Per me, vivere è Cristo (VII): Il senso della missione (II)

Il dinamismo proprio dell’apostolato è la carità, che è un dono divino: «in un figlio di Dio, amicizia e carità formano una cosa sola: luce divina che dà calore» (Forgia, 565). La Chiesa cresce per mezzo della carità dei suoi fedeli e soltanto in un secondo tempo arrivano la struttura e l’organizzazione, come frutti della carità e per essere al suo servizio.

San Luca descrive a vivi tratti la vita dei primi credenti a Gerusalemme dopo la Pentecoste: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo. Intanto ogni giorno il Signore aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2, 46-48). Eppure, ben presto sarebbero arrivate le contrarietà: la prigione di Giovanni e Pietro, il martirio di Stefano e, infine, la persecuzione vera e propria.

Che cosa spingeva quei primi fedeli a parlare del Signore a tutti coloro che incontravano, anche durante la persecuzione?

Proprio in una situazione del genere, l’evangelista narra una cosa sorprendente: «quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio» (At 8, 4). Ci sorprende non poco il fatto che, pur in momenti di serio pericolo di vita, non interruppero l’annuncio della salvezza. Non è un caso isolato, ma rispecchia un dinamismo ininterrotto. Un poco oltre appare una notizia simile: «Quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di Stefano erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei» (At 11, 19). Che cosa spingeva quei primi fedeli a parlare del Signore a tutti coloro che incontravano, anche se stavano cercando di sottrarsi a una persecuzione? Sono spinti dalla gioia che hanno provato e che riempie il loro cuore: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1, 3). Lo annunciano con semplicità, «perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1, 4). L’Amore che ha attraversato il loro cammino... deve essere condiviso. La gioia è contagiosa. Ma non potremmo vivere così anche noi, cristiani di oggi?

La via dell’amicizia

Un particolare di questi racconti del libro degli Atti è molto significativo. Tra quanti erano stati dispersi, «alcuni fra loro, cittadini di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore Gesù» (At 11, 20). I cristiani non si muovevano in cerchie particolari, né aspettavano di raggiungere luoghi idonei ad annunciare la vita e la libertà che avevano ricevuto. Ciascuno condivideva la propria fede con naturalezza, nell’ambiente alla propria portata, con le persone che Dio poneva sulla sua strada. Come Filippo con l’etiope che ritornava da Gerusalemme, come i coniugi Aquila e Priscilla con il giovane Apollo (cfr. At 8, 26-40; 18, 24-26). L’amore di Dio che riempiva i loro cuori li portava a preoccuparsi di tutte queste persone, condividendo con esse quel tesoro «che ci rende grandi e che può rendere più buoni e felici quelli che lo accolgono»[1]. Se partiamo dalla vicinanza con Dio, potremo rivolgerci a quanti ci sono più vicini per condividere ciò che viviamo. Non solo, ma vorremo avvicinarci a molta altra gente per condividere anche con loro la vita nuova che il Signore ci dà. In tal modo, oggi come allora, si potrà dire che «la mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore» (At 11, 21).

Una seconda idea che possiamo prendere in considerazione alla luce della storia è che, più che per un’azione strutturale e organizzata, la Chiesa cresceva – e cresce – grazie alla carità dei suoi fedeli. La struttura e l’organizzazione arriveranno più tardi, proprio come frutto di questa carità e al servizio di essa. Nella storia dell’Opera abbiamo visto qualcosa di simile. Coloro che per primi seguirono san Josemaría amavano gli altri con un affetto sincero e questo era l’ambiente in cui il messaggio di Dio a poco a poco si aprì la strada. Si racconta della prima Residenza universitaria: «“Quelli di via Luchana 33” erano degli amici uniti dallo stesso spirito cristiano che il Padre trasmetteva. Proprio per questo, chi si trovava a suo agio nell’ambiente che si era formato attorno a don José María e alle persone che gli stavano accanto, ritornava. In verità, se nell’appartamento di via Luchana si accedeva per invito, invece si rimaneva per amicizia»[2].

I cristiani non si muovevano in cerchie particolari per annunciare la vita e la libertà che avevano ricevuto.

Ci fa bene ricordare questi aspetti della storia della Chiesa e dell’Opera ora che, con il passare degli anni, l’una e l’altra sono cresciute tanto (fatte salve le proporzioni) e corriamo il rischio di confidare più nelle opere di apostolato che nel lavoro che può fare ciascuna e ciascuno. Il Prelato ce lo ha voluto ricordare recentemente: «Le attuali circostanze della evangelizzazione rendono ancora più necessario, se possibile, dare priorità al rapporto personale, a questo aspetto relazionale che è al centro del modo di fare apostolato che san Josemaría trovò nei racconti evangelici»[3].

