Don Álvaro e la fede di una famiglia

A richiesta dei nostri lettori ripubblichiamo la storia di Matteo, un favore ottenuto da una famiglia cilena, convinta della potenza della fede e della preghiera, per intercessione di don Álvaro del Portillo.

Quel pomeriggio di novembre del 2008 i Johnson Undurraga, come tutte le domeniche, erano andati con i loro bambini in casa dei genitori, Hernán e Maria Cristina, a Huechuraba, vicino a Santiago del Cile. Dopo aver fatto mangiare Lucas, il figlio minore, Maria Cristina Johnson – familiarmente detta Maqui - andò a dare un’occhiata al piccolo Matteo, di un anno e otto mesi, che aveva lasciato a fare la siesta. Non avendolo trovato, pensò che fosse andato a vedere le galline, le sue preferite. Ma non ve lo trovò. Percorse tutta la proprietà e alla fine arrivò alla piscina, piuttosto lontana dalla casa, “nel caso che...”. Pensava che un bambino così piccolo non si avventurasse fin là. Non c’era nessuno. A un tratto, ritornò sui suoi passi e vide galleggiare una macchia arancione, lo stesso colore della camiciola di Matteo. Cominciò a urlare come una pazza, tirò fuori il bambino dall’acqua e supplicò suo padre, che intanto era accorso: “Salvalo!”.

“In vita mia non avevo mai fatto una respirazione artificiale – ricorda Hernán Johnson -, ma mi misi a insufflare aria attraverso la bocca di Matteo e a pregare con tutte le mie forze Gesù, don Álvaro del Portillo e la mia compianta madre Inés, una delle prime soprannumerarie dell’Opus Dei in Cile. Dato che aveva conosciuto bene don Álvaro, chiesi a mia madre di ‘importunarlo’ perché pregasse Gesù di ridare la vita a Matteo. Così saremmo stati in tre a rivolgerci al cuore misericordioso di Gesù.

Matteo è mio nipote e io confesso di avere un debole per lui. Quando tutti i giorni durante la Messa, dopo la Comunione, dico alla Madonna che rimetto nelle sue mani Gesù Bambino – secondo un’abitudine imparata da nostra madre -, io immagino il bambino Gesù con il faccino di Matteo”.

Hernán continuò questa pratica per alcuni minuti che gli sembrarono una eternità, finché arrivò Jesús Brosel, il papà, che da buon catalano era ritornato a casa sua, nello stesso quartiere, per vedere in TV una partita del Barcellona . I due cercarono di fare uscire l’acqua dal corpo completamente inerte del bambino che, a quanto pare, era rimasto sott’acqua per 10/15 minuti.

Anche se avevano già chiamato un’ambulanza, per guadagnare tempo, misero Matteo in un’auto e si diressero a Santiago, insieme a una pediatra amica e a una zia che si trovavano in casa.

“Io non sapevo se pregare o svenire”

“Mia zia aveva alcune immaginette di don Álvaro e ci disse di pregarlo perché avevamo bisogno di un miracolo. Io non sapevo se pregare o svenire per dimenticare tutto e svegliarmi poi come da un incubo”, racconta Maqui, la mamma. “La zia mi incoraggiava, dicendomi che era sicura che mio figlio si sarebbe salvato. Recitammo nove volte la preghiera dell’immaginetta finché incrociammo l’ambulanza che veniva scendendo da Vespucio. Si fermò e vi trasferimmo Matteo. Appena lo videro, gli infermieri ci dissero che ormai il bambino era morto e che era inutile intubarlo. Invece la pediatra che era con noi li convinse a inserire l’ossigeno, dicendo che ancora il polso si sentiva, anche se debolmente, e che del resto ‘con i bambini tutto può accadere’. Mentre trasferivamo Matteo, per strada cominciò a radunarsi una grande folla, e mia zia ne approfittò per distribuire le immaginette di don Álvaro a quelli che erano in macchina, ai curiosi e persino ai lavavetri, chiedendo a tutti di pregare per il bambino”.

Dato che l’Ospedale Roberto del Río era il più vicino, lo portarono là. I medici che lo accolsero non diedero speranze: era molto difficile che Matteo sopravvivesse, e in ogni caso le conseguenze sarebbero state assai severe.

Conoscenti e sconosciuti cominciarono a pregare

“Io ero assolutamente sicuro che Gesù lo avrebbe salvato – dice il nonno -, e pregavo con una fiducia assoluta. Quando due miei figli arrivarono piangendo, io mi arrabbiai con loro per la loro mancanza di fede”.

Maria Cristina Undurraga, la nonna, racconta che lei fece scorrere una immaginetta con una reliquia di don Álvaro per tutto il corpicino immobile di Matteo “perché la guarigione fosse completa e non rimanessero conseguenze nel cervello e neppure nelle estremità”.

Appena si sparse la notizia, parenti, vicini di casa, amici, conoscenti e sconosciuti cominciarono a pregare. Ogni giorno, alle 12, insieme con l’Angelus si recitava la preghiera dell’immaginetta di don Álvaro. Nel pomeriggio la gente si pigiava nella piccola chiesa di Gesù speranza dei poveri , a Huechuraba, per raccomandare Matteo al Signore.

