo, che stanno lì, iscritti nella natura.

Certe volte si tratta di mali necessari perché possano sussistere altri beni. San Tommaso fa l’esempio del leone che non potrebbe conservare la propria vita se non desse la caccia all’asino o a qualche altro animale[4]. Spesso, però, ci vengono nascosti i beni che possono derivare dalle vicende tragiche della natura. Non è facile capire perché Dio le permetta, né perché ha creato un universo in cui è possibile la distruzione e che, alcune volte, non sembra essere retto dalla Bontà e dall’Amore. Una possibile luce proviene dal fatto di considerare che in generale la distruzione originata dai fenomeni naturali è collegata, secondo il disegno creatore, con la nostra libertà e con la capacità che abbiamo di rifiutare Dio.

L’habitat nel quale viviamo e che tante volte ci meraviglia per la sua bellezza – il mondo fisico – può anche diventare un luogo orribile, in modo simile a come il nostro cuore, fatto per amare Dio e per avere il Cielo dentro, può anche arrivare ad essere un luogo triste e oscuro: se lo si abbandona, se lo si lascia in balia dei semi piantati dal diavolo. Sicché, quando contempliamo una natura scatenata che causa distruzioni senza mire o barlumi di giustizia, dobbiamo pensare che lì il Signore ci presenta la figura di un mondo nel quale non può regnare e di un cuore che rifiuta l’amore e la giustizia. La profonda relazione tra la Creazione e l’uomo, che ne fu messo a capo perché la custodisse (cfr. Gn 2, 15), si mette in mostra anche in questo disordine.

Gli uomini e anche «tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8, 22), perché partecipano al progetto creatore e redentore di Dio. Anch’essa «nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione» ed «entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 21).

La sofferenza che redime

Indubbiamente, però, quello che illumina nel modo più determinante il significato del male è la Croce di Gesù. E insieme alla Croce, la Risurrezione. La sua Croce ci indica che la sofferenza può essere il segno e la prova dell’amore; o, meglio ancora, può essere la via della distruzione del peccato. Infatti, nella Croce di Gesù l’amore di Dio ha purificato i peccati del mondo. Il peccato non resiste, non può resistere, all’amore che si abbassa e si umilia per il bene del peccatore. Come afferma un famoso personaggio creato da Dostoevskij, «l’umiltà dell’amore è una forza tremenda, la più forte di tutte, alla quale non c’è nulla che somigli»[5].

Sulla Croce, la sofferenza di Gesù è redentrice perché il suo amore al Padre e agli uomini non retrocede davanti al rifiuto e alle ingiustizie umane. Egli ha dato la sua vita per i peccatori, li ha serviti con la sua donazione totale, e così la sua Croce è diventata per loro una sorgente di vita.

Anche le nostre sofferenze possono essere redentrici quando sono frutto dell’amore o sono trasformate dall’amore. Allora partecipano alla Croce di Cristo. Come insegnava san Josemaría, la sofferenza è sorgente di vita: di vita interiore e di grazia per se stesso e per gli altri[6]. In realtà, non è la sofferenza in quanto tale a redimere, ma la carità in essa presente.

Già sul piano umano l’amore ha la capacità di modellare la vita: la madre che non lesina sforzi per la felicità dei suoi figli, il fratello che si sacrifica per il proprio fratello che ha un problema, il soldato che mette in gioco la propria vita per proteggere il suo plotone. Sono esempi che rimangono vivi nella memoria e onorano i protagonisti. Quando questo amore è motivato e fondato nella fede, allora, oltre ad essere una cosa bella, è anche divino: partecipa della Croce ed è canale della grazia che proviene da Cristo. A questo punto il male si trasforma in bene mediante l’azione dello Spirito Santo, in dono che proviene dalla Croce di Gesù.

L’ultima carta

Comunque, a tutto ciò che si è detto finora nel tentativo di spiegare il significato del male si potrebbe aggiungere una considerazione conclusiva. Ed è che, anche se il male è presente nella vita dell’uomo sulla terra, Dio ha sempre nelle sue mani un’ultima carta, è sempre l’ultimo giocatore per ciò che si riferisce alla vita di ciascuno di noi. Dio ci ama, ci apprezza, e per questo si riserva l’ultima carta, che è la speranza del mondo: il suo amore creatore onnipotente. L’amore che si manifesta anche nella risurrezione di Gesù Cristo.

