“Il granello di senape. Regno di Dio o impero di Dio?” è disponibile in formato cartaceo presso Edizioni San Paolo e su Amazon. Clicca per acquistarlo: Edizioni San Paolo, Amazon.
Da cosa nasce il bisogno di scrivere questo libro e come mai il granello di senape ne è diventato il titolo?
Mi piace il termine bisogno! Avrei detto “desiderio” ma forse è persino più giusto dire “bisogno”. Dice San Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone”. Diciamo che il bisogno è quello di annunciare la bellezza del Vangelo, secondo l’esperienza che ne abbiamo fatto. Una bellezza spesso nascosta da tante cose che sembrano del Vangelo ma non vi appartengono e che la parabola del granello di senape, nel suo umile incanto, esprime molto bene.
Nel libro raccontate che la vostra comprensione della parabola del granello di senape è cambiata durante un viaggio in Terra Santa. Cosa vi ha colpito a tal punto da farvi riscrivere tutto quello che pensavate sul Regno di Dio?
La pianta di senape. L’avevamo sempre immaginata come un grande albero e invece è un umile arbusto: la più grande pianta dell’orto! Più grande della lattuga e della cicoria ma certamente molto lontana dalle querce o dai cedri del Libano cantati spesso dalla Bibbia.
Sostenete che il Regno di Dio non è un progetto grandioso ma una realtà piccola, nascosta, quotidiana. Quali conseguenze ha questo sguardo per chi cerca di vivere la fede “in mezzo al mondo”?
Scoprire che Dio non abita innanzitutto nel Tempio ma che desidera “fare il nido”, usando proprio l’espressione della parabola, in noi e nei nostri incontri. Questa scoperta trasforma il nostro lavoro, il nostro impegno sociale, la nostra cura degli altri e dell’ambiente, il nostro impegno per la giustizia, la pace, la libertà.
Nel libro dite che Gesù parla con parabole “laiche”, mai religiose in senso stretto. Perché è così importante oggi riscoprire questo modo di parlare di Dio?
Direi innanzitutto: perché è il modo che ha usato Gesù di Nazareth. Ma riprendendo la domanda precedente: perché il Vangelo non confina Dio a uno spazio sacro o ad alcuni “momenti religiosi”. Il Vangelo è uno sguardo nuovo su tutto: persone, istituzioni, cultura, creato… Anche una pianta di senape ha molto da insegnarci su Dio se la sappiamo guardare.
C’è una pagina in cui affermate che “il Vangelo è piccolo perché lascia spazio all’interpretazione e alla vita”. È un’idea affascinante, ma rischiosa: come evitare il relativismo e restare fedeli al messaggio di Cristo?
E’ certamente un rischio come è un rischio la libertà. Ma è un rischio che Dio ha voluto correre. San Josemaria diceva che i cristiani hanno un denominatore comune e un numeratore diversissimo. Mi sembra un bel modo per mostrare che il pluralismo non è relativismo. Il relativismo nega che esista una verità o che sia possibile incontrarla. Il pluralismo al contrario è un atto di amore alla verità, che riconosce troppo grande per essere posseduta da qualcuno in modo esaustivo e definitivo. Soprattutto la verità del Vangelo, che eccede sempre ogni sua realizzazione storica. Il vero pluralismo (il denominatore comune e il numeratore diverso) diventa allora una ricerca umile e corale della verità.
Per chi si impegna nell’apostolato, è forte la tentazione di puntare ai numeri, ai risultati, alla visibilità. Qual è, secondo voi, il giusto modo di “misurare” il Regno di Dio?
Nel libro ci soffermiamo sulla frase evangelica “Il Regno di Dio è in mezzo a voi”. Il versetto si può tradurre “dentro di voi” o “tra di voi” e indica che il Regno non consiste nei numeri o nell’estensione, in modo analogo al successo di un “impero”, ma nelle nostre relazioni trasformate dalla presenza del Risorto. Per questo il Regno è visibile e riconoscibile ma non misurabile.
Nel libro affrontate anche la crisi di molte risposte religiose tradizionali. Chi ha risposte alle domande del nostro tempo?
Prima delle risposte è ancora più importante lasciarsi provocare dalle domande e dalle novità del nostro tempo superando la, peraltro comprensibilissima, ricerca di sicurezze. Mi ha colpito una frase di Leone XIV nella Messa di inizio del ministero petrino: ha auspicato una Chiesa che si lasci inquietare dalla storia. Mi sembra un’espressione molto bella.
L’opera è il frutto di un dialogo tra due amici. Quanto è importante, oggi, pensare la teologia come un’esperienza condivisa, più che come una teoria?
Non farei un’alternativa tra esperienza condivisa e teoria. Direi piuttosto che una teoria, che in teologia possiamo considerare come un tentativo di contemplare in modo profondo il mistero di Cristo, non può essere un’esperienza individuale: il seme del Vangelo dà frutto se cade nel terreo delle nostre relazioni.
Il libro cita Shahbaz Bhatti, politico pakistano e martire contemporaneo e parla di una “spiritualità da cristiani perseguitati”, che dovrebbe diventare la norma e non l’eccezione. Che cosa significa oggi vivere la fede in questa chiave? E che valore ha il martirio, anche quotidiano, per il Regno di Dio?
Per evitare equivoci parto da quello che non significa: non significa una poco evangelica inclinazione al vittimismo e ancora meno una pericolosa esaltazione della sofferenza. Significa che non bisogna confondere l’efficacia del Vangelo con il successo mondano, fosse anche un successo “religioso”. Questa rinuncia al successo o al potere porta spesso anche a soffrire ma quello che conta non è la sofferenza, così come la sofferenza non determina il valore della croce di Cristo: ciò che conta è l’Amore che vince il male. E lo vince non perché è più potente: lo vince in modo pasquale.
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