In realtà, è naturale che sia così. Se il dinamismo proprio dell’apostolato è la carità che è dono di Dio, «in un figlio di Dio, amicizia e carità formano una cosa sola: luce divina che dà calore»[4]. L’amicizia è amore e, per un figlio di Dio, è autentica carità. Ecco perché non si tratta di cercare di avere amici per fare apostolato, ma di fare in modo che amicizia e apostolato siano la manifestazione di uno stesso amore. O meglio, «l’amicizia stessa è apostolato; l’amicizia stessa è un dialogo, nel quale diamo e riceviamo luce; nel quale nascono progetti, in una reciproca trasmissione di nuove prospettive; nel quale ci rallegriamo di ciò che è buono e ci sosteniamo nelle difficoltà; nel quale ce la godiamo, perché Dio ci vuole contenti»[5]. Non ci resta che domandarci: fino a che punto mi prendo cura dei miei amici? Condivido con loro la gioia dovuta al fatto di sapere quanto io sono importante per Dio? D’altra parte, cerco di arrivare ad altre persone, a persone che forse non hanno mai conosciuto un credente, per avvicinarle all’amore di Dio?

Nei crocevia del mondo

«Non è per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1 Cor 9, 16). Queste parole di san Paolo sono un richiamo continuo per la Chiesa. Nello stesso modo, la coscienza di essere stato chiamato da Dio per una missione è un modello sempre attuale: «Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato» (1 Cor 9, 17). L’apostolo delle genti sapeva bene di essere stato chiamato per portare il nome di Cristo «dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele» (At 9, 15) e per questo sentiva una santa premura di arrivare a tutti.

«l’amicizia stessa è apostolato; l’amicizia stessa è un dialogo, nel quale diamo e riceviamo luce; nel quale nascono progetti, in una reciproca trasmissione di nuove prospettive» (Mons. Ocáriz)

Quando lo Spirito Santo condusse Paolo in Grecia, nel suo secondo viaggio, il cuore gli si dilatava e si incendiava man mano che percepiva attorno a sé la sete di Dio. Ad Atene, mentre aspettava i compagni che erano rimasti a Berea, san Luca racconta che egli «fremeva nel suo spirito nel vedere la città piena di idoli» (At 17, 16). Prima di tutto si diresse, come era solito fare, verso la sinagoga; questo gli sembrò poco e appena gli fu possibile andò anche nell’Areopago, finché gli stessi ateniesi gli chiesero di esporre a tutti «questa nuova dottrina predicata da te» (At 17, 19). E così, nell’Areopago di Atene, dove si incontravano le correnti di pensiero allora più attuali e influenti, Paolo annunciò il nome di Cristo.

Come l’apostolo, anche noi «siamo chiamati a contribuire, con iniziativa e spontaneità, a migliorare il mondo e la cultura del nostro tempo, in modo che si aprano ai progetti di Dio per l’umanità: cogitationes cordis eius, i piani del suo cuore sussistono per tutte le generazioni (Sal 33 [32], 11)»[6]. È naturale che in molti fedeli cristiani nasca il desiderio di arrivare in quei luoghi che «hanno una grande influenza per la futura configurazione della società»[7]. Duemila anni fa erano Atene e Roma. Oggi, quali sono questi luoghi? Vi sono cristiani che potrebbero portarvi «il profumo di Cristo» (2 Cor 2, 15)? E noi, non potremmo fare qualcosa per avvicinarci a quei luoghi, che spesso non sono neppure luoghi fisici? Pensiamo ai grandi spazi in cui molte persone prendono decisioni importanti, vitali per la loro vita...; però pensiamo anche alla nostra città, al nostro quartiere, al nostro posto di lavoro. Quanto può fare, in questi luoghi, la presenza di chi si batte per una visione più giusta e solidale dell’essere umano, che non fa distinzioni tra ricchi o poveri, sani o malati, gente del luogo o stranieri…

A pensarci bene, tutto questo fa parte della missione propria dei fedeli laici nella Chiesa. Come ha suggerito il Concilio Vaticano II, essi «sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio della loro funzione propria sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo, a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita e col fulgore della fede, della speranza e della carità»[8]. Questa chiamata, comune a tutti i fedeli laici, si concretizza in modo particolare in coloro che, come noi, hanno ricevuto la vocazione all’Opus Dei. San Josemaría descriveva l’apostolato delle sue figlie e dei suoi figli come «una iniezione endovenosa nel sistema circolatorio della società»[9]. Li vedeva impegnati i «portare Cristo in tutti gli ambienti in cui gli uomini agiscono: nelle fabbriche, nei laboratori, nei campi, nelle botteghe degli artigiani, nelle strade delle grandi città e nei sentieri di montagna»[10], collocandolo, con il loro lavoro, «al vertice di tutte le attività della terra»[11].

