“Ho scoperto come lavorare per servire gli altri”

Jesús San Miguel ha appena ricevuto il Premio Castilla e León per la Ricerca Scientifica e Tecnica. È Direttore del Servizio di Ematologia dell’Ospedale di Salamanca e vice-direttore del Centro di Ricerche sul Cancro.

Nato a Soria (Spagna), a 54 anni questo medico è il coordinatore della Rete Nazionale del Mieloma, dopo aver creato la Rete Europea del Mieloma (EUMM). Fra gli altri, ha ricevuto anche il Premio Internazionale Waldenström, il Premio Nazionale per la Ricerca, il Premio Nazionale di Oncologia e il Premio CEOE alla ricerca Scientifica in Scienze Biologiche. Con questo nuovo premio si è voluto riconoscere la “straordinaria qualità” delle sue ricerche nel campo dell’Ematologia, e in particolare del cancro di natura ematica, come la leucemia, cosa che gli ha permesso di scrivere più di 400 pubblicazioni, la maggior parte a diffusione internazionale, e di partecipare a 45 progetti di ricerca.

Come hai conosciuto l’Opera?

Si può dire che l’ho conosciuta “dall’altra sponda”. Abitavo a Burgos e, in seguito a varie circostanze, andai a studiare medicina all’Università di Navarra. Alloggiavo nella Residenza Universitaria Belagua, gestita dall’Opus Dei. Ero stato messo in guardia, dai miei genitori e da alcune altre persone, a non avvicinarmi all’Opera neppure lontanamente. La verità è che ero pieno di ogni tipo di pregiudizi contrari all’istituzione.

Però ora sei un membro dell’Opus Dei…

Sì. Ho chiesto l’ammissione all’Opera nel 1974 quando ero al quarto anno di Medicina.

A che cosa fu dovuto il cambiamento?

Alla conoscenza più approfondita delle persone dell’Opera (alcune ormai sono miei grandi amici). Ero rimasto sorpreso dal contrasto abissale che c’era fra l’idea che io avevo, piena di pregiudizi, e la realtà. La vita e il comportamento di quelle persone mi fece riflettere a lungo.

Ma da questo a chiedere di farne parte…

È stato un processo lento di sorpresa e di assimilazione. L’idea di santificare gli studi, il lavoro, mi affascinava. A sua volta, mi sorprendeva e mi attraeva l’affetto che trovavo nella Residenza Universitaria.

A che cosa ti riferisci?

Soprattutto all’ambiente di famiglia che ho trovato. Per esempio, mi buscai un’influenza molto forte che mi tenne a letto per più di una settimana. Ma in ogni momento mi sentivo molto protetto, come se mi trovassi a casa mia. Persino il cappellano mi portava il pranzo e si fermava un bel po’ a farmi compagnia.

E questo fu decisivo?

No; in realtà fu solo una goccia fra le tante che alla fine riempirono il bicchiere; un po’ alla volta apprezzavo la coerenza di vita di molte persone. In Residenza ho avuto modo di notare la pluralità delle idee politiche e sociali dei fedeli dell’Opera; niente a che vedere con la montagna di luoghi comuni che avevo nella bisaccia quando ero arrivato lì.

Prima mi parlavi della santificazione del lavoro…

È stato un fattore decisivo. Devo riconoscere che ero un po’ secchione. Avevo grandi ideali professionali. Le prospettive che mi si aprivano per il futuro lavoro come medico mi apparivano appassionanti, sognavo di arrivare molto lontano… Ebbene, scoprire che questo lavoro non era un ostacolo, ma il migliore degli strumenti per unirsi a Dio e compierlo con una disposizione di servizio agli altri significava dare una svolta radicale ai motivi che fino allora mi avevano mosso: mi insegnarono che invece di lavorare per “qualcosa” avrei lavorato per “qualcuno”…

Altri aspetti importanti?

Un’altra questione che mi sembrò inaudita fu rendermi conto che il matrimonio era una delle vocazioni cristiane. Mi sembrò sorprendente, non lo avevo mai considerato in questo modo. Ero molto attratto dall’idea di condividere la vita con la donna di cui mi fossi innamorato, di formare una famiglia, di godere con i figli. L’idea che questo fosse una cosa voluta da Dio mi aprì una prospettiva assai più che nuova. Lavoro e famiglia erano e sono due aspetti fondamentali della mia vita. Abbiamo sei figli. Nei Congressi molti colleghi di tutto il mondo mi conoscono come il “family man”.