“Mia zia Tere, numeraria dell’Opus Dei, mi portò le mail arrivate da varie parti del mondo, nelle quali si diceva che stavano pregando per mio figlio: Singapore, Israele, Roma, Madrid, Concepción...”, dice Maqui.

“Quando la gente pregava, Matteo migliorava”

“Era straordinario: ogni volta che la gente si riuniva per pregare, Matteo aveva un miglioramento - afferma suo padre, Jesús Brosel -. Il primo avvenne la stessa domenica, quando gli hanno punto un dito del piede e lui ha ritratto la gamba. Lunedì sono arrivato in ospedale di buon mattino e ho cominciato a carezzargli la testolina e a dirgli all’orecchio qualche parola in catalano. Quando gli ho preso la manina, s’è mosso con tutto il corpo. I dottori ci dissero che era un buon segno, ma ci raccomandarono di non farci illusioni, perché era quasi assolutamente sicuro che il bambino avrebbe passato il resto della vita su una sedia a rotelle. Eppure, un po’ alla volta andò migliorando. Martedì a mezzogiorno lo staccarono dal respiratore artificiale e gli lasciarono una mascherina. Poi alle sette e mezzo della sera, quando tutti erano a Messa, gli tolsero l’ossigeno perché non ne aveva più bisogno. Per la prima volta disse papà , mamà , e chiese l’acqua e il ciuccio. Queste due reazioni positive sono avvenute nei momenti in cui la gente era riunita per pregare”.

Mercoledì i medici dichiararono Matteo fuori pericolo; poteva lasciare la rianimazione, ma raccomandarono di trasferirlo in una clinica privata perché il personale dell’ospedale era in sciopero e l’assistenza in corsia non sarebbe stata la migliore.

Arrivato nella clinica gli hanno fatto una risonanza magnetica, da cui risultava una profonda lesione nel ganglio basale, cosa che caratterizza i malati di Parkinson. Il bambino non riusciva a rimanere seduto né a tenere la testa eretta. Tuttavia lo stesso medico assicurò che il risultato della risonanza non corrispondeva allo stato del bambino. “In base al risultato dell’esame, il bambino dovrebbe essere completamente prostrato”, affermò. Comunque, Matteo prese fra le mani l’accendino che gli aveva passato suo padre e poi glielo restituì; riconosceva i genitori e poteva parlare.

“Non c’è una spiegazione medica”

“Questo è un vero miracolo – dichiarò il dottore -. Non c’è una spiegazione medica per quello che sto vedendo”. Giovedì cominciò a rimanere seduto. Gli fecero un nuovo esame: “perfetto”.

Racconta Jesús: “Un giovane medico dell’Università delle Ande, amico di un cugino di Maqui, che stava facendo pratica nella clinica, venne a fare con me una romeria in un santuario mariano. Il dottore che aveva appena fatto l’esame a Matteo si avvicinò e disse: ‘Vengo anch’io a pregare con voi perché quello che sto vedendo non riesco a spiegarmelo”.

“La neurologa che l’assisteva ci disse che non dovevamo illuderci, perché Matteo non sarebbe stato lo stesso di prima, ma sarebbe stato necessario insegnargli a camminare e anche a parlare. Le abbiamo domandato se Matteo sarebbe potuto tornare a casa camminando con i suoi piedi e la risposta è stata recisa: niente da fare . Forse avrebbe camminato dopo una lunga riabilitazione di un anno o due. Allora – raccontano Jesús e Maria Cristina - abbiamo cominciato a pregare con più fervore perché il miracolo fosse completo e Matteo potesse uscire dalla clinica camminando. Così sarebbe stato evidente che Dio ci stava ascoltando e che il ricupero era miracoloso”.

“Ora il signor Del Portillo si sta prendendo cura di me”

“Domenica mattina mi sono svegliato nella clinica molto presto, intorno alle sei, e ho cominciato a pregare: Signore, mi devi aiutare. Io ero sicuro che mio figlio si sarebbe ripreso, perché noi abbiamo perduto una figlioletta e in qualche modo sentivamo che Dio ci aveva inviato Matteo come regalo. Ho preso il bambino dal lettino, l’ho messo a terra davanti la porta della camera e gli ho detto: ‘Vieni verso di me’. E ha cominciato a camminare”, ricorda Jesús, mentre balbetta per l’emozione.

Martedì, giorno in cui finiva la novena a don Álvaro, alla fine della Messa vespertina nella cappella Gesù speranza dei poveri a Huechuraba, il Vescovo monsignor Infante, che aveva celebrato tutte le Messe per Matteo, annunciò: ‘Ho una sorpresa per voi’. Nella navata centrale, tenuto per mano da Jesús e Maqui, Matteo veniva avanti camminando..., completamente guarito.

“La gente si mise a piangere per la gioia e per l’emozione – racconta la nonna -, perché si toccava con mano che il Signore era con noi e ci aveva ascoltato. È stato meraviglioso. La cosa più bella è che persone lontane dalla fede si sentirono rimescolare dentro e la figura di don Álvaro, che molti non conoscevano, diventò quella di un amico. Certe volte, quando da Vespucio scendiamo verso Huechuraba, uno dei lavavetri prima ci domanda notizie di Matteo e poi tira fuori dalla tasca l’immaginetta di don Álvaro e ci dice: “Ora il signor Del Portillo si sta prendendo cura di me”.