Con il desiderio di mantenere vivo questo carattere costitutivo dell’Opera, il Prelato ci invitava, nella sua prima lettera, a «promuovere in tutti un grande entusiasmo professionale: in coloro che ancora sono studenti e devono alimentare un grande desiderio di costruire la società, e in coloro che esercitano una professione; conviene che, con rettitudine d’intenzione, stimolino la santa ambizione di arrivare lontano e di lasciare una traccia»[12]. Non si tratta di «sapere tutto» per un prurito di originalità, ma di prendere coscienza che, per i fedeli dell’Opus Dei, «essere aggiornati, comprendere il mondo moderno è qualcosa di naturale e di istintivo, perché sono essi – con gli altri cittadini e uguali a loro – che fanno nascere questo mondo e gli conferiscono modernità»[13]. È un compito splendido, che ci richiede un continuo impegno di uscire dal nostro piccolo mondo e alzare gli occhi verso l’immenso orizzonte della salvezza: il mondo intero aspetta la presenza vivificante dei cristiani! Noi, invece, «quante volte ci sentiamo strattonati per fermarci sulla comoda riva! Ma il Signore ci chiama a navigare al largo e a gettare le reti in acque più profonde (cfr Lc 5,4). Ci invita a spendere la nostra vita al suo servizio. Aggrappati a Lui abbiamo il coraggio di mettere tutti i nostri carismi al servizio degli altri. Potessimo sentirci spinti dal suo amore (cfr 2 Cor 5,14) e dire con san Paolo: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1 Cor 9,16)»[14].

La disponibilità a fare l’Opera

Insieme con il desiderio di portare la salvezza a molte persone, nel cuore dell’apostolo c’è «la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11, 28). Difficoltà nella Chiesa ce ne sono state fin dal principio: il libro degli Atti racconta che Barnaba «era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli» (At 4, 37); san Paolo in molte sue lettere ricorda la colletta che stava preparando per i cristiani di Gerusalemme. Anche in questo punto, l’Opera non è stata una eccezione. Appena una settimana dopo essere arrivato per la prima volta a Roma, il 30 giugno 1946, san Josemaría scriveva una lettera ai membri del Consiglio Generale, che allora risiedeva a Madrid: «Penso di venire a Madrid quanto prima e di ritornare poi a Roma. È necessario – pensaci tu, Ricardo![15] – preparare seicentomila pesetas, con la massima urgenza. Con le nostre grandi difficoltà, sembra una follia, eppure è assolutamente necessario prendere casa qui»[16]. I problemi economici in relazione alle case di Roma erano soltanto all’inizio e, come i primi cristiani, i fedeli dell’Opera erano consapevoli che riguardavano tutti loro. Negli ultimi anni don Javier era solito raccontare, con profonda emozione, la storia dei due sacerdoti che arrivarono in Uruguay per cominciare il lavoro dell’Opus Dei. Dopo un certo tempo che stavano nel paese, ricevettero un donativo sostanzioso, che li avrebbe sollevati dalle ristrettezze in cui si trovavano. Tuttavia non esitarono un istante e lo inviarono per intero per la sede di Roma.

Le difficoltà materiali non terminarono con la vita di san Josemaría, ma continuano e continueranno sempre. Grazie a Dio, le attività si moltiplicano in tutto il mondo, e inoltre bisogna pensare a conservare quelle già esistenti. Per questo è ugualmente importante che si mantenga vivo il comune senso di responsabilità per ciò che riguarda queste necessità. Come ci ricorda il prelato, «il nostro amore per la Chiesa ci spingerà a procurare le risorse necessarie per lo sviluppo delle attività apostoliche»[17]. Non è soltanto questione di contribuire di tasca nostra, ma soprattutto occorre che questo impegno nasca dall’amore che abbiamo per l’Opera

Lo stesso si potrebbe dire di un’altra meravigliosa manifestazione della nostra fede nell’origine divina della chiamata a fare l’Opus Dei sulla terra. Conosciamo bene la gioia che dava a san Josemaría la donazione gioiosa che vedeva nelle sue figlie e nei suoi figli. In una delle sue ultime lettere ringraziò il Signore per il fatto che tutti avevano dimostrato una «totale disponibilità – tenuto conto dei doveri del loro stato personale, nel mondo – per il servizio di Dio nell’Opera»[18]. I momenti di incertezza e di contestazione che si vivevano nella Chiesa e nel mondo mettevano in evidenza, con una luce del tutto speciale, questa donazione generosa: «giovani e meno giovani sono andati di qua e di là con la più grande naturalezza o hanno perseverato fedeli e senza stancarsi nel medesimo luogo, hanno cambiato ambiente se occorreva, hanno interrotto il proprio lavoro e hanno messo il massimo impegno in un lavoro diverso che in quel momento interessava di più per motivi apostolici; hanno imparato cose nuove, hanno accettato con piacere di nascondersi e scomparire, facendo spazio ad altri: salire e scendere»[19].