Anche tua moglie è dell’Opus Dei?

Sì; questo facilita molte cose, ma avrebbe potuto andare diversamente perché la vocazione è personale. Nel matrimonio l’aspetto più importante è condividere un progetto comune di vita, cosa che è di estrema importanza al momento di educare i figli.

A volte si dice che i figli creano molti problemi…

Sì, ma anche molte gioie. L’importante è sforzarsi ogni giorno di cercare il loro bene, unendo un alto grado di affetto alla trasmissione di una educazione umana e cristiana solida e coerente. Questo mi ha indotto a farmi coinvolgere, insieme ad altri genitori, in un progetto educativo nella città, una scuola che ormai conta circa 600 alunni. Grazie a Dio, sto avendo una gran fortuna con i miei figli. Due sono dell’Opus Dei e li vedo molto felici. Tutti i giorni chiediamo che tutti siano buoni figli di Dio.

Quelli che sono dell’Opera non potrebbero essere un po’ condizionati dal fatto che lo siete tu e tua moglie?

Li abbiamo educati in un clima di grande libertà e abbiamo cercato di dar loro il meglio di noi. Sono stati loro, liberamente, “perché ne hanno avuto voglia”, a scegliere questa strada e sembrano felici. Noi, guardandoci bene dallo spingerli, abbiamo parlato loro con chiarezza di quanto sia duro il cammino che iniziavano e che l’importante in ogni cammino non sono le attrattive iniziali ma la perseveranza per arrivare alla meta.

In effetti oggi i giovani non l’hanno chiaro…

Abbiamo anche detto che non saremmo stati sempre accanto a loro… Come stanno le cose, nessun giovane “può andare per la sua strada” se non ha un grado elevato di libertà. Oggi esercitare la virtù non è facile, anche se io ho un concetto della gioventù molto positivo. Basta mostrare con sincerità ai ragazzi la via del bene, una via che è più esigente ma, allo stesso tempo, più attraente di ogni altra. E ti voglio dire una cosa: il più grande fallimento nella mia vita sarebbe stato il non aver aiutato un figlio a trovare Dio.

Sei Direttore di un Servizio che in Spagna gode di un grande prestigio, e più precisamente del Mieloma a livello internazionale, e questo comporta molti viaggi e la partecipazione a molti congressi: come arrivi a tutto?

Quello del prestigio è un po’ esagerato e, comunque, è frutto del lavoro di una squadra di 100 persone. Costa un poco arrivare a tutto, ma, impegnandosi, ci si riesce.

I tuoi colleghi e i tuoi amici sanno che sei dell’Opus Dei?

Naturalmente. Lo sanno tutti, non solo quelli di Salamanca, ma anche i colleghi di altri Paesi che incontro in numerosi Congressi. Questo fa parte del mio concetto di amicizia. Non credo alle amicizie superficiali, mi piace andare alla radice (per esempio, non potrei, non saprei non intervenire in un problema familiare di un amico).

E parli loro dell’Opus Dei?

Ogni volta che mi è possibile. Sento la mia responsabilità di cristiano quando mi muovo nel mondo scientifico internazionale. Approfitto di tutte le occasioni per spiegare la mia fede, la mia vocazione e gli ideali che mi muovono. Accettano sempre le mie spiegazioni sui punti controversi della dottrina della Chiesa. Molti amici hanno ripreso a praticare la fede e ho messo molti in contatto affinché partecipino ai mezzi di formazione dell’Opera nei loro diversi Paesi d’origine.

Hai conosciuto San Josemaría?

Ho avuto la fortuna di partecipare a una riunione con lui nel 1972. Allora non ero dell’Opera e restai colpito dalla sua forza spirituale e dalla chiarezza dei messaggi. Mi sforzo di seguire il suo insegnamento di cercare la santità in mezzo al mondo. Personalmente, forse a causa del mio lavoro, mi piace molto una sua espressione. Soleva dire che l’Opus Dei è “una iniezione endovenosa nel torrente circolatorio della società”. Questa immagine, per un ematologo, ha un significato molto familiare.

Occorre essere speciali per far parte dell’Opus Dei?

Non bisogna pensare che le persone dell’Opus Dei siano migliori delle altre, assolutamente no. Siamo solo (ognuno di noi) un po’ migliori di ciò che saremmo se non avessimo questa vocazione (o almeno per questo lottiamo) e, con tutti i nostri difetti, cerchiamo il modo di contribuire a far sì che la società cammini più vicina a Dio.