Infatti, per quanto grandi e incomprensibili possano essere i drammi della vita, assai superiore è il potere creatore e ri-creatore di Dio. La vita è un tempo di prova e, quando finisce, comincia quello definitivo. Questo mondo è passeggero. Con esso succede come alla prova di un concerto: forse qualcuno ha dimenticato lo strumento, un altro non ha studiato bene la sua parte e un terzo non ha accordato a dovere lo strumento. Per questo esistono le prove. È il momento di accordare, di armonizzare gli strumenti, di adeguarsi al direttore d’orchestra. Poi, alla fine, arriva il gran giorno, quando tutto è ormai pronto a puntino, e il concerto si può svolgere in una sala in festa, in mezzo al tripudio e all’emozione generale.

La vita di Cristo non è soltanto la dimostrazione dell’amore di Dio, ma anche del suo potere, il potere di restituire abbondantemente tutto quello che non faceva parte della giustizia, tutto quello in cui sembrava che Dio non fosse presente, là dove aveva lasciato fare al male e al dolore, ben oltre a ciò che allora eravamo riusciti a comprendere. Anche Gesù ebbe per un momento la sensazione di essere stato abbandonato (cfr. Mc 15, 34), lo sopportò con amore, e alla Croce fece seguito una gloria eterna. L’ultimo libro della Scrittura, l’Apocalisse, ci parla di un Dio che «tergerà ogni lacrima» (Ap 21, 4), perché Egli fa nuove tutte le cose (cfr. Ap 21, 5) e sarà la sorgente di una felicità sovrabbondante.

Come aiutare quelli che soffrono?

In molti casi, davanti al dolore altrui ci sentiamo impotenti e possiamo fare soltanto quello che fece il samaritano (cfr. Lc 10, 25-37): offrire affetto, ascoltare, dare compagnia, stare accanto; vale a dire, non passare al largo. Alcune opere d’arte mostrano il buon samaritano e l’uomo rapinato con lo stesso volto. L’interpretazione può essere che Cristo cura e, nello stesso tempo, è curato. Ognuno di noi è, o può essere, il buon samaritano che cura le ferite dell’altro, e in quel momento siamo Cristo. Però certe volte abbiamo bisogno di essere curati noi perché qualcosa ci ha ferito – una brutta faccia, una brutta risposta, un amico che ci ha lasciato – e siamo curati da un buon samaritano, che può essere lo stesso Cristo, se ricorriamo a Lui nella preghiera, o una persona vicina che diventa Cristo quando ci ascolta. E noi siamo Cristo per gli altri, perché ognuno di noi è immagine e somiglianza di Dio.

La sofferenza rimane sempre un mistero, ma un mistero che per l’azione salvifica di Nostro Signore ci può aprire agli altri: «Da tutte le parti vi sono bambini abbandonati, o perché sono stati abbandonati alla nascita o perché la vita li ha abbandonati - la famiglia, i genitori -, e non hanno ricevuto l’affetto della famiglia. Come uscire da questa esperienza negativa di abbandono, di lontananza dall’amore? C’è un solo rimedio per uscire da esperienze come queste: fare quello che io non ho ricevuto. Se tu non hai ricevuto comprensione, sii comprensivo con gli altri. Se non hai ricevuto amore, ama gli altri. Se hai sentito il dolore della solitudine, avvicinati a quelli che sono soli. La carne si cura con la carne e Dio si è fatto carne per curare noi. Facciamo lo stesso noi con gli altri»[7].

Molte persone hanno sentito la carezza di Dio proprio nei momenti più difficili: i lebbrosi accarezzati da santa Teresa di Calcutta, i tubercolosi che san Josemaría confortava materialmente e spiritualmente o i moribondi trattati con rispetto e amore da san Camillo de Lellis. Anche questo ci dice qualcosa sul mistero del dolore nell’esistenza umana: sono momenti in cui la dimensione spirituale della persona può mostrarsi con forza se si lascia abbracciare dalla grazia del Signore, nobilitando anche le situazioni più gravi.

Antonio Ducay


[1] Cfr. san Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Salvifici Doloris, n. 9.

[2] Cfr. J. Ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (Milano) 2001.

[3] San Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici Doloris, n. 11.

[4]Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 48, a. 2 ad 3

[5] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov.

[6] Cfr. san Josemaría, Via Crucis, XII Stazione.

[7] Papa Francesco, Discorso nello stadio Kerasani di Nairobi, 27-XI-2015.