Infatti, anche se l’attività principale dell’Opera è l’apostolato personale di ciascuno dei suoi fedeli[20], non si deve dimenticare che essa promuove anche, in modo corporativo, alcune attività sociali, educative e benefiche. Sono manifestazioni diverse dello stesso amore ardente che Dio ha messo nei nostri cuori. Inoltre, la formazione che dà l’Opera «richiede una certa struttura»[21], ridotta ma irrinunciabile. Lo stesso senso della missione che ci porta ad avvicinare molte persone e a fare in modo di essere lievito nei centri di decisione della vita umana, mantiene viva in noi una sana preoccupazione per le necessità dell’Opera intera.

Molti fedeli dell’Opus Dei – celibi o sposati – lavorano nelle attività apostoliche del tipo più diverso. Alcuni si occupano delle attività di formazione e di governo dell’Opera. Anche se tali attività non costituiscono l’essenza della loro vocazione, essere disponibili a incarichi del genere fa parte del loro modo specifico di essere Opus Dei. Per questo il prelato li invita ad avere, insieme a un «grande entusiasmo professionale», «una disponibilità attiva e generosa per dedicarsi, quando è necessario, con lo stesso entusiasmo professionale, alle attività di formazione e di governo»[22]. Non si accettano questi compiti come un incarico imposto, che nulla ha da vedere con la propria vita. Al contrario, è qualcosa che nasce dalla consapevolezza di essere stati chiamati da Dio per un compito grande e, come san Paolo, di volersi fare «servo di tutti per guadagnarne il maggior numero» (1 Cor 9, 19). Questi compiti sono, in realtà, un «lavoro professionale, che richiede una specifica e scrupolosa abilitazione»[23]. Per questo, quando si accettano incarichi di questo tipo si ricevono con il senso della missione, per viverli con il desiderio di ognuno di contribuire con un proprio granello di sabbia. Per la stessa ragione, non significa che vengono tolti dal mondo, ma, nel loro caso, è proprio questo il loro modo di rimanere in mezzo al mondo, riconciliandolo con Dio, e il cardine intorno al quale ruoterà la loro santificazione.

Nella Chiesa primitiva i discepoli avevano «un cuore solo e un’anima sola» (At 4, 32). Vivevano preoccupati gli uni degli altri, con una fraternità incantevole: «Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2 Cor 11, 29). Dal luogo in cui avevano trovato la gioia del vangelo, riempivano il mondo di luce. Tutti sentivano la preoccupazione di avvicinare molte persone alla salvezza cristiana. Tutti volevano collaborare al lavoro degli apostoli: con la propria vita dedicata, con la loro ospitalità, con aiuti materiali o mettendosi al loro servizio, come i compagni di viaggio di Paolo. Non è un quadro del passato, ma una meravigliosa realtà, che vediamo incarnata nella Chiesa e nell’Opera, e che siamo chiamati a incarnare oggi, con tutta l’attualità della nostra libera risposta al dono di Dio.

Lucas Buch


[1] Papa Francesco, Es. ap. Gaudete et Exultate, 19-III-2018, n. 131.

[2] J.L. González Gullón, DYA – La Academia y Residencia en la historia del Opus Dei (1933-1939), Rialp, Madrid, p. 196.

[3] F. Ocáriz, Lettera pastorale, 14-II-2017, n. 9.

[4] San Josemaría, Forgia, 565.

[5] F. Ocáriz, Lettera pastorale, 9-I-2018, n. 14.

[6] F. Ocáriz, Lettera pastorale, 14-II-2017, n. 8.

[7]Ibid., n. 29.

[8] Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 31.

[9] San Josemaría, Istruzione 19-III-1934, n. 42.

[10] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 105.

[11]Ibid., n. 183.

[12] F. Ocáriz, Lettera pastorale, 14-II-2017, n. 8.

[13] San Josemaría, Colloqui, n. 26.

[14] Papa Francesco, Es. ap. Gaudete et Exultate, 19-III-2018, n. 130.

[15] Ricardo Fernández Vallespín era allora l’amministratore generale dell’Opera, e dunque colui che aveva l’incarico di occuparsi delle necessità economiche.

[16] A. Vázquez de Prada, Il Fondatore dell’Opus Dei, III, Leonardo International, Milano 2004, p. 36.

[17] F. Ocáriz, Lettera pastorale, 14-II-2017, n. 8.

[18] San Josemaría, Lettera 14-II-1974, n. 5.

[19]Idem.

[20] cfr. San Josemaría, Colloqui, n. 51.

[21]Ibid., n. 63.

[22] F. Ocáriz, Lettera pastorale, 14-II-2017, n. 8.

[23] San Josemaría, Lettera 29-IX-1957, n. 9.